Racconti 25-32



N.25  L’Innocenza

 

“Iddio creò l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò; lo creò maschio e femmina. …Poi il Signore Iddio piantò un giardino in Eden…prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, affinché lo coltivasse e lo custodisse…Allora il Signore fece cadere un sonno profondo su Adamo e mentre dormiva prese una delle sue costole…poi con la costola tolta all’uomo formò la donna…ora tutti e due erano nudi, ma non ne provavano vergogna…”  Perché?
Erano innocenti! Non avevano ancora assaporato il frutto dell’Albero del bene e del male. Era il loro uno stato di non-colpevolezza involontaria, perché ancora non c’era stata l’occasione della colpa…ma dunque è questa l’Innocenza?  Sì, ma solo se si è retti perché “se qualcuno non è retto egli ha disgrazia”, cioè si è veramente innocenti solo se non ci si lascia fuorviare da altri, dal serpente, per esempio…che “retto” non è e diritto non va, ma procede a zig-zag. 
Mentre era immerso in questi pensierini, Lamed, il giovane biondo, solito protagonista delle nostre storielline decise di iniziare un viaggio a ritroso nel tempo e di impersonale L’a(e)dam primitivo…fu così che si ritrovò proprio al centro di quel famoso giardino con la sua Eva accanto, nell’età dell’Oro, quando gli “Antichi Re curavano e alimentavano, ricchi di virtù e in armonia col tempo tutti gli esseri”, insomma quando era possibile “vedere il proprio Re e ascoltarne direttamente le raccomandazioni del tipo: “Tu puoi mangiare liberamente di ogni albero del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non mangiare! Poiché il giorno in cui ne mangiassi di certo morresti!” (1)
…Eccolo lì dunque L’a(e)dam, oltre un velo di tempo di quasi diecimila anni che passeggia in giardino con Donna…eh, sì se la tiene vicino, molto vicino, la tiene d’occhio perché sa che lasciata a se stessa può combinare guai! Ovviamente nei pressi c’è anche Serpente che, attorcigliato ad un albero, “quell’Albero” aspetta pazientemente che Donna si trovi un attimo sola per porle la fatidica, mortale domanda: “E’ vero che Iddio ha detto: Non mangiate del frutto di tutti gli alberi del giardino?”
Ma aspetta, aspetta L’a(e)dam non la lascia mai…che fare? Lui è lì solo per quello, per porre quella domanda e “deve” svolgere il suo compito…alla fine, stanco di aspettare decide di tentare di sedurre i due insieme e inizia: “E’ vero che Iddio ci ha detto…ecc. ”

(1) Gn. 2, 16-17

Ma il binomio Uomo-Donna non è facile da manipolare: Serpente non riesce nemmeno a finire la frase che già l'’(e)dam lo assale: "E tu come sai quello che Dio ha detto? Se non c’eri non lo dovresti sapere, se c’eri, perché lo chiedi?”
Non c’è niente di peggio per un serpente, accusatore per eccellenza, che diventare tutt’a un tratto accusato: “Certo che c’ero” risponde.
“E allora che vuoi da noi? Tu che hai già mangiato il frutto dell’Albero del bene e del male, perché non sei come Dio? Il tuo aspetto non mi pare tanto divino, ma solo serpentino, anche se con volto umano! Se tu fossi come Dio non avresti bisogno di venire qui a tentarci ma ti saresti già creato il tuo uomo-donna da cui farti ubbidire, no?"
A queste parole delL’a(e)dam Serpente rimane sconcertato…i conti non tornano… questa coppia è piuttosto smaliziata, altro che innocente però almeno un altro tentativo di convincimento deve farlo, così insiste: “Perché non volete essere autonomi e autosufficienti? Noi tre insieme possiamo tutto, voi con me per guida, potete diventare i signori di tutto il creato… non vi sembra una buona idea poter fare il bene e il male liberamente e a vostro piacimento?”
Donna sta per rispondere, ma L’a(e)dam la fa tacere, perché lui è sveglio e lei sogna e non sa che non deve rispondere a Serpente. Chi il male l’ha conosciuto non può volerlo liberamente, perché il male di chiunque è il proprio male…
E ora che fa L’a(e)dam? Prende Donna e si unisce a lei, afferra Serpente e lo costringe ad  avvolgersi intorno ai loro corpi uniti; poi spalanca le sue braccia insieme a quelle della sua Donna e così prega: ”Signore Iddio, Eterno Io Sono, l’uomo che tu hai creato maschio e femmina, reso Croce vivente, ti offre il frutto del suo amore e della sua libertà e innalza a Te il Serpente sulla Croce, affinché Tu ti degni di accoglierlo perché redento…”
Si ode un forte tuono, poi le nubi si aprono e dal Cielo scende la Voce:” Questo è il mio Figlio diletto nel quale mi sono compiaciuto. (Matteo 3,17)
…Scomparsa la nube Lamed si ritrovò seduto dinanzi al solito tavolino con il libro dell’I King in mano a studiare l’Innocenza.
Ora si sentiva davvero “Innocente” cioè incapace di nuocere a chicchessia… perché vedeva tutto con occhi nuovi, con gli occhi di chi, ri-nato come Figlio, nella piena Coscienza dell’Unità della Vita del creato vede Sé in tutti gli esseri e “ricco di virtù e in armonia col tempo li alimenta e li cura”.

 

 

N.26  La Forza Domatrice Grande

 

Il Maestro accolse nella stanza del Sanzen il Discepolo come tutte le altre mattine. Il Discepolo doveva esprimere il suo Zen sul Koan assegnatogli: “Che cosa è la Forza Domatrice Grande?” Egli, giunto ai piedi del Maestro, si inchinò profondamente. Il Maestro pose la domanda, l’allievo rispose esitando: “La Forza Domatrice Grande è…l’Amore”.
“Nii! La risposta è sbagliata!” Tuonò il Maestro. “Quattordici anni fa ti feci la stessa domanda e mi rispondesti “La Saggezza”. Sette anni fa mi dicesti “Il Potere”. Ora mi parli dell’Amore. Tu non hai capito nulla di nulla! Giustifica la tua risposta oppure ritirati e continua a studiare il tuo Koan!”
Il Discepolo tutto mortificato stette un attimo incerto: non ricordava di aver risposto già altre due volte a quella stessa domanda del Maestro, anche perché si trovava in quel monastero solo da 5 anni e non da 14. Ma sicuramente se “Lui” affermava di aver ricevuto già quelle due risposte  in precedenza, doveva essere sicuramente vero – in qualche modo -. Forse era dentro di sé che tentava di risolvere quel Koan già da 14 anni, senza trovare la giusta soluzione.
Quattordici anni! Due cicli (7x2) completi di esperienze e di esercizi, di compiti e di prove… Ecco, forse avrebbe dovuto riesaminare quei trascorsi 14 anni. Era questo che intendeva il Maestro? Perché poi aveva pronunciato quella parola: “Amore”? Era vero che lui dell’Amore conosceva poco…forse niente… in effetti aveva sempre pensato che Saggezza e Potere fossero in un certo qual modo più importanti, o che almeno venissero prima…Perché come può il Figlio (Saggezza) “amare” il Padre (Potere) se non Lo “conosce”? Per questo aveva sempre studiato, per conoscere il Soggetto-Oggetto dell’Amore… e forse aveva fallito! Mentre così rifletteva il Discepolo sentì lo sguardo carico di rimprovero del Maestro…stava solo divagando e non certo rispondendo alla domanda rivoltagli. Avrebbe dovuto giustificare quella parola “Amore”, lasciatasi sfuggire così superficialmente, con una risposta Zen. Subito, subito!…
Altrimenti la bacchettato d’uso non si sarebbe fatta aspettare…
E difatti arrivò. Lo shippei, rapido colpì la sua spalla destra con dolorosa risonanza. Il Discepolo allora si inchinò per la seconda volta e uscì dalla stanza del Sanzen. Era quello il periodo del Sesshin ed egli sarebbe dovuto ritornare immediatamente nella sua cella e lì avrebbe dovuto studiare per altre 24 ore il Koan, onde tentare di ripresentare il suo Zen al Maestro il mattino dopo. Tuttavia quel giorni il Discepolo, invece di rintanarsi nella sua cameretta, non visto, uscì dal monastero e si avviò per il viottolo di campagna che si snodava lungo il fiume verso il monte lì vicino, sempre alla ricerca della “risposta giusta”.
Cammina cammina giunse ai piedi del monte. Era quella la passeggiata abituale dei monaci ed egli conosceva quel tratto di vallata a perfezione: albero per albero, pianta per pianta, ciottolo per ciottolo. Lì andavano sempre in cerca di erbe medicamentose, lì praticavano gli esercizi all’aperto…Ma che cosa c’era di diverso quel giorno? Proprio ai piedi della montagna, là dove iniziava la salita che conduceva alla cima, c’era una fenditura…come un ingresso ad una grotta che non aveva mai visti in quei cinque anni di passeggiate  lì intorno.
Ristette un attimo indeciso: doveva proseguire o andare a vedere che cosa c’era là dentro? Lo spirito d’avventura e la curiosità prevalsero, naturalmente e, dopo pochi minuti era già entrato.
L’ingresso della grotta era molto stretto, ma subito dopo il tratto iniziale si allargava notevolmente e diventava una comoda galleria.
Shin, tale era il nome del Discepolo, non aveva lampada con sé…ma non era necessario, perché le pareti della grotta emanavano una luminescenza più che sufficiente per vederci chiaramente.
Shin guardava affascinato quelle pareti che formavano arco sulla sua testa: erano tutte istoriate con simboli, alcuni conosciuti, come simboli alchemici, altri strani, insoliti, come messaggi di un linguaggio extraterrestre che però, in qualche modo, gli era familiare: emanavano tutti un’attrazione strana, irresistibile, come se si verificasse un mutuo riconoscimento tra lui e la grotta: due entità della stessa matrice. Al termine della galleria Shin si ritrovò in una sala enorme dal soffitto altissimo, quasi senza fine, di colore blu cupo, con tanti punti luminosi: un cielo pieno di stelle. Circa al centro di quella sala di forma perfettamente circolare era situato un altare di pietra di forma cubica con sopra una figura di Donna in piedi, tutta d’oro, appena velata, bellissima.
Tutt’intorno 4 statue di giada, raffiguranti rispettivamente da sinistra a destra a uguale distanza tra loro, come a terminare i quattro bracci di una croce greca: un toro, un angelo, un’aquila, un leone. All’interno delle quatto statue un cerchio viola e, davanti all’altare, al centro del cerchio, incastonato nel pavimento, uno specchio luminoso di 33 cm. di diametro.
Shin rimase qualche secondo in ammirazione, al di fuori del cerchio, tutto preso da reverenziale timore per la sacralità del luogo; poi, come spinto da una forza interna, spontaneamente avanzò fino al centro del cerchio, davanti all’altare, ponendo i suoi piedi sullo specchio, mentre le quattro statue di giada, divenute vive, cominciavano a ruotargli intorno. Una corrente d’Amore fortissima per la Donna rappresentata dalla statua d’oro lo pervase tutto, mentre una triplice fiamma rosa, blu e oro lo avvolse completamente.
La Donna dell’altare, rispondendo alla sua corrente d’Amore, si animò e, aprendogli le braccia, così disse: “Tu oggi, avendo recuperato il ricordo dei simboli della creazione, conosci la Verità della Forza Domatrice Grande: il Cielo dentro il Monte: il Ciò che tiene unita la manifestazione. Non c’è separazione tra Saggezza, Potere e Amore, né successione nel tempo. Ardere pienamente con una Fiamma è “Essere” Tutte e Tre; ma per poter veramente consumarti in Esse devi rendere vivi e operanti in te i signori dei Quattro Elementi, quelli che ti stanno vorticando intorno e che non ti avrebbero permesso di giungere a me se non ne fossi stato degno… Tu ed Io siamo Uno…Non c’è altra verità da conoscere…”
……. Shin si guardò intorno: era l’alba del giorno dopo, si trovava in aperta campagna, ai piedi del solito monte, proprio nel punto in cui il giorno prima aveva “visto” l’ingresso della grotta. Non c’era alcuna apertura, nessuna galleria sotterranea.
Se non si fosse affrettato sarebbe arrivato tardi all’incontro quotidiano col Maestro.
Tornò rapidamente al monastero. Venuto il suo turno, entrò nella stanza del Sanzen.
Il Maestro lo guardò diritto negli occhi e, senza chiedergli nulla, sorrise.

 

 

N.27   L’Alimentazione

 

Giove, Padre degli Dei e Re dell’Olimpo, una mattina  all’alba convocò Ebe, la coppiera, e la incaricò di procurarsi tanto nettare e ambrosia quanto ne poteva bastare per 7 convitati: per lui stesso prima di tutto, quale padrone di casa, e poi per gli ospiti; Marte, Elio, Venere, Mercurio, Selene e Gea.
“Prepara la tavola nella sala dei banchetti detta di Cronos e avverti subito Mercurio, quale messaggero ufficiale,  di invitare tutti gli altri, quelli che ti ho nominato”.
“A che ora debbo servire il pasto?” Chiese Ebe.
“A mezzogiorno in punto”.
Così ordinò Giove e maestosamente si ritirò nelle sue stanze in attesa del simposio. Allo scoccar del mezzodì il Padre degli Dei si affacciò alla porta della sala detta di Cronos per vedere se tutti erano arrivati… ma, sorpresa! La sala era deserta. Suonò il campanello della servitù: Ebe si presentò subito: “Padre Giove, tutto è pronto come tu hai ordinato”…però poi Ebe dette un’occhiata alla sala e, non vedendo nessuno esclamò: “Ah, gli ospiti non sono ancora giunti…ma io ho avvertito subito Mercurio, come mi avevi ordinato…forse non avrà fatto in tempo…”
In quel momento giunse Mercurio tutto trafelato e si scusò per il piccolo ritardo: “Non riuscivo a trovare Elio che si era nascosto dietro una nuvola…” Intanto anche lui si era guardato intorno: “E gli ospiti dove sono? Io li ho invitati tutti e cinque e mi avevano assicurata la loro presenza…a meno che non sia successo qualcosa!”
Passarono circa dieci minuti durante i quali sulla fronte di Giove la ruga centrale si fece sempre più profonda…poi un terribile tuono si produsse sull’Olimpo…Padre Giove stava perdendo la pazienza! Come! Lui, il Re, invitava gli Dei ad un banchetto per nutrirli di nettare e ambrosia e quegli ingrati non solo non si presentavano, ma neanche si scusavano… Per la verità Giove non avrebbe dovuto inquietarsi in quel modo e così su due piedi…avrebbe dovuto invitare i suoi ospiti almeno altre due volte e solo al loro terzo rifiuto di partecipare al banchetto avrebbe potuto dire come quel Re famoso: “Il banchetto è pronto ma gli invitati non ne erano degni…andate ai crocicchi delle strade e tutti quelli che trovate chiamateli…ecc.(Mt  22,8)
E infatti Giove fece esercizio di autocontrollo e decise di rispedire Mercurio a ripetere la chiamata. Mercurio aveva appena riaperto le ali dei piedi che…i battenti della porta della sala di Cronos si spalancarono e…eccoli, finalmente! Tutti in fila: Marte, Elio, Venere (Mercurio prese subito il suo posto, richiudendo le ali dei piedi) Selene e Gea.
La fronte di Giove di spianò e la bocca semicoperta dalla barba fluente si aprì in un sorriso di soddisfazione. Ah, erano venuti, dunque…era sempre lui a comandare. Ma quale era il motivo del ritardo? Lo spiegò Marte per tutti:  non avevano capito che la sala era quella di Cronos  e stavano girando per tutte le stanze dell’Olimpo, quando il “tuono” li aveva guidati lì…Un tuono dentro il monte: non poteva che provenire  da Giove stesso. Non c’era stata cattiva volontà, dunque, ma solo disattenzione…dopotutto se il banchetto fosse stato in un’altra sala, non ci sarebbe stato alcun ritardo!
L’Anfitrione accettò le scuse e prese posto a tavola. Questa era come formata da tre tavolini in fila accostati tra loro agli angoli, di punta, così da formare una triplice losanga. Giove si era seduto nel posto più vicino alla “Dispensa” e aveva indicato a Marte l’angolo di fronte del tavolo. Elio fu fatto accomodare trai due angoli, nella congiunzione dei due tavoli; alla sua destra sedette Venere e di fronte Mercurio. Selene ebbe il posto in corrispondenza con quello di Elio, tra i due angoli di congiunzione, e Gea fu fatta sedere in fondo, ad occupare l’ultimo angolo dell’ultimo tavolo. Il banchetto ebbe inizio: Ebe, proveniente dalla Grande Dispensa servì Giove e riempì la sua coppa di nettare e ambrosia; poi passò a Marte, a Elio, Venere, Mercurio e Selene. Infine essa giunse a Gea, l’ultima nell’ordine sociale, la più isolata rispetto agli altri, essendole stato assegnato come posto quell’ultimo angolo dell’ultimo tavolo.
Ebe versò nella sua coppa tutto quello che era rimasto nelle sue anfore: poco. Gea protestò subito dicendo che, data la sua posiziona bassa, di base, e le sue necessità veramente terrestri, aveva bisogno di almeno il triplo del nutrimento che era stato elargito agli altri Dei e poiché Ebe le aveva mostrato le anfore vuote per tutta risposta, allora si era rivolta a Selene affinché le prestasse un po’ del suo alimento. Selene girò la richiesta a Mercurio che subito si rivolse a Venere. Venere chiamò in causa Elio e questo Marte, così si arrivò a Giove. Giove, quale padrone di casa e rappresentante la Giustizia doveva sapere come agire (o meglio come non-agire) in una simile situazione per armonizzare i suoi convitati. Certo è saggio che “il nutrimento entrante nella bocca non oltrepassi la misura” ma è altrettanto saggio che il nutrimento entrante nella bocca non sia inferiore alla misura. E Gea aveva lamentato questa insufficienza. Intanto tra le varie Divinità si discuteva. Si erano già formate tre fazioni: Marte e Mercurio dicevano che ciò che era stato dato a Gea era sufficiente; Elio e Selene pensavano che quella quantità di cibo avrebbe potuto essere sia sufficiente che no; Giove (lui stesso, dunque) e Venere temevano che non lo fosse realmente.
Bisognava decidere qualcosa. Giove ci pensò su poi chiamò Ebe e le ordinò di tornare in Dispensa a riempire le anfore e di iniziare poi nuovamente a “servire”, ma non con il criterio separativo di prima, come se invece, la tavola fosse un’unica grande coppa. Doveva mutare il sistema di distribuzione. Che si organizzasse!
Ebe si ritirò nella Dispensa. E aspetta, aspetta, non tornava mai. Gli Dei cominciavano ad innervosirsi. Finalmente la Coppiera riapparve con un messaggio del Grande Dispensatore per Elio.
Lui era l’unico che poteva compiere la trasformazione della distribuzione, essendo nel più alto posto centrale: avrebbe dovuto subito allungare i suoi raggi in modo tale da costruire i regolari collegamenti tra le coppe delle varie Divinità. Elio all’inizio non era convinto dell’utilità di questa sua prestazione, ma poi, dopo aver fatto penetrare un raggio direttamente in Dispensa “vide” lo schema di canalizzazione “giusta”, lo comprese e lo attuò.
Ebe doveva immettere il nutrimento nella coppa di Giove solamente, il resto sarebbe venuto da sé.
Giove “alimentandosi” seppe che tutto era giusto e produsse; Marte alimentandosi conobbe la sua forza e concentrò; Elio che si era già sacrificato, nutrendosi, splendette.
Il grembo di Venere a sua volta assimilò e partorì, Mercurio, assunto il giusto cibo, operò; Selene opportunamente alimentata anche lei, rifletté Elio e illuminò Gea che finalmente nutrita secondo le sue vere necessità tramutò il suo nettare e ambrosia in Vera Coscienza da rendere agli altri Dei, attraverso lo stesso canale di distribuzione, fino a farlo ritornare al Grande Dispensatore.
E per la prima volta gli Dei furono tutti d’accordo!

 

 

N.28  La Preponderanza del Grande

 

Il Discepolo chiese al Maestro: “Come è possibile conciliare il godimento del qui e ora Zen con il distacco completo dell’azione senza azione? Non è questo tentativo di conciliazione impossibile nella pratica e contraddittorio, concepibile solo in astrazione mentale  o intuibile, ma non sperimentabile?
Se noi possiamo comparare il nostro mondo astro-mentale (racchiuso da un fragile fisico e protetto da un non ancora completamente sviluppato mentale superiore) a quella “Preponderanza del Grande” che rappresenta un accumulo di sentimenti e pensieri sempre pronti a “straripare” e a sommergere l’Albero o a far “piegare la trave maestra”, come è possibile sperimentarlo reintegrativamente?”
Il Maestro rispose: “Propizio è avere ove recarsi. Così il nobile quando sta solo è spensierato e quando deve rinunciare al mondo è intrepido”. Così detto, scomparve. Il Discepolo aveva ora gli elementi per la soluzione del problema. Doveva solo elaborarli.
Ora egli poteva andare a passeggiare e a riflettere sulla riva del mare, oppure recarsi a meditare sulla cima della montagna più vicina…ma il vento dei suoi pensieri lo sospinse verso il lago dei suoi sentimenti…per la strada che passava dal bosco.
Quel sentiero era pianeggiante, gradevole; a destra, a sinistra era delimitato da cespugli intricati carichi di frutti coloriti e invitanti (erano velenosi?); subito dietro ai cespugli c’erano alberi di tutte le specie, di tutte le grandezze, di tutte le sfumature di verde. Quel vento che ora lo spingeva quasi con forza, sibilava tra le fronde della vegetazione, dando corpo alle ombre della notte, che pareva già prossima, benché ancora non fosse l’ora del tramonto.
A tratti il Discepolo veniva assalito dalla nostalgia di tornare a casa senza aver risolto il suo Koan…ma sapeva che sarebbe stato solo un rimandare il tempo della Verità. Nel bosco ora egli udiva risuonare echi strani, deformazioni della sua stessa voce, quella con cui si rivolgeva agli uccelli e alle piante per farsi compagnia… erano solo echi, ma così rielaborati da sembrargli lamenti provenienti da spazi infiniti. Che lo chiamavano. Poi si fece notte davvero e tutto il paesaggio intorno si incupì e si animò. Ogni radice, ogni erba, ogni pianta, ogni arbusto, ogni albero divenne un’entità palpitante e parlante.
…”Siamo noi, noi, noi…! Credevi forse di poter dimenticare  che il bosco ti ha sempre nutrito di sé con la sua dolce e prepotente vitalità? Ora che finalmente, attirato dai nostri richiami, sei proprio giunto nel cuore della selva…ora ci appartieni, sei nostro…!
Hai già quasi perduto l’orientamento e stai quasi per dimenticare la luce del giorno…Vieni, lasciati avvolgere da noi…devi solo rilassarti e dissolverti… Vuoi dormire, forse? Eccoti un letto di trifoglio profumato! Vuoi sognare? Ti accompagneremo fino alla riva del lago e lì le ondine e le sirene usciranno solo per te…per offrirti le loro danze ammaliatrici. Hai fame? Ci sono frutti dolcissimi dappertutto, solo da cogliere e da gustare…Sei triste? Il canto dell’usignolo ti rallegrerà e il drago del ruscello ti offrirà l’acqua dell’oblio…
Più Emdal (tale era il nome del Discepolo) avanzava nel profondo del bosco e più struggente e penetrante ne sentiva il potere. Al termine del sentiero giunse sulla riva del lago. Lì, stanco, si sedette. Dal lago, subito, come gli era stato promesso, uscirono le sirene e le ondine e, tutte insieme, in coreografia perfetta, cominciarono a danzare solo per lui mentre una musica ammaliatrice aleggiava nell’aria e lo avvolgeva tutto…
Emdal si sentì mortalmente stanco e stava per addormentarsi sotto la luna al chiarore madreperlaceo del lago…quando ricordò le parole del Maestro:” Propizio è avere ove recarsi. Così il nobile quando sta solo è spensierato e quando deve rinunciare al mondo è intrepido”.
Ecco, non doveva dormire. “Si” doveva recare in qualche luogo. Ma dove, “dove”? Quale era il “luogo”? E come trovare le forze, spossato come era, di alzarsi e andare? Come staccarsi da quelle sensazioni così dolci e penetranti che lo abbracciavano, lo riscaldavano, e lo assorbivano tutto?
Cercò in sé e, nell’angolo più riposto del suo cuore, ritrovò la volontà di seguire la Parola del Maestro e di obbedirgli.
Si rizzò in piedi e, recidendo il legame avvolgente del canto delle sirene, lottò contro il potere del lago e lo vinse. Poi avanzò deciso sulla sua riva e, trovato il “luogo” adatto, un’altura, come una lingua, che lo penetrava quasi fino al centro, da quel “luogo di potere”, guardò giù, dentro l’acqua e volle conoscerla. Volontariamente vi si tuffò. L’acqua fredda gli bagnò il capo e poi tutto il corpo.
Egli discese nell’abisso che voleva sedurlo per conoscere nell’intimo della loro essenza i mostri acquatici, le sirene, l’umido radicale. Li conobbe a testa in giù.
Discese giù, sempre più giù, fino a toccare il fondo. Ma dove erano e mostri? Dove le sirene e le ondine ammaliatrici? Dove la pericolosità dell’umido radicale? Sul fondo di quel lago lì si trovavano solo poche alghe e qualche anguilla inoffensiva. Quando Emdal riemerse dal bagno freddo, si scrollò di dosso l‘acqua che gli inzuppava ancora il vestito: era di nuovo sulla riva del lago e…tutto era tornato semplice e familiare: niente musica, né sirene, né draghi. Niente. Dinanzi a lui solo il Sentiero illuminato dal Sole risorgente: la Via per tornare a Casa.

 

 

N.29  L’Abissale

 

Il mare era nero quella mattina

La casa solitaria sulla spiaggia

Rabbrividiva alla luce dei lampi

Il cielo grigio e viola sussultava

Come scosso da un singhiozzo infernale

Dietro i vetri guardava affascinata

Il bacio della pioggia la chiamava.

Lei rispose e spalancò quella porta

Percorse un tratto d’asfalto lucente

Affondò i piedi nella sabbia molle

Fu giù giù nella nera massa liquida.

Il Sonno scese sul suo corpo stanco

L’accarezzò con dolcezza infinita

Tutto lo rinnovò. Era la morte.
Il cadavere della donna fu ritrovato all’alba del giorno dopo, gonfio e sformato, come tutte le salme che il mare restituisce senza averle decomposte, dopo una grande burrasca. Quale era la storia di quella giovane? Perché era morta così tragicamente? Era stata per alcuni anni l’amante di un personaggio politico in vista e, per tale motivo, nel corso dell’inchiesta regolamentare sulla sua morte, gli inquirenti avevano accettato subito l’ipotesi della disgrazia: un incidente avvenuto durante una passeggiata sulla riva del mare, quando i cavalloni erano più impetuosi; secondo il referto, uno più violento degli altri l’aveva colpita alle spalle e trascinata al largo. E in effetti la donna aveva l’abitudine di passeggiare all’alba sulla battigia in ogni stagione e con ogni tempo. Così avevano testimoniato i due servitori, una coppia anziana che abitava con lei.
Tutto era finito lì.
I due domestici poi erano stati liquidati e la casa venduta. Ma in realtà non era stato un incidente, bensì un suicidio, per un amore perduto, finito. Un volontario aderire all’autodistruzione, un lasciarsi assorbire dall’Abisso, dall’attrazione irresistibile del Pericolo senza fine, uno sciogliersi nel fascino del mistero che avvince e mette fine alla pochezza quotidiana, al tradimento, all’insicurezza, alla paura,  alla sofferenza della perdita definitiva di ciò che è stato caro e non può più esserlo. Amore e Morte raramente si esibiscono in danza diretta ma quando avviene il fatto sembra assurdo a chi guarda dall’esterno.
Amore dovrebbe unirsi con Vita, nell’idilliaco amplesso di due entità che si trasformano l’una nell’altra fino a che la loro energia si sbriciola in decadenza e si consuma inesorabilmente nell’appassimento del supporto fisico…ma le nozze dirette di Amore e Morte in un corpo giovane e bello impauriscono, sono tema di romanzi, di storie da raccontare, perché sono “salto nel buio” fanno scena…e così qualcuno per motivi apparentemente illogici a volte “salta” e precipita innaturalmente, violentemente, la luce del centro del cuore nell’abisso del centro del plesso solare, proprio mentre essa sta per risalire (o almeno dovrebbe risalire) ai centri più alti.
Quali sono le conseguenze dell’operare in tal modo ed esercitare tale violenza?
Si possono verificare due eventualità; la prima è che Netzach, il vaso,  il centro del plesso solare “ceda”. Allora, data l’irruenza della forza che ne fuoriesce c’è la rottura anche degli altri vasi o centri inferiori e l’individuo che ha permesso o voluto quell’inversione di energia si ritrova ai piedi dell’Albero con un cumulo di forza da governare che, quasi inevitabilmente, finisce con lo sfociare disordinatamente nel Malkuth, centro del fisico, dell’incarnazione successiva. L’altra eventualità verificabile è che Netzach “regga” il peso della rottura di Tiphereth, il centro del cuore. In tal caso il suicida si ritroverà solo a dover  ricostruire quel centro, Tiphereth e ad avere esperienze particolarmente “dure” su Netzach. Tuttavia questa seconda ipotesi presuppone che l’accumulo dell’energia in Tiphereth, prima della rottura, sia “bianco”, cioè che l’Albero del centro del cuore sia di reale donazione  e centralità. Era il caso della donna. Quale era stata allora la sua esperienza post-mortem? Quale “purgatorio” aveva fatto seguito al suo “errore”, alla sua scelta sbagliata? Forse il Sommo Poeta avrebbe punito la donna col farla correre sulla spiaggia per qualche secolo, continuamente inghiottita dai flutti… oppure le avrebbe fatto divorare il fegato e il cuore da qualche mostro marino… oppure le avrebbe fatto rivivere in continuazione la scena dell’ultimo addio con l’amante…
Invece la Legge aveva previsto per quell’errore una punizione molto semplice e dura: la donna, che con la morte si era addormentata solo per pochissimi tempo, al risveglio, in tutta la consapevolezza del suo corpo astrale sottile e leggero, sensibile e poco logorato, aveva assistito, contrariamente alle sue aspettative, alla INDIFFERENZA totale con la quale era stato accolto il suo teatrale-spettacolare gesto. Aveva visto da se stessa che l’enorme dramma costruito dalla sua fantasia non interessava nessuno e tantomeno il suo amato bene, soggetto-oggetto principale del suo sceneggiato. Allora le si era ridimensionata tutta la tragedia e, di conseguenza, trasformata in commedia. Aveva imparato così il Giuoco. Certo era rimasto l’atto di ribellione alla Vita da pagare. Ma quello l’avrebbe “saldato” nella successiva incarnazione con prestazioni di “Servizio” alla vita. Ecco infatti quale sarebbe stato il suo compito una volta rinata: stare a vedere l’acqua, la sua acqua salire, riempire tutte le incavature e arrivare alla meta e RIMANERE IN PIEDI; inoltre “incedere in durevole virtù ed esercitare l’arte dell’insegnante”.
Tutto molto semplice e perfetto, coma da Legge.

 

 

N.30  Il Risaltante

 

Un uomo, una donna: lei, Ra e lui Ha, dopo anni, forse secoli, di affannosa ricerca, finalmente si sono rincontrati: sulla riva del lago, dinanzi alla grande montagna, mentre l’ultimo guizzo di sole morente ha illuminato di un bagliore aranciato il loro sorriso; i piedi nudi, i cuori e le fronti arse dai tre fuochi e dai sette, essi rientrano nella Grande Casa che li ospita da sempre. Ora cominciano a ricordare: si inoltrano per i corridoi senza fine, salgono e scendono le interminabili scale, entrano ed escono dalla Casa a volte insieme a volte da soli, ma questo entrare e uscire svanisce quasi sempre dalla loro memoria come particolare inutile. Vanno e vengono: tutto all’inizio sembra sempre reale, tutto alla fine sembra sempre illusione. Di una cosa sola acquistano certezza: ogni volta che anche solamente  si intravedono di lontano nel giardino, in un salone o nell’atrio, tra di loro si accende il Fuoco.
Desidererebbero alimentarlo, accrescerlo, adorarlo, ma spesso, distratti da altre occupazioni o suoni o visioni, si lasciano assorbire dalle varie “correnti” della Casa e continuano a vagare ora a destra, ora a sinistra, ora in alto, ora in basso. Quello che li attira continuamente fuori della Casa è lo “splendore giallo” del sole esterno; quello che li attira sempre all’interno della Casa è il tepore costante del suo Fuoco centrale, il Focolare. Quando sembra che tutto possa divenire perfetto nel triangolo formato da loro stessi, Ha e Ra e il Fuoco, ecco che accade loro di “sospirare”, di lamentarsi del duro lavoro della giornata; questo non permette quell’abbandono sottile che produce, nutre e mantiene la Fiamma al suo “giusto” punto di ardore costante.
Talvolta ore l’uno, ora l’altra, passando, si ferma qualche attimo di più dinanzi al camino e getta improvvisamente sulle braci nascoste paglia e ramoscelli secchi…il Fuoco divampa allora troppo vivacemente e solo per pochi secondi…poi si fa di nuovo quasi buio.
Quando Ha e Ra si perdono di vista echeggia per tutta la Casa il loro pianto e non si quieta finché non si ritrovano e il ritrovarsi è la loro salute. Quando finalmente l’attenzione di entrambi si focalizza sul Fuoco, Ha si fa Re e con esso purifica Ra. Cessa dunque l’andare e il venire, lo stare e il tornare, il piangere e il ridere, l’espirare e l’inspirare.
Ha “guarda” ora nella Fiamma di Ra, “Vede” in essa la Sua, Quella che gli arde nel cuore da sempre e, affascinato, La insegue e scompare nel Suo vortice, nello stesso momento in cui L’ha ricompresa…
Ra resta sola. Chiama dapprima Ha a bassa voce, poi sempre più forte, sempre più disperatamente si concentra là dove l’ha visto scomparire.
Allora il pannello di velluto viola sopra il Focolare si gonfia a formare la proboscide dell’Elefante mitico e sopra quella si formano due lunghi e sottili occhi da Sfinge…
La visione del Guardiano della Soglia sta quasi per perdere Ra…essa sta quasi per identificarla col suo uomo…quando i due occhi sottili si dissolvono nell’unico occhio centrale, luminosissimo: ogni cosa comincia a girarle intorno sempre più in fretta, sempre più vorticosamente e, in estasi reintegrativa, tutto precipita nel ventre di lei: nello Ha-Ra.
Poi Nulla.
…… “Buon giorno, cara, ti sei Risvegliata, finalmente!”

 

 

N.31   L’influenzamento

 

Il maestro entrò nella sala di studio dello Zendo e si sedette nella posizione del loto, Si guardò intorno: nessuno. I monaci non c’erano. Ma come non era quella l’ora della lettura dei sutra e non era quello il primo giorno del Sesshin? Eppure la campana aveva suonato regolarmente…il maestro decise di attendere gli sviluppi della situazione ; ma, mentre era già in concentrazione, udì un leggero cinguettio, quasi un pigolio, provenire dall’angolo destro dell’aula, proprio dal fondo, ove erano ammucchiati i tappetini dei monaci, usati per sedersi per terra.
Il maestro, il cui nome era Dha-leth, si alzò e andò a vedere. Come era possibile che un qualche uccello avesse fatto il nido proprio lì e che già si sentisse pigolare? Il giorno prima, di sicuro, non c’era nulla del genere! Precisamente nell’angolino più nascosto Dha-leth vide 5 uccelli, indubbiamente maschi, a giudicare dalle piume e dalle altre caratteristiche, diversi l’uno dall’altro per misura, colore e razza; quattro erano semi-addormentati, uno di loro pigolava piano.
Dha-leth guardò la finestra lì vicino: era aperta. Di lì sono entrati e di lì usciranno, pensò. Prese dei chicchi di riso e grano che erano in offerta sull’altare e li porse agli uccelletti. Quello più sveglio mangiò e subito volò via, fece un giro fuori e poi tornò. Gli altri mangiarono e rimasero; Dha-leth li ricontò: erano 4.
Visto che ormai la sua concentrazione era stata interrotta, egli decise di andare ad indagare sull’assenza dei suoi monaci. Attraversò tutta la sala per uscire dalla porta che gli era di fronte e…con sua grande meraviglia, udì un altro cinguettio provenire dall’angolo opposto a quello in cui aveva trovato le 5 bestioline. Un cinguettio che proveniva dall’angolo sinistro rispetto all’altare della sala di studio. Dha-leth andò a perlustrare anche quella zona e, dietro un mucchio di rotoli di disegni, le esercitazioni di pittura dei monaci, scorse altri 5 pennuti, indubbiamente femminucce…sembravano infreddolite e con le penne un po’ arruffate. Dha-leth tornò all’altare, prese ancora grano e riso e lo diede al secondo gruppo di uccellini; uno di essi uscì dalla porta finestra che dava sul giardino, fece un giro intorno alla quercia e tornò dentro: Dha-leth ricontò le bestiole: erano 4.
Intanto dalla porta finestra erano entrati due monaci i quali, fatto l’inchino tradizionale al loro maestro, senza scusarsi per il ritardo, né per il loro strano comportamento, avevano posato due vaschette d’acqua e due piatti di frutta, dopo averli offerti al Buddha dell’altare, ai due angoli della sala dove erano gli uccellini; poi, dopo un secondo inchino, erano riusciti silenziosamente.
Nel frattempo la campana del monastero aveva cominciato a battere i suoi rintocchi; annunciava che il Roshi, il maestro-capo, voleva tutti, maestri e monaci nell’aula grande della meditazione. Dha-leth si avviò, come gli altri. Tutti presero posto ordinatamente in tre file: erano 22, col Roshi.
Il monaco di turno recitò il sutra di apertura dell’assemblea. Poi il Roshi parlò: “Monaci, sto per andarmene. Sarà mio successore ed avrà la mia ciotola e la mia veste chi saprà rispondere a questo koan: “Dieci numeri nulli, in corrispondenza alle dieci dita delle mani; cinque contro cinque. Al centro si ponga il patto unico in corrispondenza della parola data e della circoncisione fallica”. (Sepher Yetzirah)
Che cosa mi sapete dire? Se non saprete rispondere riceverete 33 colpi di bastone e dovrò restare qui per altri 10 anni”.
Nell’aula si fece il silenzio assoluto; nessuno osava dir nulla. Solo Dha leth si alzò e disse: “Sto aspettando da 1000 anni che tu te ne vada”.
“Non basta” rispose il Roshi, “parla ancora”.
“Sei uccelli si accoppiano; due vanno e vengono; due non ci sono mai stati. Uno solo è”. Disse Dha-leth.
Il Roshi sorrise: “Avrai altri dodici discepoli oltre quelli che ci sono ora e, sotto la tua guida si illumineranno tutti. Ti sei lasciato “influenzare” correttamente. Prendi la mia ciotola e la mia veste, ti appartengono”.
E, urlato un ultimo, impetuoso “Kwattz” spirò.
Fu così che Dha-leth divenne il Roshi di quel monastero.

 

 

N.32   La Durata

 

Gheb voleva misurare la sua “forza”, la sua capacità di “organizzazione” nel costruire uno spettacolo che “durasse” nel tempo e nello spazio con i giusti personaggi, i giusti costumi, le giuste luci, i giusti colori, i giusti tempi… percorreva così il Sentiero N. 32, quello della risata cosmica, del sì e del no, del giorno luminoso e della notte oscura, della follia saggia e della saggezza folle…quando al Mercato vide la giusta stoffa per i suoi attori: metri e metri di merletto bianco che avrebbero avvolto il corpo del Protagonista e delle comparse.
“Quanto è alta la stoffa? Cinque metri? Allora me ne tagli cinque metri”. Il Mercante sogghignava mentre misurava la stoffa e tagliava. Per farlo aveva lasciato i suoi studi cabalistici, il libro aperto sul banco…
“Prendi, la stoffa è tua e a buon prezzo…ma sta attento alla strada, questo Sentiero è difficile per chi è debole o inesperto…”
Gheb sorridendo ringraziò e con il suo involto sotto il braccio, proseguì per la via che gli si apriva dinanzi, quella oscura, tra la folla del mercato. Andava, ma coll’andare la via si faceva sempre più stretta: alcuni lo sfioravano e lo spingevano come per indirizzarlo verso vicoli solitari…gente infida, gente tenebrosa…i cinque metri di merletto che dovevano vestire  gli attori dello spettacolo erano già stati srotolati e strappati via dalla folla caotica…il motivo del viaggio si era così vanificato…
Perché percorreva quel sentiero?
L’aveva dimenticato.
Sì, c’erano state delle vaghe promesse di possibili progressi, di possibili successi, di possibili risultati, ma…l’aria era divenuta irrespirabile…Vi si materializzavano minacce ormai palesi di violenze e soprusi, di disperate sofferenze. Quel luogo era ormai un labirinto senza uscite: una prigione.
Solo in alto si poteva ancora scorgere  una piccola finestra ancora aperta su di un cielo azzurro e lontano.
Gheb richiamò nel suo intimo tutte le potenze dell’animo per trovare la forza di issarsi sul davanzale di quel piccolo pertugio, per poter guardar fuori: all’esterno solo un Albero Verde, ma con i rami accessibili e flessibili; se solo avesse avuto il coraggio di lanciarsi, quell’Albero gli avrebbe consentito la fuga dalla prigione e la libertà da quella situazione…in lontananza vedeva ancora la folla del mercato caotica e fluttuante…Gheb afferrò un ramo sporgente e, usandolo come asta, riuscì a saltare a terra, fuori da quell’inferno. La folla indifferente non si occupava di lui, ma già avvertiva alle sua spalle “gli inseguitori” pronti a riprenderlo…ed ecco che tra la gente gli apparve il volto del Mercante Cabalista.
Il Vecchio Cabalista fa un cenno col capo e Gheb lo segue…ora passa la processione, si uniscono ad essa in salmodiante coro, ma solo per un momento; è solo uno schermo per gli inseguitori, che perdono di vista la loro preda. Anche la processione orante va abbandonata, può diventare anch’essa un laccio…
Il Vecchio conduce Gheb dall’altra parte della Città, quella dei giardini e dei Templi; insieme giungono dinanzi al portone di bronzo, Egli estrae dalla grande tasca del mantello la Chiave istoriata con i trentuno sentieri già percorsi: si richiede l’abito bianco e il Silenzio,
“Non parlare” ordina il Vecchio.
Gheb ha di nuovo tra le braccia i cinque metri di merletto bianco: deve drappeggiarlo intorno alla persona  e tacere.
Oltre il primo portone ora, nel giardino delle quattro stagioni, Gheb conosce la contemporaneità del giorno e della notte in sequenza spiralata: il senza tempo dell’azione. Il Vecchio Cabalista se ne è andato; Gheb può contare solo sulla sua Forza.
Al secondo Portone, quello d’argento si richiede l’Invisibilità.
“Non devo sentire” si dice Gheb, “ma solo pensare: debbo passare”.
Oltre il secondo portone c’è un guado con una barca e due guardiani.
A chi “non ha corpo” è permesso passare sull’altra sponda per conoscere il senza tempo del sentimento.
Al terzo Portone, quello d’oro, si richiede lo stato di Non mente.
“Non deve pensare Gheb, deve Essere” per conoscere il pensiero senza Tempo.
Oltre il terzo Portone c’è il Tempio:
G H E B U R A H