Racconti 33-40



N.33  La Ritirata

 

Il 3°  caso della Raccolta della Roccia Blu dice: Il grande Maestro Ma era malato. Il sovrintendente del tempio gli chiese: “Maestro, come è stata la vostra venerabile salute nei giorni recenti?” Il grande Maestro disse: “Buddha dal volto di Sole, Buddha dal volto di Luna". Era giorno di riunione; i discepoli nella sala della meditazione lavoravano come al solito l’uno accanto all’altro con attenzione e impegno. Avevano ospiti quel giorno, un buon numero, giusto una dozzina.
Che significa per un monastero Zen avere ospiti? Semplice: significa dimostrare in pubblico come lavorano gli Zenisti, cioè come ci si auto-disciplina, come si ricerca, come si vive.
La riunione era già a buon punto e tutto si stava svolgendo regolarmente con domande, risposte, esposizioni ecc., quando il campanello della porta d’ingresso suonò ancora una volta: un tredicesimo ospite. L’incaricato della porta d’ingresso andò ad aprire; l’ospite disse: “Sono in ritardo, ma desidero entrare” ed entrò.
L’ospite ultimo arrivato si sedette accanto agli altri: era strano, sporco e con l’abito sdrucito.
Regola base del monastero Zen è la più scrupolosa pulizia e l’ordine della persona fisica…si può indossare un vestito molto povero e semplice, anche un vestito di pezze, ma deve essere pulito e rammendato se liso.
Tutti i monaci e tutti gli ospiti (tra cui erano donne ingioiellate e impellicciate) guardarono con occhio critico e preoccupato il nuovo venuto. Che cosa nascondeva sotto il giubbetto strappato? Era un malintenzionato? Uno spostato? Un drogato o solo uno straccione?
In quel momento parlava il monaco coordinatore, stava illustrando il significato delle “Sante Verità” (quelle vuote, senza santità), cioè interpretando il Testo Sacro, base della ricerca di quel gruppo di monaci Zen. Parlava, ma nessuno l’ascoltava. Tutti erano occupati con l’ospite “strano”. Allora il monaco coordinatore terminò il suo discorso, poi disse alzandosi: “La riunione è terminata; ringraziamo gli ospiti della loro gradita presenza e invitiamo tutti a tornare, ma solo se interessati a diventare monaci Zen. Rimangano solo i componenti del gruppo per la consueta meditazione finale.
Gli invitati se ne andarono ad uno ad uno, compreso l’indesiderato.
Il monaca coordinatore che li aveva accompagnati alla porta, ritornò nella sala della meditazione e trovò gli altri monaci in agitazione.
Uno di loro disse forte: ”Perché il “diverso” ha avuto un’accoglienza così poco cortese?”
E un altro: ”Perché non l’abbiamo accolto e ascoltato? Forse aveva bisogno di aiuto!”
E un terzo: “Perché abbiamo avuto paura di lui?”
Erano tre domande “vere”. C’era stata paura del 13° ospite, non era stato ascoltato; erano stati mandati via tutti a causa sua.
Allora il monaco coordinatore si alzò e raccontò una storia Zen:
Un giovane monaco si disamorò dello Zen quando udì il proprio riverito maestro gridare di paura e di dolore mentre stava per essere ucciso da alcuni ladri. Il giovane si ripropose di abbandonare l’addestramento Zen, ritenendo che, se il suo vecchio maestro gridava come un ossesso davanti alla morte, lo Zen stesso non doveva essere che un inganno. Comunque prima che potesse partire, un altro maestro gli spiegò qualcosa di quello che è lo Zen, liberandolo da ogni fraintendimento: “Stupido! - esclamò questo maestro – lo Zen non si propone mica di sopprimere ogni sentimento e di anestetizzare contro dolore e paura. Lo Zen si ripropone di liberarci ben bene, così che possiamo gridare come ossessi con tutta la voce che abbiamo in corpo, quando è il momento di gridare come ossessi. C’è qualcosa di singolarmente profano, di assolutamente quotidiano nello Zen… ricordati le parole di Bodhidharma quando l’imperatore Wu gli chiese quale fosse il santo insegnamento del Buddismo: “Una immensa vacuità, e niente a che fare con la santità”.
Ma allora, in fin dei conti, che cosa fanno i maestri Zen? “Mangiano riso e bevono tè, ma lo fanno coscientemente”.
Al termine di questa storia il monaco coordinatore concluse: “I monaci Zen di questo monastero, quando è tempo di avanzata, avanzano; quando è tempo di RITIRATA, si ritirano”.
E così detto, si inchinò e si ritirò.

 

 

N.34  La Potenza del Grande

 

L’agente Tiuaz, coordinatore di 1° grado, aveva presentato la domanda per frequentare la Scuola Interplanetaria che organizzava l’istruzione dei corsi di 2° grado riservata ai coordinatori dei centri di studio e lavoro destinati alla ristrutturazione e al recupero di quei pianeti che non si erano ancora qualificati e resi idonei alla Collaborazione Universale.  In particolare il pianeta di origine dell’agente Tiuaz rischiava ormai da qualche decennio l’espulsione definitiva dalla Grande Fratellanza e il regresso a pianeta primitivo, se i suoi abitanti non si fossero decisi a cambiar registro e a purificare sostanzialmente e definitivamente le proprie strutture interne.
Tiuaz sentiva perciò “pesare” le responsabilità inerenti al suo stato e sentiva il dovere di acquisire maggior preparazione tecnica; gli sembrava che il diploma del corso di secondo grado fosse il minimo indispensabile Per poter espletare il suo incarico in modo efficiente, dato che era sempre molto difficile reperire elementi decisi a studiare e a lavorare nella Collaborazione Universale, organo attivo della Grande Fratellanza.
Dunque, alla domanda inoltrata da Tiuaz fu risposto, dopo tre giorni e mezzo, come al solito per video-telefono dall’A.C. (che significa Agente di Controllo) che, per poter partecipare al 2° corso coordinatori, bisognava superare alcune prove pratiche di attitudine.
Tiuaz (che vuol dire Signore del Cielo) non ignorava la prassi né la difficoltà delle prove, quindi rispose subito, direttamente all’A.C. che era disposto a tentare.
E iniziò così per lui il periodo di attesa. Doveva stare sempre all’erta.
Le prove potevano essere di natura più svariata e non prevedibili; potevano presentarsi ad ogni momento.
Tiuaz continuava ovviamente la sua vita come al solito, teneva solo la seconda attenzione sempre desta.
Veramente un coordinatore di 1° grado dovrebbe essere sempre in seconda attenzione e certo per Tiuaz la cosa non era una novità.
Ma un conto è essere in seconda attenzione per il normale servizio e un conto è esserlo “sotto prova”. In che cosa consiste la seconda attenzione? Semplice: si tratta di controllarsi continuamente, ponendosi da un punto di vista tale da poter sorvegliare la propria personalità mentre pensa, sente e agisce nella vita. Alla stessa maniere con la quale un burattinaio guida il suo burattino sulla scena. Ma non è facile.
Tiuaz era in tale stato di vigilanza quando, una mattina, passeggiando per un viale alberato, immerso nella contemplazione della natura, vide venirgli incontro la sua donna, bella come non l’aveva mai vista. Il corpo di lei era appena avvolto in veli, morbido ed eccitante e lo invitava col gesto a seguirla, senza parlare.
Tiuaz non si aspettava quell’incontro. La sua Donna non avrebbe dovuto essere lì. La scrutò in volto e notò che gli occhi erano sfuggenti. Strano. Gli occhi della sua Donna erano sempre limpidissimi e splendidi.
Allora le domandò: “Chi sei?”
Ma essa non rispose e gli si strinse addosso, corpo contro corpo, in abbraccio voluttuoso. Tiuaz si staccò a forza a la inondò di Fiamma Viola. La donna svanì nelle sue braccia.
Tiuaz riprese preoccupato la sua passeggiata.
Che cosa significava quell’incontro? Sicuramente aveva a che fare con una delle prove per l’ammissione alla Scuola Interplanetaria!
Durante i primi anni di studio aveva percorso i 32 sentieri prescritti dal regolamento e incontrato più volte la “Donna”, anche in aspetti duplici… ma non si era mai trovato di fronte a falsificazioni così evidenti!… Però, ora ricordava: in una esercitazione successiva al 1° corso, sì aveva incontrato “falsi istruttori” e anche allora il particolare degli occhi si era dimostrato significativo. Mentre ancora percorreva il lungo viale, ecco tornare la visione di prima; questa volta però la donna parlò: “Perché prima mi hai scacciata? Non mi riconosci? Non sono forse quella che tu ami?” E la “voce” era proprio la voce di “Lei”…Ma gli occhi no. Erano vuoti, buchi neri, non stelle. Tiuaz la inondò per la seconda volta di Fiamma potente e questa volta la resistenza mentale della visione fu fortissima. Non “voleva” svanire. Tiuaz si sentì stringere le tempie da una morsa violenta. Ma “doveva” vincere, altrimenti sarebbe stato sottomesso dalla larva (poiché tale era quella forma bellissima e invitante: una larva mentale da lui stesso prodotta che gli si faceva incontro per dissuaderlo dai suoi propositi di lavoro-scuola-servizio).
Alla fine del braccio di ferro psichico Tiuaz vide l’immagine sciogliersi sul terreno quasi strisciando.
Ora che la duplice prova era stata superata poteva proseguire il cammino. Si sentiva leggero leggero e poteva volare.
Azionò il suo personale sistema di propulsione atomico e si librò in alto. Sempre più in alto. Volava a una velocità incredibile negli spazi interstellari. Era notte fonda ora ed egli vedeva le stelle in tutto il loro splendore; erano disposte in cerchi concentrici e spiralati, formavano la volta della cupola di un Tempio infinito. Ad un tratto Tiuaz si fermò. Un Sole Violetto sorgeva all’orizzonte ed egli capì di essere in un Mondo Nuovo. Guardando dinanzi a sé, vide di essere ai piedi di una montagna aerea, composta solo di luci e colori. Si sentì chiamare, mentre la montagna assumeva l’aspetto dell’entrata del Tempio con le Due Colonne gigantesche.
Un lampo di Luce lo accecò e lo costrinse a guardarsi “dentro”, mentre stava per varcarne la Soglia.
Si sentì investire da una corrente sottile e potente. “Sapeva” che ogni cellula del suo corpo doveva essere sottoposta ad una accelerazione particolare, sapeva che era lui stesso a dover operare su di sé. Sapeva che se non avesse operato nel modo giusto non sarebbe potuto entrare.
Doveva regolare il processo di accelerazione a seconda delle proprie necessità interne: centro energetico per centro energetico, colore per colore. Era come se dovesse sollecitare il Creativo in sé; lucidarlo, eccitandolo, ma non troppo, per non bruciarlo…era un uso dell’energia tutto particolare…come vivificare il CIELO con il TUONO, ma senza sprechi di forza e senza alterare gli equilibri più sottili…Era tutta una operazione di attenzione e sensibilità.
La “tensione” durò forse 3 minuti, ma gli parvero un’eternità!
Finalmente si sentì “pronto”, infatti era entrato.
La Luce che l’aveva abbagliato rimpicciolì e divenne un cono luminoso che gli indicava il sentiero da seguire.
Tiuaz percorse un lungo corridoio, al termine c’era una gran sala a forma di anfiteatro con tre schermi giganteschi in posizione sfalsata tra loro che permettevano di vedere una stessa scena su tre piani di Coscienza diversi; la loro disposizione era tale che si poteva recepire il tutto solo guardando lo schermo centrale in basso.
Tiuaz diede un’occhiata in giro. Riconobbe l’aula: era stato lì per le lezioni del 1° corso, anche se allora ci si era ritrovato ogni volta quasi magicamente, senza sapere come. I films che venivano proiettati sul triplice schermo erano stupendi e influenzavano gli spettatori con “trattamenti” di non-violenza, non-paura, non-attaccamento.
La sala era piena a metà; Tiuaz vide tra i presenti un suo collaboratore, uno di quelli che lavoravano con lui per la purificazione del Pianeta; fu ben lieto di trovarlo lì; lo salutò e gli chiese: “Come sei arrivato quassù?”
“Non lo so, mici sono trovato”. Rispose quello. Tiuaz stava per sederglisi accanto, quando un A.C. lo chiamò:
“Vieni, Tiuaz, il tuo posto è qui”. Egli indicò una nicchia nella stessa aula. “C’è da armonizzare l’energia di questo gruppo di nuovi studenti, affinché possano assistere alle lezioni del 1° corso per coordinatori.
E’ questo il primo esercizio per i coordinatori del 2° corso. Solo chi sa governare la Potenza del Grande in sé può frequentarlo.
Sei stato ammesso. Auguri e buon lavoro!”

 

 

N.35  Il Progresso

 

Raido, principe ereditario di Fireland, era di ritorno da un lungo viaggio; aveva compiuto la missione di cui suo Padre, il Re, l’aveva incaricato: aveva premiato alcuni funzionari di provincia che si erano distinti per la fedeltà e lo zelo; aveva riordinata l’amministrazione di alcune province in cui i  funzionari non si erano dimostrati del tutto efficienti; infine aveva sostituiti, giudicati e puniti alcuni (pochi) funzionari  ribelli e aveva ovviamente riscosso ovunque i regolari tributi dovuti al Re. Raido, felice dell’opera compiuta, si stava dunque avvicinando al meraviglioso Palazzo Reale quando, improvvisamente, una sentinella gli intimò l’alt.
Aveva ricevuto l’ordine di non far passare nessuno e, fedele alla consegna, non poteva far passare nessuno,  nemmeno il principe ereditario.
Raido sapeva di essere un giorno in anticipo rispetto alla data prevista per il suo rientro, tuttavia lì per lì ci rimase un po’ male e, non potendo entrare nel Palazzo, si mise a passeggiare per i giardini. Mentre era così tutto corrucciato, scorse di lontano la Regina anziana, Madre della Madre, attorniata dalle sue dame e damigelle. Raido si diresse allora verso di Lei che lo accolse molto affettuosamente e gli confidò di essere molto felice di averlo incontrato così, in via non ufficiale, perché aveva modo di fargli conoscere in anticipo la Damigella che era stata prescelta come sua futura sposa. Era lì con Lei e gliela indicò. Raido ne rimase incantato, tanto essa era bella e dolce. Egli ringraziò l’Ava del suo amoroso interessamento; le chiese poi se avesse potuto, per sua intercessione, essere ricevuto dal Re, subito.
La Regina Madre promise di intervenire per quello che era nelle sue facoltà e si ritirò col suo seguito. Raido continuò la passeggiata, ammirando le meravigliose fontane e le splendide aiuole fiorite ed ecco che, mentre stava per attraversare un viottolo tra due cespugli di alloro, sotto una mimosa, scorse un topo di campagna che trascinava a fatica un uovo, sicuramente rubato a qualche nido lì vicino.
Raido si fermò a guardarlo ad una certa distanza e siccome nei suoi lunghi viaggi solitari di missione aveva imparato il linguaggio di alcuni animali, quali scoiattoli, uccelli e cerbiatti, per gioco si nascose dietro uno dei cespugli d’alloro e cominciò a inviagli onde telepatiche di simpatia: “Ciao, topolino, che fai?” il topo si fermò un momento a riprendere fiato e con gli occhietti vispi si guardò intorno: “Che non lo vedi? Sto cercando di portarmi via questo uovo per papparmelo in santa pace! Ma tu chi sei? E come mai conosci il linguaggio dei topi senza essere della nostra famiglia? Ah, ora ti vedo… sei un umano, però non  mi fai paura, devi essere buono!… Gran Topo, aiuto! Ecco che il mio uovo è perduto!”
Infatti l’uovo, lasciato in equilibrio instabile, si era rotolato un po’ e poi rotto contro un sasso e ora un porcospino, che era lì nei pressi, se lo stava mangiando allegramente. Al topo non conveniva far valere i suoi diritti, c’era il rischio di pungersi il musetto (gli era già capitato un’altra volta di avere da discutere con un porcospino e l’esperienza era stata istruttiva…) Raido intanto si stava scusando con lui, sentendosi responsabile della sua perdita…lo pregò alla fine di accettare un bel pezzo di formaggio che aveva nel suo tascapane… il topo non se lo fece ripetere due volte e, afferrato il formaggio, se la svignò in gran fretta.
Raido rimase pensieroso a meditare sulla verità di “non prendersi a cuore guadagno o perdita” e poi passò a riflettere su se stesso: una parte di lui si sarebbe voluta recare dalla sentinella che gli aveva impedito il passaggio, far valere la sua autorità di principe ereditario e, ignorando il divieto, che non era certo per lui, passare, entrare nel Palazzo (che gli era destinato per diritto e che già considerava come suo) e magari punire anche la sentinella che aveva osato ostacolarlo…ma un’altra parte di lui si sovvenne della massima appresa nel Libro sacro: “progredire con le corna è lecito soltanto per punire la propria regione…ecc.” Ma era lecito punire il soldato che faceva il suo dovere? Corrispondeva questo alla regola aurea di “non prendersi a cuore guadagno o perdita? O era solo un volere riconoscimenti, onori e ricompense per il grado e la missione? E in che modo suo Padre avrebbe giudicato un tale comportamento? Intanto il tempo passava, il sole era tramontato ed era scesa la notte. Raido si era seduto in meditazione ai piedi della grande mimosa ed ora il suo profumo intenso lo avvolgeva e lo inebriava…stava bene; era in armonia con la natura e con se stesso, era in Pace, senza alcun desiderio, senza alcun attaccamento, senza alcuna ansia di progresso. Questo realizzò il vero PROGRESSO.
Sorgeva l’alba quando, ancora in meditazione, udì uno scalpitare di cavalli. Aprì gli occhi: 12 cavalli gli venivano incontro condotti da 12 palafrenieri; questi gli si inginocchiarono davanti e gli offrirono i 12 purosangue quale dono di suo Padre per la missione compiuta. Il più grande dei paggi gli comunicò inoltre che il Re era disposto a riceverlo subito nella sala cosiddetta del “Fondamento”, la sala centrale al 2° piano del Palazzo Reale, affinché egli potesse presentare il resoconto della missione. Poi l’avrebbe ricevuto ancora a mezzogiorno nella sala cosiddetta della “Bellezza”, quella centrale, al 3° piano, per farlo conoscere quale Principe ereditario ai ministri e dignitari di corte e infine al tramonto l’avrebbe congiunto in matrimonio con la fanciulla già destinatagli, nel salone chiamato della Realizzazione, al 4° piano del Palazzo reale.
E così avvenne.

 

 

N.36  L’oscuramento della Luce

 

Hodina era una delle figlie del Sole; incredibilmente bella, splendente e adorabile, viveva libera e felice in una vasta pianura piena di alberi, di fiori e di frutti. Naturalmente, come tutte le figlie del Sole, sapeva danzare e volare e, poiché tra le sue sorelle spiccava per la sua grazia e leggiadria, era un po’ vanitosa e spesso si esibiva solo per essere ammirata e lodata.
Ma in quella valle piena di alberi, di fiori e di frutti non c’erano molti spettatori e quei pochi erano abituati a vedere la luce e le figlie del Sole…fu così che un bel mattino Hodina decise di allontanarsi da quel luogo divenuto per lei troppo noioso e volò, volò alto nel cielo per tutta la giornata fino a che, verso il tramonto, scrutando attentamente l’orizzonte, vide un insieme di costruzioni ammassate, case e palazzi: una città, evidentemente, che non aveva mai visto, ma di cui aveva sentito tanto parlare. Hodina era ormai stanca di volare e terribilmente attirata dal brusio di quello strano ambiente; pensò dunque di scendere e riposare, l’indomani avrebbe potuto far ammirare a tutti la sua bellezza e la sua abilità. Come fu entrata nell’atmosfera della città, era ormai il crepuscolo,  Hodina si avvide di non poter più volare; lì l’aria era talmente pesante e opaca che le sue ali di luce non avevano resistito, si erano sciolte subito.
In quelle strade soffocanti poteva solo camminare, inoltrandosi sempre di più verso il centro o tornando indietro. Ma l’attrazione e la curiosità vinsero la primitiva indecisione e Hodina affascinata dallo sbrilluccichio e dai colori delle vetrine e dalla gente, volle confondersi in essa…senza rendersi conto che tutto lì era oppressione, costrizione, sfruttamento, oscurità. Che cosa cercava lì dunque Hodina? Che cosa pensava di ottenere da quella folla anonima? Illusioni. Fatuità. Certo cercava l’ammirazione non determinata di uno sguardo ammaliatore e un’attrazione non ancora specificata…ed ecco, un uomo molto interessante, dagli occhi freddi e sicuri la guardò a lungo e poi le disse: "Seguimi.” Hodina felice, subito lo seguì, cercando di raggiungerlo, di toccarlo, o almeno di sfiorargli il braccio con le dita per convincersi che era reale e che le aveva detto davvero “Seguimi”.
Attraversarono così tutta la città; l’uomo misterioso a tratti scompariva e poi, dopo un po’ si faceva rivedere più in là, si voltava e le diceva con voce di comando: “Vieni, più in fretta; qui tutti abbiamo fretta…”
Era notte fonda ormai e Hodina ad un certo punto vide all’incerto chiarore di un lampione, scomparire la sua guida in una porticina stretta: ingresso di un albergo? O di un locale notturno? O di che altro?
Quando Hodina arrivò a quella porta, lì proprio si era formata una fila e tutti volevano entrare: Allora si chiese: Ma dove sto andando? Che cosa ci sarà di tanto interessante qua dentro? E perché tutta questa gente vuole entrare proprio ora e proprio qui, dove prima non c’era nessuno? Forse farei meglio a tornare indietro e ad aspettare l’alba in un luogo più sicuro…Ma una parte di lei “voleva” parlare con quell’uomo, voleva raggiungerlo, voleva mostrargli tutta la sua bellezza e abilità…
Hodina si mise in fila e, arrivato il suo turno, entrò nel caseggiato. Subito oltre la porta, una ripida scaletta a chiocciola scendeva ai piani inferiori, ai sotterranei. Alla vista di quell’antro Hodina desiderò tornare indietro, ma ora non era più possibile. Alle sue spalle la folla la spingeva e come una forza risucchiante la tirava verso il basso, e con tanto impeto che Hodina non vedeva più nessuno innanzi a sé e più scendeva e più i gradini diventavano alti e viscidi.
Ora aveva proprio paura e freddo e fame.
Lì era talmente buio che non si scorgeva quasi più nulla, solo i gradini di pietra che scendevano sempre più in basso. Intanto Hodina era rimasta sola; non c’era più nessuno né avanti né dietro di lei. Nessuno più la spingeva; niente più l’attirava verso il basso. Allora essa si sedette su uno di quei gradini freddi e umidi: batteva i denti. “Ma dove sono finita?” Si chiese. ”Certo in prigione. Questa è una prigione sotterranea senza luce, quasi senza aria, senza nessuno. Ma perché sono qui?” E si pentiva amaramente di aver lasciato la sua casa, le sorelle, il cielo libero, la campagna con gli alberi, i fiori, i frutti; si mise a piangere. Pianse disperatamente tutta la notte, senza potersi addormentare neanche un attimo e quando ormai disperata, fu certa di morire lì dentro di fame e di freddo, ecco che da una fessura tra le pietre sconnesse di quell’antro tanto ostile, vide un certo chiarore che si proiettava sul  muro di fronte. Hodina pensò al Sole, si ricordò della sua vera natura ed ebbe la forza di concentrarsi in Sé: chiese con tutta la sua mente, con tutto il suo cuore, con tutti suoi sensi: “Vorrei un po’ di luce…!!” Aveva appena pronunciato quella parola che il sotterraneo si spaccò, come un involucro di gesso ed essa si ritrovò seduta in terra in aperta campagna, mentre il Sole sorgeva all’orizzonte, splendido e maestoso, come al solito.
Il tempo dell’OSCURAMENTO DELLA LUCE era terminato e Hodina si alzò in piedi: aveva di nuovo le sue ali e poteva volare…

 

 

N.37  La Casata

 

Caph, monaco itinerante, vagava da qualche decennio di convento in convento per trovare il “posto” giusto ove potersi fermare e approfondire insieme ad altri monaci la Ricerca, che era lo scopo della sua vita.
In una mattina di maggio egli giunse dinanzi alla porta di un monastero arrampicato su una montagna; pensò di chiedere lì ospitalità e bussò.
Gli fu aperto e… c’era ovviamente un monaco come portinaio: “”Che cosa vuoi?” “Essere, se possibile, ospitato per qualche tempo”. Rispose Caph.
“E’ possibile solo se, secondo le regole, sarai in grado di sostenere un dialogo sulla “Sublime Dottrina” e più specificatamente su uno dei 64 esagrammi dell’I King, “La Casata” che è il Koan proposto alla comunità per questo mese”. Replicò il monaco portinaio.
Dunque era capitato in un monastero Zen. Caph ci pensò su un momento, poi: “Va bene, accetto la condizione”.
Fu introdotto in una sala d’aspetto lunga e stretta con due porte larghe nei due lati corti. C’era una panca di legno, si sedette, in attesa del “mondo” (particolare dialogo Zen in cui il discepolo Zen da prova della sua maturità e comprensione dello Zen).
Aspetta, aspetta, nessuno veniva. E Caph meditava sulla Casata. Si fece notte e lui era sempre lì, stanco e affamato, in attesa del dialogo-esame da cui dipendeva il suo andare o rimanere…
Ad un tratto si spalancarono le due porte di quella sala d’aspetto e iniziò un rapido via vai di gente, come se quel luogo fosse una strada di paese in un giorno di festa. Caph era stupito e, dal suo posto guardava tutte quelle persone… non erano volti nuovi. Ma sì, li conosceva, li riconosceva tutti: erano uomini e donne incontrate nella sua vita, amici o conoscenti; tutti ricercatori, ognuno a modo suo, che discutevano animatamente tra loro, a piccoli gruppi o a coppie… alcuni parevano solo passeggiare avanti e indietro, altri, a braccetto, quasi danzavano…
Più di una volta Caph tentò di alzarsi dalla panca per abbracciare qualcuno che, tra quelli, aveva avuto un posto particolare nei suoi affetti, ma ogni volta, le gambe si erano rifiutate di sostenerlo e lui si era sentito mortalmente stanco… e poi, quei personaggi pareva che nemmeno lo vedessero!
Caph tentò di alzarsi ancora una volta, ma niente! Era proprio incollato a quel sedile di legno; o forse era solo la debolezza per la fame e il sonno… non ricordava più da quanto tempo non dormiva in un letto vero e non mangiava un pasto caldo… Tuttavia, quella era una stanchezza tutta particolare…una stanchezza che lo faceva riflettere, che lo ripiegava in se stesso… come se dovesse valutare in qualche modo, rivedere in qualche modo i suoi rapporti con quelle persone… Allora egli le “guardò” in modo diverso: andavano avanti e indietro, ma erano sempre le stesse e pur sempre in atteggiamenti diversi. E poi le “vide” finalmente: erano come le ricordava, con le stesse fattezze di anni prima: nessuno era invecchiato. Dunque non potevano essere reali, erano solo visioni… ma che cosa aveva a che fare tutto questo col “mondo” che aveva accettato di sostenere per avere alloggio? E poi perché quei personaggi, quei ricordi, erano così mescolati, così disordinati nel loro passare e ripassare? Caph pensò intensamente di metterli in ordine cronologico… ed ecco, ora entravano ad uno ad uno da una porta e uscivano lentamente dall’altra…
Quella donnina minuta con i capelli quasi d’argento l’aveva incontrata a 21 anni o giù di lì e per qualche motivo irrazionale per 7 anni aveva condiviso il suo credo e la sua religione… si ricordava: con lei aveva davvero compiuto un buon lavoro esoterico. Ovviamente intorno c’era tutta una folla di volti maschili e femminili, tutti legati a quei primi sette anni di lavoro di gruppo… ma erano tutti volti confusi e sbiaditi… solo il suo spiccava ed era “vero” tra tanti!
Dal secondo ciclo di 7 anni si affacciavano tanti personaggi, tutti sorridenti e pieni di incoraggiamento…però eccola lì, in rilievo, quella testa pelata di massone dallo sguardo aperto e penetrante… alcuni libri suggeriti da quella persona erano stati fondamentali per la Ricerca di Caph…
Dal primo anno del terzo ciclo di 7 anni usciva un altro volto di donna, dai tratti molto decisi, quasi mascolini… invece i successivi tre anni erano stati caratterizzati dal volto di un uomo, rotondetto, delicato, quasi femmineo e mai Caph aveva lavorato su di sé come in quei tre anni. Nei tre anni che seguivano sei volti avevano giuocato il ruolo di stimolatori per la Ricerca di Caph; sei volti per i quali e con i quali egli aveva studiato, conosciuto, approfondito; vissuta insomma, l’esperienza esoterica. Infine era iniziato il quarto settenario di Ricerca e anche da quello Caph vedeva emergere un viso d’uomo, buono e barbuto… e poi un mucchio di volti, decine e decine e tutti, tutti gli avevano insegnato o gli insegnavano qualcosa… E mentre l’ultimo viso dell’ultima ora svaniva, Caph si sentì chiamare: “Ehi, monaco! Sei tu che vuoi rimanere in questo monastero?” Era una vecchia, indubbiamente una monaca, quella incaricata di svolgere il “mondo” con lui: gli si stava inchinando nel tradizionale saluto.
Caph si alzò immediatamente dalla panca e, con sorprendente agilità, le restituì l’inchino. Era pronto per il “mondo”. La monaca ospitante chiese: “Che cosa è per te la Casata?”  “La Casata”, rispose Caph, “è l’insieme di tutti coloro che “in qualche modo” mi sono stati maestri nella vita e ai quali sono unito da profonda gratitudine”. “Non basta” replicò la vecchia monaca, “dimostralo”. Caph si concentrò un attimo, rievocò i volti di tutti coloro che gli erano apparsi poco prima e li proiettò nella monaca che gli stava davanti. Poi le si avvicinò e l’abbracciò: “Vuoi sapere chi è mia madre e chi sono i miei fratelli e le mie sorelle? “Chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei Cieli, questo è per me fratello, sorella e madre” (Matteo, 12,50)”. Fu così che Caph fu accolto in quel monastero come monaco responsabile e vi rimase.

 

 

N.38  La Contrapposizione

 

C’è qui qualcuno che talvolta, per caso, ha veduto la Contrapposizione accanto a sé? Noo? Proprio nessuno? Eppure è una signora molto graziosa all’aspetto, dai lineamenti marcati e volitivi e dallo sguardo dolce e mite; essa, di costituzione assai robusta, appare però snella e flessuosa e i suoi modi sono decisamente  accattivanti…
Quando due persone parlano di un qualche argomento, ecco subito lei compare e, invitata o no, partecipa animatamente alla conversazione e a volte ne diventa l’unico elemento costitutivo.
Un giorno due sorelle Li e Tui (tali erano i loro nomi) conversavano sull’importanza degli elementi Fuoco e Acqua. Li sosteneva che il Fuoco, essendo l’elemento più sottile, doveva senz’altro avere il dominio sugli altri tre (Terra, Acqua, Aria); Tui invece affermava che, potendo l’Acqua spegnere il Fuoco, le spettava sicuramente la supremazia, anche perché l’elemento umido è notoriamente la fonte di ogni vita.
Era già un bel po’ che il loro discorso seguitava su quel binario quando, senza bussare e senza chiedere permesso, entrò nella stanza dove Li e Tui discutevano, la Contrapposizione. Dapprima Kkui (è questo il nome proprio della Contrapposizione) si era seduta modestamente in un canto e, senza intromettersi, aveva guardato per un po’, quasi incuriosita le due sorelle; poi, man mano che il loro colloquio diventava più concitato, si era alzata e aveva iniziato ad accostarsi ad esse: ora all’una, ora all’altra, successivamente e sempre più dappresso.
Ecco, ora Li diceva con voce secca a Tui: “Ho ragione io. E’ il Fuoco che vince sempre, ti ripeto che è lui il signore degli elementi!”
Tui replicava con voce liquida e lamentosa: “Non è affatto vero! Tutti gli incendi si domano con l’acqua, anche i più potenti. E poi, perché vuoi sempre avere ragione tu? Solo perché sei più grande di me? Bada che chiamo in aiuto nostra sorella Sunn, lei è maggiore anche di te e mi protegge sempre quando vuoi fare la prepotente…!” E mentre stavano per accapigliarsi, la Contrapposizione (che le due sorelle non potevano vedere perché tutte prese dalla loro discussione) divertita, rideva e rideva mentre gli occhi le si erano fatti quasi cattivi e le mani adunche, già pronte a ghermire le due fanciulle…In realtà per la Contrapposizione l’argomento in oggetto non è assolutamente importante, perché di qualunque cosa si può dire tutto il pro e tutto il contro con altrettante validissime ragioni. Alla Contrapposizione interessa solo l”apporre contro”. Il suo gioco è tutto lì. E bisogna ammettere che è anche spassoso…fino a che non degenera in Lite, per essersi fatte le due controparti trascinare dai loro sentimenti di sopraffazione e dalla forza dei pensieri opposti…
Ma per la verità alla Contrapposizione, a Kkui, questo mutamento non piace affatto perché, quando nella situazione subentra la Lite, lei deve scomparire…e quale delle forme esistenziali ama dissolversi, perdere, perdersi così, senza ribellarsi?
Qualcuno potrebbe dire: “Ma il saggio, il vero Taoista, il monaco Zen, colui che sa… tutti costoro vogliono sciogliersi, sparire per Essere…!”
Certo, certo, ma Kkui è solo una Contrapposizione, né un saggio, né un monaco Zen… sa appena giocare il suo ruolo quando le tocca, apparire sulla scena quando si profila all’orizzonte un incontro-scontro come quello di Li e Tui…
Beh, e allora questa storiella come va a finire? Sento già domandare sottovoce in giro…
Eh, non siate così impazienti! Prestiamo attenzione invece a ciò che avviene nella stanza vicina a quella in cui si trovano le due sorelle… è la stanza dei genitori: in questo momento c’è il padre, si chiama Kkienn, è un grande artista, compositore, pittore, scrittore; egli è in genere molto premuroso e affettuoso con i figli, ma non vuole essere disturbato quando lavora; da qualche ora sta scrivendo un racconto su un esagramma dell’I King e non desidera che lo si sappia in giro; si può udire il ticchettio della macchina…ogni tanto si interrompe… è già da un pezzo infastidito dal vociare di Li e Tui, finora ha lasciato correre, ma ecco, adesso si alza, va nella stanza delle figlie, le sgrida e le separa… poi torna a lavorare. Le due sorelle in due angoli opposti, tacciono, ma la Contrapposizione è ancora lì pronta ad intervenire.
Intanto nella stanza è entrato uno dei fratelli, Kkann il mezzano, quello molto affine a Tui. Vede le due sorelle tutte imbronciate e quella strana signora in mezzo… si fa spiegare dalla sorella più piccola tutta la situazione…quella signora non gli piace, così convince Tui a riavvicinarsi alla sorella più grande per chiederle scusa. Li tutta altezzosa non ne vuol sapere, ma quando vede la sorella con le lacrime agli occhi, si commuove e l’abbraccia.
Così, grazie a Kkann, per questa volta la Contrapposizione cessa e la bella signora deve andarsene altrove.
E… volete sapere dove si trova in questo momento?
Lo sapevo, che eravate curiosi, ma a questo punto …!
Beh, ve lo dirò in gran segreto: pare che si trovi proprio qui; sì, fuori della porta. Che ci sta a fare?
E’ tutta pronta ad aiutarmi a controbattere le accuse di chi sostiene che questa storiella non è abbastanza divertente e istruttiva!!!

 

 

N.39  L’Impedimento

 

L’aula era al completo: i monaci Zen, 21 in tutto, erano ai loro posti, intorno al tavolo del dibattito. Il Koan del mese era: “L’Impedimento: causa, effetti e superamento”. Ogni monaco poteva prendere la parola, ognuno poteva opporre il suo pensiero a quello degli altri. E così a turno i monaci espressero il loro parere: il primo monaco, il cui nome era Alef (e non stava mai fermo) disse: “Per me l’impedimento è la ripetitività che genera la noia; il superamento è ricominciare sempre tutto dall’inizio e sempre in modo nuovo”.
Il secondo monaco (che poi era una monaca) si chiamava Bet, disse: “Per me l’impedimento è il palesamento del se-creto che genera la profanazione; il superamento è ri-velare subito ciò che è stato svelato (e così dicendo si rimise il velo sul volto)”.
Il terzo monaco il cui nome era Ghimel (una monaca) disse: “Per me l’impedimento è la disorganizzazione che genera il disordine; il superamento è la dolce fermezza del sistema”.
Il quarto monaco, di nome Dalet, disse con la medesima regalità: “Per me l’impedimento è la disobbedienza che genera la confusione. Il superamento è l’uso della Volontà”.
Il quinto monaco, He, pontificalmente disse: “per me l’impedimento è l’irreligiosità che genera la materialità; il superamento è la “Pietas”. Il sesto monaco, Vau, tentennando la testa, disse: “Per me l’impedimento è l’indecisione che genera la stasi; il superamento è la conciliazione degli opposti”.
Il settimo monaco, Zain, col suo atteggiamento marziale disse: “Per me l’impedimento è la mollezza che genera il non-controllo; il superamento è “mano di ferro in guanto di velluto”.
L’ottavo monaco, Het (una monaca) disse: “Per me l’impedimento è la parzialità che genera l’ingiustizia; il superamento è l’equilibrio (e così dicendo si bilanciava su due sole gambe della sedia)”: Il nono monaco, Tet, stava sonnecchiando, ma quando gli toccò di parlare, aprì gli occhi penetranti e disse: “Per me l’impedimento è la fretta, che genera la superficialità; il superamento è la calma pazienza”.
Il decimo monaco, Iod, dondolandosi sul busto, disse:
“Per me l’impedimento è l’incapacità di governare il timone della barca, questo genera il maldimare; il superamento è la pratica del timone”.
L’undicesimo monaco, Caf, (una monaca) disse: “Per me l’impedimento è la violenza che genera altra violenza; il superamento è la dolcezza (e intanto sotto al tavolo, con la mano sinistra plasmava una palla di ferro come se fosse stata plastilina)”.
Il dodicesimo monaco, Lamed (che stava quasi sempre in Scirsciàsana) disse: “Per me l’impedimento è il tradimento che genera la separatività; il rimedio è la fedeltà”.
Il tredicesimo monaco, Mem, (una monaca, detta anche la Falciatrice) disse: “Per me l’impedimento è il non voler lasciare, questo genera l’attaccamento; il rimedio è darci un taglio netto”.
Il quattordicesimo monaco, Nun (una monaca, addetta ai rifornimenti idrici) disse: “Per me l’impedimento è l’intemperanza che genera gli eccessi e le mancanze; il rimedio è la giusta alternanza dei liquidi vitali”.
Il quindicesimo monaco, Samech, il più brutto, disse: “Per me l’impedimento è l’egoismo che genera l’avversione; il rimedio è lo scioglimento”.
Il sedicesimo monaco, Ain, tutto fasciato, disse: “Per me l’impedimento è la presunzione  che genera la caduta; il rimedio è l’umiltà”.
Il diciassettesimo monaco (una monaca, la più bella) Pe, disse: “Per me l’impedimento è la fatalità che genera l’indolenza; il rimedio è conoscere la Vera Guida e seguirla”.
Il diciottesimo monaco, Sade (una monaca molto pallida e romantica) disse: “Per me l’impedimento è l’ipersensibilità che porta alla fragilità. Il rimedio è il prosciugamento dell’eccessiva umidità”.
Il diciannovesimo monaco, Kof, tutto radioso, disse: “Per me l’impedimento è il troppo calore che porta alle “bruciature”; il rimedio: imparare a regolare la temperatura”.
Il ventesimo monaco, Resh, dallo sguardo severo, disse:“Per me l’impedimento è dimenticare che c’è sempre la resa dei conti; questo porta alla inesorabilità; il rimedio è: ricordati che sei polvere e che in polvere tornerai”.
Il ventunesimo monaco, Shin, nella pienezza della sua totalità disse: “Per me l’impedimento è l’ignoranza che porta alla schiavitù; il rimedio è conoscere la Verità”.
A quel punto della riunione i monaci avevano parlato tutti e si era fatto il silenzio. Allora si udì bussare alla porta e, prima che qualcuno si alzasse per andare ad aprire, i battenti si erano spalancati ed era entrato nell’aula un altro monaco, strano, con l’abito tutto sdrucito e un fagottello sulla spalla. 
Si presentò: “Sono un monaco ricercatore, come voi, il ventiduesimo, mi chiamo Tau. Volete sapere quale è per me l’impedimento?!!
Voi!!!
L’unico vero impedimento siete tutti voi!!!”
A quelle parole i ventuno monaci si alzarono tutti in piedi e, tutti insieme annuirono, poi…
A uno, a uno, a cominciare dal primo, Alef, poi il secondo Bet, poi il terzo ecc. si dissolsero nell’aria.
Tutti. Anche il ventiduesimo, il Folle, con un inchino.
Nessun Impedimento

 

 

N.40  La Liberazione

 

La liberazione è la rottura di un involucro, dice l’I King. Ma quanti involucri debbono rompersi prima che ci si possa davvero liberare? Dieci, dice il cabalista. Uno, dice lo Zen, ed è un involucro non-involucro, coma la Porta senza porta di Mumon…
…. Beth, giovane navigatore solitario, era approdato già da qualche tempo all’Isola Deserta.
C’era capitato nel tentativo di raggiungere da solo, con la sua personale barchetta, la cosiddetta Terra Promessa.
Come Ulisse, spinto dal desiderio di ottenere virtù e conoscenza, aveva in passato visitato luoghi e terre lontane, esplorato mari e scalato montagne ed ora era lì su quel misterioso isolotto.
E non ne poteva ripartire! Eppure non c’erano sirene o maghe a trattenerlo. Solo questo: la barca che lo aveva portato fin lì era sparita, appena messo il piede a terra, come a significare che doveva stare, rimanere, almeno per un certo tempo.
Passeggiava, si procurava il cibo cogliendolo direttamente dagli alberi (erano sempre carichi di frutta gustosissima) pensava, dormiva…
Credeva ormai di aver esplorato quel lembo di terra in lungo e in largo e, secondo lui, non c’era proprio anima viva, solo sentieri, alberi e frutti. Sembrava quasi un piccolo paradiso terrestre. Quasi. Perché più il tempo passava e più Beth si sentiva come prigioniero.
Ma se c’era “Alberi” (direte voi) perché non si fabbricava un’altra barca e se ne andava? Facile a dirsi!
Ma credete voi che una barca si costruisce così, senza attrezzatura, giusto col desiderio e il pensiero cementati dalla volontà? Sì, certo! Volere è potere. Ma su un’isola deserta e in un “quasi” paradiso!!
Beth dunque aveva cominciato ad annoiarsi, prima aveva goduto di quel piacevole ozio, ma ora sentiva proprio la necessità di andare oltre.
Pensava alla sua barchetta. Alla sua incredibile sparizione. Doveva essere scivolata in un’altra dimensione!
Forse in quell’Isola così misteriosa c’era un punto x là dove era approdato, in cui le linee di forza sottili si intersecavano formando una connessura, una congiunzione discontinua da dove era possibile forse penetrare altri spazi-tempi… Beth era affascinato dall’idea e, più ci pensava, più diventava irrequieto.
Poi si decise: avrebbe esaminato l’isola centimetro per centimetro fino a ritrovare quel “nodo”. L’avrebbe ispezionata con giri sistematici  tutta quanta partendo dal centro e via via allargando sempre  più la spirale… avrebbe sfruttato la forza centrifuga presente in ogni cosa e sarebbe in ogni modo uscito dall’Isola…ma quando tentò di portarsi nel suo centro… ebbene, si avvide di non poterlo fare. Era come se dinanzi a lui in alcuni punti ci fossero delle pareti invisibili, non penetrabili. Potevo solo percorrere determinati sentieri e non andare dove avrebbe voluto. C’erano dei passaggi obbligati. Provò una, due, tre, cinque, dieci volte, era come in un labirinto. No, ERA nel LABIRINTO.
C’era da quando aveva toccato quell’isola… ecco perché non aveva più trovato la barca, altro che quarta o quinta dimensione!
Ora doveva uscirne e in fretta.
Anche perché ora sapeva che al centro del Labirinto l’aspettava un mostro o il Drago o il Minotauro. (O forse era tutta una sua creazione mentale…ma che differenza faceva? Per lui era reale!)
Doveva assolutamente uscirne.
Se voleva sopravvivere e proseguire il viaggio.
Di nuovo provò un sentiero e di nuovo cozzò contro una parete invisibile. Una parete mentale. Quando ancora non si era reso conto di essere nel Labirinto, quella forza mentale lo arrestava, lo faceva sentire stanco, lo faceva sedere sotto un albero e mangiare un frutto succulento e…dormire. Poi, quando si svegliava, lo faceva tornare indietro, prendere un altro falso sentiero e così via… da quando era approdato non aveva fatto altro. Macché paradiso terrestre, macché isola incantata, quello era l’inferno! Lì tutto era costrizione, tutto schiavitù!
Voleva assolutamente uscirne. Voleva essere libero.
LIBERO.
Pensò. Ricordò: Labirinto. Pericolo. Minotauro. Salvezza: ARIANNA
Ma lui era solo, era un navigatore solitario. Dove si trovava Arianna? La sua Arianna? Dove il suo filo prezioso? Quando l’aveva perduta? Quando l’aveva dimenticata?
Doveva ritrovare Arianna. Allora Beth smise di cercare il centro dell’Isola e si interiorizzò; viaggiò nel tempo-spazio e ritrovò la sua Donna, quella vera, quella sempre fedele e sincera ed essa gli parlò: l’avrebbe aiutato ad uccidere il Minotauro e a liberare l’Isola, perché quello era il suo compito; il filo era lì, già nella sua mano, non aveva che da dipanarlo… Così aiutato dal filo della sua Donna Beth, senza perdersi giunse fino al centro dell’Isola e affrontò il Mostro.
Beth non aveva spade, non aveva armi, solo la potenza del suo cuore e del suo sguardo. Ma sotto quel fuoco, il Minotauro si afflosciò inerme.
Dietro di lui apparvero le due colonne del Tempio.
Beth entrò, oltre la soglia l’aspettava la sua Donna.
Erano divenuti entrambi perfetti, radiosi, LIBERI, per sempre.