Racconti 9-16

 

 

N.9  La Forza Domatrice Debole

 

Isan voleva tornare a casa.
Isan era una bella e ricca ragazza che aveva di recente discusso con il Padre per questioni di comportamento; il Padre era uno dei più ricchi possidenti del paese e un po’ per gioco, un po’ per completare l’educazione della figlia l’aveva mandata in vacanza in quella terra semi-deserta ai limiti delle sue proprietà, quasi nella giungla, dicendole di aspettare lì l’arrivo del figlio di un suo amico che egli avrebbe visto volentieri come genero.
La ragazza aveva protestato un po’, ma poi aveva fatto quasi tutto quello che il Padre le aveva ordinato, però del giovane che doveva arrivare non aveva ricevuto alcuna notizia, così annoiata dalla monotonia dell’inutile attesa, era risalita con il suo piccolo bagaglio sul suo aereo personale per tornarsene a casa. Isan aveva conseguito il brevetto di pilota già da qualche tempo ed era considerata dagli amici assai abile, tuttavia quel giorno, pur manovrando i comandi come al solito, non era stata capace di far alzare l’apparecchio. Allora ne era scesa ed era salita sull’automobile che le era stata messa a disposizione dalla direzione dell’albergo e che era parcheggiata lì nei pressi. L’auto era partita, ma subito fuori città, circa al 21° Km, ormai sull’autostrada che attraversava la foresta tropicale, il motore aveva smesso di funzionare regolarmente e, dopo qualche scoppiettio, si era spento. Isan aveva provato e riprovato a rimetterlo in moto ma, visti inutili i suoi tentativi, aveva desistito e deciso di tornare in città a piedi: meglio una lunga passeggiata di giorno che passare la notte nella foresta.
La ragazza, vestita di rosso, camminava perciò tutta sola al centro della strada asfaltata; ai lati gli albero ad alto fusto fitti fitti, formavano quasi una galleria naturale sulla sua testa, oscurando quasi completamente il cielo azzurro carico; ella sperava di poter tornare in albergo facendo l’auto-stop, ma da più di mezz’ora ormai era in cammino e non era riuscita a scorgere anima viva.
Tutt’ad un tratto Isan udì uno strano rumore, affrettò il passo e si vide venire incontro a tutta velocità un bufalo o un toro. Fece dietro-front per tornare alla macchina e chiudersi dentro, ma l’auto era troppo lontana e intanto il bufalo o il toro, attirato dall’abito rosso, si era messo a inseguirla. Se avesse avuto con sé la sua carabina da safari l’avrebbe affrontato ben volentieri, ma era completamente disarmata… doveva trovare una soluzione e in fretta se non voleva finire infilzata.
Si tolse l’abito e lo appesa ad una canna ben in vista, poi si nascose dietro un albero… appena in tempo; il bestione infilò l’abito con le corna e poi continuò la sua corsa in lontananza…
Isan era ora quasi nuda ed era assai seccata di dover tornare in albergo in quel modo; si guardò intorno e, su un cespuglio di alloro scorse una specie di coperta viola; la prese e la indossò: era un mantello assai ampio e con una tasca profonda; Isan sentì i suoi chakra più bassi pulsare fortemente e lì attinse la forza per proseguire la strada verso la città. Aveva camminato un’altra buona mezz’ora quando, avendo calcolato di essere solo a metà strada, preoccupata per la luce che scemava sempre di più, alzò gli occhi e vide scendere da un albero una pantera nera. Ella poteva solo offrire qualche cosa in cambio di se stessa, l’abito era stato sufficiente per il toro… che cosa doveva dare alla pantera? Mise una mano nella tasca del mantello e trovò una tavoletta, come di cioccolata: ne pose dei pezzetti a terra e tenne la parte più grossa nella mano sinistra. La pantera si era intanto avvicinata, aveva mangiato i pezzetti di cibo in terra, li aveva trovati gradevoli e, rabbonita e docile, si era accostata alla ragazza; era in fondo solo un grosso gattone. Mangiò dalle mani di Isan tutta la tavoletta poi, alzatasi sulle zampe posteriori le sussurrò all’orecchio: “Sta attenta che ora arriva il Serpente!” Isan sentiva pulsare il chakra del cuore. Avrebbe voluto trattenere con sé la pantera, ma questa era già sparita nel folto della foresta. Un mucchietto di foglie lì vicino cominciò ad agitarsi. E apparve il Serpente. Prima piccolo, poi sempre più grande, sembrava crescere a vista d’occhio… la ragazza non sapeva cosa fare per domarlo, sapeva di dover dare al serpente qualcosa di adatto, ma non sapeva che cosa; intanto il serpente stava mangiando tutto lì intorno: piante, arbusti, aveva divorato anche un piccolo scoiattolo e diventava sempre più grosso, sembrava proprio un Dragone.
La ragazza pensò intensamente al Padre, poi guardò sull’albero più vicino, proprio al centro c’era un frutto maturo… lo colse e lo offrì al serpente. Ora sentiva pulsare il chakra in mezzo alla fronte. Guardò il Serpente fisso negli occhi e quello si afflosciò. Allora Isan gli pose il piede sul capo e glielo schiacciò.
Intanto un processo di autocombustione si era formato nel serpente stesso: stava bruciando tutto, in breve non ne rimase che un mucchietto di cenere. Isan era rimasta a guardare lo strano fenomeno come incantata, poi improvvisamente aveva visto apparire una gran luce: dalle ceneri del serpente era emerso un giovane in tuta bianca che le aveva sorriso.
Era il giovane che aveva tanto atteso, il pilota dell’aereo che l’avrebbe ricondotta sana e salva a casa, dal Padre.

 

 

N. 10  Il Procedere

 

Che il debole salga sul forte è insolito, dice l’I King, è naturale invece che il forte salga sul debole, a meno che non sia per “gioco”, e che il forte “si diverta” ad essere dominato dal debole.
Ma se il debole riesce a far credere al forte che è divertente essere dominato, non è diventato lui il forte?
Giocherellando con questi pensierini riguardanti un principio su cui non era perfettamente d’accordo il Discepolo, che da giorni studiava il problema di come “procedere sulla coda della tigre” senza essere morso da lei, pensò bene di interpellare la Tigre.
Ma chiamare in causa una tigre ai giorni nostri non è facile, andare allo zoo o al circo per parlare con una tigre è assolutamente inutile. La tigre dello zoo o del circo non è una vera tigre, ne è solo la parodia.
Andare nella foresta tropicale per cercare una tigre allo stato brado è ancora più complicato…si rischia solo di incontrare povere tigri drogate, destinate a facili e dispendiosi safari…
Non era quello il genere di tigre che voleva incontrare il Discepolo. Lui voleva la Tigre vera.
Fu così che prese a passeggiare per la solita strada del solito bosco misterioso e, dopo un ragionevole periodo di tempo, tra un tronco di un albero e un altro, tra un arbusto selvatico e un altro, riuscì a scorgere la Tigre: bellissima, tutta fulva a righe nere (… e se no, che tigre sarebbe stata?), il muso terribilmente felino, l’occhio attentissimo e crudele… una tigre che pareva proprio in caccia di discepoli inesperti!
Il nostro Discepolo, il cui nome era Tyr, che vuol dire Splendore, pensò bene di non farsi vedere subito: sarebbe stato pericoloso essere attaccato dalla Tigre senza aver prima preparato il suo piano di attacco e di difesa; quindi adoperando le sue arti magiche (peraltro assai modeste) che erano tutto il suo patrimonio e che costituivano tutta la sua forza, per prima cosa si rese invisibile, mentre la Tigre passeggiava, stupenda, conscia della sua forza e del suo fascino.
Sento che qualcuno domanda: “Ma come faceva Tyr per rendersi invisibile?”
“Eh, non l’ho ancora detto? Già, proprio no! Tyr era discepolo di un grande Maestro, il quale in cambio dell’ubbidienza più totale e alcuni piccoli servizi continuati, ogni tanto gli regalava qualcuno dei suoi segreti o qualche oggettino di modesto valore; una volta gli aveva regalato un anello fatato. Come era questo anello? Assai semplice: un cerchietto d’oro con una pietra blu-viola, come un’ametista, che, opportunamente girato sul dito, avvolgeva Tyr in una nube di invisibilità, valida per tutti, meno che per il Maestro, ovviamente.   
Dunque Tyr girò l’anello e si avvicinò alla belva. Per prima cosa decise di darle un nome: la chiamò Kaunaz.
Col darle il nome stabiliva e accettava già la sua posizione di superiorità: la Tigre avrebbe potuto anche divorarlo, ma non avrebbe mai potuto dargli lei il nome.
Egli dunque cominciò ad avvicinarlesi, per guardarla negli occhi e stabilire un contatto ipnotico, ma la Tigre che pur non vedendolo, lo sentiva, prese ad agitarsi nervosamente ed emise due o tre bramiti intimidatori. Per poterla mettere in condizioni di non violenza Tyr pensò allora di guidarla verso una parte del bosco dove c’era una grotta scavata nella roccia con una seconda uscita sul fondo assai piccola e stretta, appena sufficiente per lui e che Egli avrebbe potuto restringere ulteriormente con un grosso tronco che sapeva lì vicino. La chiamò per nome: “Kaunaz!” e le si mise a correre davanti; essa, eccitata dall’odore lo seguì. Dopo qualche giro egli entrò nella grotta e subito riuscì dalla parte posteriore, richiudendo il pertugio con il tronco, come programmato; poi, facendo il giro attorno alla grotta, non appena la Tigre fu entrata, ne chiuse l’ingresso con un masso, opportunamente fatto rotolare.
Ecco, l’aveva fatta prigioniera!
Ma una tigre prigioniera non è una tigre che ti permette di salire giocondamente sulla sua coda, è solo una tigre repressa che, se liberata, la prima cosa che fa è sbranarti.
E non era certo quello lo scopo di Tyr. Cavalcare la coda della Tigre è tutt’altra cosa; bisogna prima poter cavalcare il dorso della Tigre e poi ad un certo punto scivolare sulla coda facendo credere alla Tigre che è un gioco nuovo e divertente… Tyr cominciò a parlare con Kaunaz attraverso la roccia. “Ti faccio uscire subito se tu mi permetti di salire sul tuo dorso” le disse.
“Giammai” rispose la Tigre “Appena potrò ti sbranerò”.
“Allora dovrò aspettare che tu venga a più miti consigli per farti uscire” replicò Tyr.
Per ben 24 ore la Tigre continuò a saltare con violenza sul masso che chiudeva l’ingresso alla grotta e più di una volta questo parve cedere; ma Tyr aveva posto altri grossi sassi all’esterno e in qualche modo il riparo di fortuna resistette. Poi subentrò una fase di tranquillità; dopo le seconde 24 ore la Tigre pareva domata e chiese essa stessa a Tyr di farla uscire: si sarebbe fatta cavalcare.
Tyr tutto contento stava per liberarla quando sentì risuonare nel suo cuore la voce del Maestro: “Bada! Stai attento. Ricordati bene che cosa è la Tigre!”
Allora Tyr rispose a Kaunaz che avrebbe dovuto aspettare ancora 24 ore. Tale risposta scatenò l’ultima furia omicida della belva. I colpi provocati dai suoi balzi all’interno della grotta si susseguirono per un po’ a ritmo sempre più accelerato fino a far tremare tutta la roccia… poi piano piano cominciarono a rallentare; ora Kaunaz stava perdendo davvero la sua aggressività.
Tyr si portò allora dalla parte opposta della grotta, lì dove era la fessura da cui egli stesso era uscito, tolse il tronco di chiusura e attese. Erano passate 72 ore e Kaunaz a digiuno era dimagrita, la fessura era ora sufficiente per fare uscire anche lei. Tyr si appostò sopra il pertugio  e quando Kaunaz mise fuori la testa le piombò sul collo e tenendola forte con il braccio sinistro, prese ad accarezzarla con la mano destra, poi le diede da mangiare alcuni frutti che erano maturati su un albero vicino; Kaunaz, ammansita, gradì molto sia le carezze che il cibo. Tyr si era ormai reso visibile e le parlava dolcemente, guidandola piano piano verso la dimora del suo Maestro e mentre così andavano, il Discepolo e la Tigre, Egli si avvide di poter scivolare dal dorso della sua compagna fin sulla cima della coda  e lì rimanere in perfetto equilibrio; perché in quei tre giorni Egli stesso aveva subito una trasformazione e, pur rimanendo forte e vigoroso, era divenuto “senza peso”.

 

 

N.11  La Pace


“La Pace sia con voi” dice fra’ Cristoforo entrando nella casa di Lucia. Ma per arrivare alla pace dei personaggi dei “Promessi Sposi” si deve terminare tutto il libro, e quando il libro è finito anche la storia dei personaggi è finita. E allora? Chi se la gode poi quella benedetta pace?
Se ben ricordo la “colomba della pace”, quella della Genesi con l’ulivo nel becco, salta fuori dopo un bel diluvio universale e, nemmeno a dirlo, subito dopo con la questione del vino della vigna di Noè per il povero Cam (e di conseguenza anche per i fratelli) la pace comincia a svanire…
Generalmente poi, quando si parla di ”trattato di pace”, lo sanno tutti, vuol dire che si stanno rattoppando i buchi lasciati da una guerra bella e buona!
Ma se la pace non è che la fine della guerra allorché questa ha raggiunto il suo culmine e la guerra non è che il movimento che si crea quando la pace è diventata vecchia… quasi quasi conviene  mantenere sempre un po’ di guerra per poter sperare poi in un po’ di pace… evitando così di rendersi tristemente conto del fatto che quando si è in pace,  in realtà si sta solo costruendo la prossima guerra, il che provoca ovviamente l’immediata perdita della pace…
A questo punto del ragionamento la stesura della storiella sulla “Pace”, l’11° esagramma dell’I King, diventava sempre più improbabile per il nostro Discepolo che seduto dietro il tavolino da lavoro stava da qualche ora affastellando i suoi pensierini senza trovare pace… quando, all’improvviso, proprio davanti a quel suo tavolino si formò da niente una nebbia fitta fitta.
Dopo un attimo di esitazione il Discepolo si alzò dalla poltroncina girevole su cui era seduto e, un po’ titubante ma come risucchiato da quella nebbia, vi pose piede; si sentiva leggero leggero… doveva assolutamente dare un’occhiatina oltre quella cortina fumosa.
Infatti, dopo alcuni passi, la nebbia cominciò a diradare alla sua vista apparve un paesaggio chiaramente d’altri tempi: era come se si trovasse in un giardino pieno di piante strane; dappertutto erano cascatelle d’acqua e fontane con pesci guizzanti; alzando gli occhi egli poteva ammirare nel cielo un continuo intreccio di voli di uccelli bellissimi dalle piume variopinte; guardando in lontananza egli poteva scorgere la sagoma di un palazzetto dallo stile architettonico indefinibile… bello però, molto bello. E più il Discepolo avanzava, più si sentiva a suo agio in quella strana atmosfera. Quando giunse davanti a quel palazzo era come se in quel giardino ci fosse sempre stato:
… La guerra era stata durissima. In tutto l’Impero per quasi tre anni si era sofferto terribilmente per il freddo, la fame, i continui pericoli.
Ma ora, dopo l’ultima vittoria conseguita dalla cavalleria sui ribelli, sembrava proprio che si sarebbe finalmente giunti ad un armistizio e quindi alle premesse per un trattato di pace.
“I” il Grande Sovrano tanto amato e temuto dal suo popolo, il cui nome voleva dire “Colui che cambia nel modo giusto” aspettava da un momento all’altro la resa dei rivoltosi per procedere alla ristrutturazione delle nazioni dell’Impero. Finalmente in una radiosa mattina di fine inverno arrivò il messaggero. Il nemico era ormai ridotto ai limiti della sopravvivenza. Le perdite per lui erano state tali e tante da portarlo alla completa sconfitta. Ora voleva solo un po’ di respiro.
Nella grande sala del Trono “I” ricevette dalle mani dell’ambasciatore la supplica: sarebbe stata restituita la corona con il Grande Diadema rubata tre anni prima e oggetto delle prime ostilità, nonché causa prossima della rivoluzione. Il popolo ribelle sconfitto, un gruppo di origine etnica diversa da quella delle altre nazioni dell’Impero, che risiedeva al di là del Grande Fiume e che non aveva mai veramente accettata l’autorità imperiale, avrebbe giustiziato tutti i suoi capi, versato un cospicuo indennizzo per sette anni, quale risarcimento dei danni di guerra e inoltre avrebbe mandato per tre anni i suoi giovani a servizio dell’Imperatore.
Le condizioni della resa parvero sufficientemente soddisfacenti al Sovrano, nonostante che alcuni suoi consiglieri non fossero d’accordo né sulla cifra dell’indennizzo (pretendevano più del doppio) né sul servizio dei giovani: non avrebbero voluto, dicevano, nemici in casa.
Alla fine di una lunga trattativa la “pace” fu firmata secondo le decisioni di “I”. In breve tempo tutto l’Impero cominciò a rifiorire e prosperare. “I” diede ai suoi sudditi nuove leggi e direttive per lo sviluppo del paese cosicché dappertutto si produceva in abbondanza e il benessere era generale.
Tuttavia egli era cosciente del fatto che in realtà un certo malumore serpeggiava sempre nell’Impero, partendo dalla solita regione oltre il Grande Fiume, un malumore che avrebbe portato prima o poi ad un nuovo stato di tensione, che sarebbe sfociato dopo un po’ ancora in una rivoluzione, nel corso della quale sarebbe stata di nuovo rubata la Corona col Grande Diadema…
Per questo “I” non era soddisfatto: egli voleva governare nel modo migliore, voleva che il suo Impero fosse sempre in pace e così fece domandare dai suoi indovini al Grande Oracolo quali fossero le regole per regnare in pace a lungo ed ebbe questo responso:

Sostenere con dolcezza gli incolti, Attraversare decisi il Fiume, Non negligere il distante, Non tener conto dei compagni: Così alfine si riesce a camminare nel mezzo.
Dunque queste sarebbero state le quattro regole per il retto governo dell’Impero. Ma che cosa volevano dire di preciso? E come essere sicuri che venissero realmente seguite?
Per risolvere questi problemi fece proclamare un bando: “Chiunque fosse stato in grado di interpretare nel modo giusto l’Oracolo e si fosse dimostrato capace di mettere in pratica le quattro regole, sarebbe stato nominato Primo Ministro e avrebbe avuto in sposa la Figlia dell’Imperatore; se, invece, pur interpretando l’Oracolo, non avesse saputo dimostrare la sua abilità avrebbe “perso la testa” cioè, sarebbe stato decapitato.
Ci voleva certo qualcuno molto coraggioso per tentare la prova e già sei giovani si erano presentati e avevano fallito, allorché un ragazzo di nome Gebo (che vuol dire Dono) chiese di interpretare l’Oracolo.
Gebo era bello e biondo e subito la Figlia dell’Imperatore, il cui nome era Elxaz (che vuol dire Cigno) si innamorò di lui. Egli era uno dei giovani in servizio obbligatorio presso l’Imperatore, inviato dal popolo ribelle in ottemperanza al trattato di pace.
I consiglieri di “I” non volevano prenderlo in considerazione quale concorrente, ma il bando di concorso diceva: “Chiunque fosse stato in grado ecc.” e perciò fu accettato.
Gebo così spiegò l’Oracolo: bisognava fondere le lingue dei vari popoli delle nazioni, istituendo scuole in tutti i territori. Costruire ponti sul Grande Fiume per facilitare le comunicazioni. Incoraggiare gli scambi culturali ed economici. Infine: non tener conto dei pareri contrari a queste decisioni.
Ascoltata l’interpretazione, l’Imperatore “I” la trovò “giusta”. Ora il giovane Gebo doveva dimostrare di essere in grado di mettere in pratica quello che aveva interpretato. Gli fu data carta bianca e in breve tempo le scuole furono istituite, i ponti costruiti, i commerci intensificati. Per le prime tre regole non ci furono difficoltà. La quarta regola era l’unica che presentasse numerosi ostacoli; ed erano ostacoli a prima vista insormontabili: bisognava scalzare tutti i vecchi consiglieri dell’Imperatore, cioè potare tutto ciò che era “vecchio” attorno a Lui per poter costruire il “nuovo”. Questa era davvero un’impresa assai difficile. E Gebo non ne sarebbe mai venuto a capo se non avesse avuto l’appoggio e la complicità di Elxaz. Fu lei, come Arianna con Teseo, a portargli il capo del gomitolo di filo per uscire dal labirinto degli intrighi di corte, perché li conosceva a perfezione, essendovi nata e cresciuta, e perché era la confidente di tutte le dame che ruotavano intorno ai consiglieri dell’Imperatore.
Così Gebo in grazia dell’amore di Elxaz era in grado di conoscere le mosse dei suoi oppositori e di sventare le loro macchinazioni più occulte.
In capo a tre anni tutto l’Impero raggiunse quella situazione di “pace” che “I” aveva sempre desiderato.
Ma c’era un “ma”: “Egli” non era ancora in pace. Egli era cosciente che quella era una pace solo apparente e che per “poter camminare nel mezzo” bisognava continuamente spostarsi una volta da una parte e una volta dall’altra, mettendo ogni volta in pericolo l’equilibrio raggiunto.
Così di nuovo fece consultare l’Oracolo e questa volta ottenne come responso: Nessun piano cui non segua un declivio, Nessun’andata cui non segua il ritorno, Senza macchia è chi rimane perseverante nel pericolo.
Non rammaricarti di questa verità.
Godi della felicità che ancora possiedi.
Allora Egli se ne andò tutto solo su una montagna, la più alta del suo Impero, là dove era un Valico Famoso: nessuno di quelli che l’aveva oltrepassato era mai tornato indietro. Egli voleva tentare il Passaggio. Voleva sapere se oltre quello avrebbe incontrato un Imperatore capace di mantenere la “Vera Pace”.
Stette sulla cima di quella Montagna sette giorni e, senza saperlo, si svuotò di tutti i ricordi, di tutti i desideri, di tutte le aspirazioni, anche di quella alla pace per il suo Impero. Così, facendosi vuoto dentro, era divenuto come un canale, attraverso di Lui la Terra del suo Impero saliva al Cielo cantando la sua beatitudine, attraverso di Lui il Cielo del suo Impero scendeva sulla Terra cantando la sua gloria. Quella era la Vera Pace. Al termine dei sette giorni Elxaz e Gebo andarono sulla montagna alla ricerca del loro Padre, ma non Lo trovarono. Per tre mesi le nazioni dell’Impero furono in lutto per la perdita del loro Sovrano, poi, al termine di quel periodo iniziarono i festeggiamenti per l’incoronazione del nuovo Imperatore, che ovviamente era Gebo.
Mentre i festeggiamenti erano al culmine, dalla terra oltre il Grande Fiume arrivarono due messaggeri, portavano notizia di una nuova sommossa: la Corona col Grande Diadema era stata di nuovo rubata.

 

 

N.12  Il Ristagno

 

Il sovrano Auramasis, magnifico Signore del pianeta, il Giusto, il Supremo, l’Infallibile, aveva radunato i 12 ministri delle 12 Nazioni dell’Impero. Li aveva invitati al Grande Banchetto annuale: come al solito, sull’altare, che era poi la tavola dei convitati, ardeva la triplice fiamma blu, rosa, oro; come al solito, le vivande si materializzavano direttamente dinanzi agli invitati nei loro recipienti preziosi i quali, poi, scomparivano nel nulla allorché il loro contenuto era stato vuotato. La musica di sottofondo era Musica delle Sfere, sempre perfetta e sempre diversa, coro di angeli proveniente da ogni punto e da nessuno in particolare, che si smorzava dolcemente allorché la conversazione diveniva di interesse generale.
Al termine del banchetto il Sovrano Auramasis, al cui fianco era la Figlia giovinetta Astrea, si alzò ed iniziò il discorso: una leggera ombra di tristezza aleggiava sul volto sempre sereno e bellissimo del Re: Egli annunciava che quell’Età dell’Oro si era conclusa e che il suo compito era terminato; Egli se ne sarebbe tornato con la Figlia sul suo pianeta d’origine, come stabilito dalla Grande Legge e lì, su quella terra, sarebbe iniziato il periodo delle dure esperienze. Era terminata per quelle popolazioni l’epoca in cui “avevano ignorato l’esistenza degli Dei”; di lì a poco sarebbe venuta quella in cui “li avrebbero amati e lodati”; più tardi quella in cui “li avrebbero temuti”; da ultimo quella in cui “li avrebbero disprezzati (Tao Te Ching cap. XVII); sarebbe stata quella la punta più lontana dalla Verità raggiungibile; da quella sofferenza, da quella distruzione, da quella desolazione, sarebbe nata poi, come altre volte, la nuova umanità redenta…
“Voi che fino ad ora siete stati in Pace” continuava il discorso di Auramasis, “allorché noi ce ne saremo andati, sarete incapaci di mantenere l’ordine e l’armonia. Nello vostre stesse case nasceranno i contrasti ed i soprusi, la ribellione e il disordine; tuttavia voi, che siete stati i miei validi collaboratori per tanto tempo, vi reincarnerete più volte sulla terra per cercare di sollecitare i vostri popoli a progredire nel cammino verso la luce. Essi vi ameranno e vi odieranno, quasi sempre vi uccideranno, ma dopo morti vi considereranno i loro liberatori, i loro maestri e dalle vostre ceneri sorgeranno le grandi religioni, i grandi movimenti spirituali. Così con lo scorrere dei secoli e dei millenni si porranno le basi della nuova epoca in cui le attuali popolazioni diverranno coscienti e disposte a collaborare allo sviluppo della loro galassia. Ora mia Figlia Astrea segnerà ciascuno di voi con il Segno sulla fronte, per questo le forze del male su di voi non prevarranno e mai dimenticherete la Grande Legge. Voi, tornati a casa vostra, a vostra volta, segnerete ognuno 12.000 sudditi i quali, anch’essi, non dimenticheranno completamente la loro reale essenza e perciò l’obbedienza alla Grande Legge; è il massimo che sono riuscito ad ottenere alla riunione del Gran Consiglio in favore di questa umanità”.
I 12 funzionari si portarono ad uno ad uno ai piedi della Figlia del Re. La fanciulla di circa 16 anni, bellissima, dagli immensi occhi viola era vestita tutta d’oro e d’argento e radiava luce di tutti i colori; tracciò il Segno di Potenza sul centro in corrispondenza del punto in mezzo agli occhi dei 12 ministri: la luce interna dei chakra risvegliati mandò lampi di risposta. Ognuno tornò al suo posto. Comparvero ancora 12 calici d’oro, tutti tempestati di brillanti e pietre preziose: per l’ultima volta i 12 poterono bere la liquida sostanza luminosa che dava letizia, sapienza e forza, poi il ricevimento ebbe termine. Il Re e la Figlia si ritirarono. Sarebbero partiti quel giorno stesso con l’ultima astronave a loro disposizione e gli abitanti di quella terra sarebbero rimasti soli.
Un’aria di desolazione aleggiava dappertutto: ai dodici ministri pareva impossibile che quel meraviglioso stato di vita beata e innocente fosse giunto a termine; ma il Re aveva parlato chiaro: quello era l’unico modo di far fare esperienza a quel giovane popolo ribelle…
Ognuno se ne tornò a casa. Ognuno cercò di mantenere il governo del suo territorio secondo la Grande Legge. La “segnatura” dei 144.000 richiese un tempo relativamente breve, quando anche la 144.000esima persona fu “segnata” sulla terra cominciarono le lotte per il potere e le ricchezze. In pochi anni i 12 governanti morirono e nei vari stati si instaurarono monarchie con sovrani molto meno coscienti e preparati… però per alcuni millenni si riconobbe ancora l’ordinamento iniziale…era l’epoca dei “Giganti”.
Poi anche quell’organizzazione fu rifiutata e subentrò l’epoca del terrore, l’epoca delle lotte continue a cui pose termine il Grande Diluvio. Si giunse così al tempo del “disprezzo” della Grande Legge. I suoi emissari vennero completamente dimenticati e rimase solo il ricordo come un barlume di un’antica saggezza e potenza e quel poco venne tramandato in miti e favole popolari…
Poi il “fondo” del tempo oscuro ad un certo punto fu raggiunto; allora, per l’immutabile Legge del Mutamento qui e lì sulla terra rinacquero i Grandi: alcuni dei 12 segnati dalla Figlia di Auramasis, molti dei 144.000 dai 12 segnati; così nacque in Egitto Mosé, in Cina Lao-Tsè, in India Buddha; così si ebbero in Grecia Pitagora e Platone, in Palestina Gesù e con lui il Cristo in Terra…
Il periodo del “Ristagno” per quel pianeta stava per terminare, nel giro di 2-3000 anni, spuntati tutti i nuovi germogli al vecchio Albero della Vita si sarebbe avuta la nuova primavera: la nuova età dell’Oro.

 

 

N.13  La Fratellanza

 

Zfa era un piccolo passerotto che, da quando era nato, aveva sempre pensato di cantare in un Grande Coro di passerotti. Aveva frequentato varie scuole di canto, ma i passeri maestri gli avevano sempre detto che “stonava” perché andava per conto suo e questo disturbava il loro insegnamento. Così ogni volta Zfa se ne era uscito da quelle scuole col capino basso, indispettito e addolorato, senza però mai abbandonare la sua idea di cantare nel Grande Coro. Zmo che apparteneva sicuramente alla stessa famiglia di passerotti, che aveva le piumette tutte ordinatine, lo incoraggiava e qualche volta andava con lui a tentare di cantare sui rami degli alberi; spesso finivano sul fico o sulla mimosa a cinguettare insieme….ma bisognava riconoscere che il loro non era un gran coro… non era nemmeno un coretto, mancava di tecnica, di forza, di tutto!
Zma era un altro piccolo passerotto, vivace e allegrotto, spesso con le penne arruffate, loro compagno di voli arditi e avventurosi; anche lui voleva “cantare” e così capitava a volte di vederli tutti e tre esercitarsi, vicini vicini, sui soliti rami dondolati dal vento.
Durante un volo di avanscoperta in una scuola di cinciallegre Zfa e Zma avevano incontrato e chiamato Zuo, passerotto austero e solitario, desideroso di “cantare” in compagnia; sullo stesso suo ramo intanto Zmo aveva chiamato Zaa, passerottino timido ma ben deciso a “cantare” la sua canzoncina personale e ad essi si era unito, per un po’ di tempo Dea, un passerotto svagato e distratto appartenente ad un’altra famiglia. Poi un giorno essi seppero che lì nei pressi c’era un corvo da molti considerato “maestro di canto”. Andarono tutti dal corvo a chiedere consiglio su “come cantare”.  Il corvo infatti dirigeva la sua scuola con buon successo…. Ma era vero canto quello? L’insegnamento del corvo diceva che bisognava praticare il canto a terra, non sulla cima degli alberi più o meno alti…e poi il corvo voleva un chicco di grano ogni volta che insegnava come aprire il becco (e certe volte voleva il chicco di grano anche senza insegnare un bel niente).
Zuo per primo, poi Zfa e Zmo decisero che non era così che si insegnava a cantare. Secondo loro il chicco di grano ogni uccello se lo deve trovare da sé, solo allora può insegnare a cantare; perché il “canto” non lo si può barattare col grano! Dopo poco tempo i nostri passerotti tornarono a cantare come potevano, da soli, sui soliti rami dell’albero del fico e della mimosa.
Passò così una stagione…poi di nuovo tra di loro si sparse la voce che un colombo lì vicino teneva anche lui una scuola di canto, tutti insieme andarono da lui, ansiosi di imparare la sua tecnica di musica; intanto ad essi si era aggiunto un altro passerotto,  Zla, molto intonato, per la verità, molto desideroso di “cantare”… ma sempre in ritardo… Il colombo insegnava in un sotterraneo di un cortiletto e sapeva fare solo glu-glu. Non era un gran che come insegnamento… passò così un’altra stagione. I nostri passerotti cantavano sempre come potevano e si potrebbe dire: sempre meglio; (grazie, non facevano altro che esercitarsi!) sempre là, sui rami più alti dei soliti alberi, ma non erano ancora soddisfatti. Quando qualcuno fece circolare la notizia che un gallo aveva da molti anni una valida scuola di canto, Zfa disse: “Andiamo a vedere”.
Il gallo era molto disponibile: accolse il passerotto e gli permise anche di cinguettare le sue canzoncine alle sue gallinelle. Questo fatto fece talmente ben sperare (Zfa vedeva sempre un coro con tanti, tanti cantanti) che fu proposto al gallo, che doveva per motivi suoi lasciare il pollaio, di tenere la sua scuola là dove i passeri si esercitavano a cantare. Il gallo acconsentì e provò a cantare ai piedi dell’albero… il suo chicchirichì era possente, ma le galline, abitudinarie, non trovarono affatto comoda la sistemazione, volevano il loro solito pollaio, e così il gallo fu abbandonato e rimase con due sole pollastrine che si erano adattate sui rami più bassi dell’albero. Il gallo rimase assai male: guardò in su il gruppo di passerotti tutti intenti alle loro esercitazioni, troppo occupati per badare a lui; allora, zitto zitto, se ne tornò dalle sue vecchie galline. Quando i passerotti, alla fine di una esercitazione guardarono giù, non videro più nessuno.
Ormai i passerotti,  non molti, ma più numerosi di prima, cantavano a cerchio.
Il loro Canto aveva assunto una struttura ben precisa, nitida, formata secondo quelle regole interne equilibrate ed armoniche che permettono la formazione di un Coro anche di modeste dimensioni. Non cercavano più il Maestro di Canto, in realtà non ne avevano mai avuto bisogno; eppure da tutti i vari maestri e soprattutto dal corvo, dal colombo e dal gallo tante cose avevano imparato: avevano imparato che il Canto del Vero Coro sgorga spontaneo dal Cuore, si armonizza da solo nel gruppo dei Veri Fratelli e così, limpido e puro, va diritto al Creatore.

 

 

N.14  Il Possesso Grande

 

Alef, Discepolo del Grande Maestro Eheieh, un giorno desiderò studiare il significato del 14° esagramma dell’I King; ma era notte tarda ed era affaticato, così si addormentò sul libro e sognò…
Vide una terra fertile e ubertosa, una valle ricca di vigne e pascoli, produttiva e fiorente “con rugiade dal cielo e terre grasse, abbondanti di frumento e di mosto” (Gen.27,28) e udì una voce che gli diceva: “Io sono il Signore che ti ha fatto uscire da Ur dei Caldei per darti in possesso questo paese…”(Gen.15,7). Allora si svegliò. E nei giorni che seguirono prese a trascorrere tutto il suo tempo in passeggiate solitarie su per le montagne alla ricerca della Terra Promessa.
Certo, si trattava di una “valle ubertosa”, ma egli sapeva di sicuro che l’avrebbe trovata al termine di un sentiero rapidissimo, oltre la cima di un monte; sapeva pure che avrebbe incontrato fiere ed ostacoli sul suo cammino, tuttavia andava perché l’attrazione di quella valle era irresistibile. Fermarsi sarebbe stato quasi come decidere di tornare indietro, ma egli era ben consapevole del fatto che la vita vissuta prima di iniziare il cammino sul Sentiero non sarebbe stata  più vivibile per lui. Camminò così per settimane, mesi, anni; affrontò le previste fiere, superò picchi e burroni, poi un giorno, stanco e con i capelli tutti bianchi, giunse sulla cresta di una montagna. Guardò in basso e “la” vide. Vide la sua Terra Promessa. Allora la schiena ormai curva gli si rizzò come per incanto ed egli iniziò la discesa che lo avrebbe portato all’agognata meta.
La terra era proprio come descritta nel sogno: ricca di “rugiade dal cielo e terre grasse, abbondanti di frumento e di mosto”.
“Finalmente sono arrivato!” disse.
Ringraziò il suo Maestro, che era poi il suo Dio e Gli eresse una Stele di Pietra e si preparò ad insediarsi in quel Paradiso Terrestre.
Piantò la sua Tenda, scavò il suo Pozzo; radunò gli armenti che spontaneamente venivano lì ad abbeverarsi…poi, un giorno, più stanco del solito, si addormentò presso il suo gregge e sognò: gli apparve la visione di un lago profondo, stupendo, e udì una Voce che diceva: “Io sono il Signore che ti fa uscire dalla terra dove ti trovi per darti in possesso questo lago…” Alef si svegliò… non credeva alle sue orecchie! Ora gli si chiedeva di lasciare la sua Terra e di cercare l’acqua…ma era di nuovo giovane e forte e si sentiva spinto inesorabilmente alla nuova avventura.
Senza pensarci due volte, abbandonò tutto: campi, armenti, Tenda… e via, alla ricerca dell’Acqua Promessa.
Si costruì una barchetta e con quella prese a costeggiare tutte le spiagge, risaliva tutti i fiumi, fino alle sorgenti, sempre alla ricerca del lago che gli era apparso in sogno; passarono le settimane, i mesi, gli anni, dovette affrontare bufere e tifoni, rapide e cascate, serpenti d’acqua e draghi di paludi e quando fu di nuovo vecchio, curvo e stanco, un giorno, risalendo un fiume assai pericoloso, giunse all’imbocco di una vallata con al centro un lago bellissimo. Lo riconobbe, era il Lago del sogno. Si immerse nelle sue acque e ne penetrò tutti i segreti: egli imparò a camminare su quel lago, a calmare le sue acque o renderle gonfie e tempestose a suo piacimento, riuscì a far cantare e piangere le sirene che l’abitavano, ad ordinar loro di costruire palazzi di cristallo e giardini di alghe e madreperla; si fece costruire infatti una casa tutta trasparente e al centro eresse una colonna d’acqua di tutti i colori, fonte perenne, in onore al suo Dio. Quando fu stanco si sdraiò ai  piedi di quella colonna e si addormentò. E sognò. Vide un cielo infinito ad altezze inimmaginabili e udì una Voce che gli diceva: “Io sono il Signore che ti fa uscire dal lago dove ti trovi per darti in possesso questo cielo…”
Alef si svegliò, aveva ora due lunghe ali che gli erano spuntate sulle spalle, era di nuovo giovane e forte… abbandonò immediatamente il suo regno acquatico per iniziare il viaggio aereo alla ricerca del suo Cielo, dell’Aria Promessa. Sorvolò pianure, valli e monti, mari, fiumi e laghi, cercava di spingersi sempre più in alto e poiché qualche volta, assai di rado, incontrava qualcuno che volava come lui, gli domandava quale fosse la sua meta. Tentava di insegnargli la sua tecnica di volo se era meno esperto di lui, tentava di apprenderne la tecnica di volo se era più esperto di lui. Una volta, dopo aver incontrato un gruppo di uomini-aria che volavano in perfetta formazione, scorse in lontananza un volatore solitario; lo raggiunse e udì la voce del sogno dirgli: “io sono il tuo maestro, seguimi…” Ebbe timore; era dunque caduto nel volo-illusione (nel contro-volo)?Perché il Vero Maestro non poteva trovarsi in quello stato-vibrazione… allora fuggì, in ascesa verticale…e così, volando a quota altissima, riconobbe il famoso Cielo della Promessa e, stanco, si abbandonò su una nuvola a forma di amaca e si addormentò.
Nel sonno vide la fiamma più pura librarsi verso l’infinito e udì, per l’ultima volta la Voce dirgli: ”Io sono il Signore che ti fa uscire da questo cielo per darti in possesso il Fuoco; ora non dovrai più camminare, nuotare o volare… ora dovrai rientrare, dopo aver lasciato tutti i tuoi poteri… ricorda che il vero possesso è il non possesso…” Alef si ridestò per l’ultima volta, si immerse nel Fuoco che gli veniva indicato e che sentiva ardere in mezzo agli occhi…rientrò in Sé. Vide che la Valle che aveva perduto per cercare il Lago, in realtà lo circondava: vide che il Lago che aveva perduto per conquistare il Cielo ne era lo specchio e che il Cielo che aveva perduto per accedere al Fuoco ne era la base e che lì in quel Punto Zero, la sua Terra, la sua Acqua, la sua Aria e il suo Fuoco Promesso coincidevano...con-prese tutto e divenne il Possesso Grande.

 

 

N.15  La Modestia

 

  La Modestia camminava sulla Terra da sempre perché quello faceva parte del suo compito; (compito che aveva l’incarico di svolgere nel modo migliore, come tutte le altre qualità come lei, del resto). Incedeva con passo lento e bussava a tutte le porte che incontrava sul suo cammino; ma raramente ne trovava qualcuna disposta a spalancarsi e ad accoglierla. Quel giorno di primavera inoltrata, ella era proprio stanca (erano mesi che nessuno l’ospitava), con i sandali tutti impolverati, la lunga veste lacera all’orlo, il velo incrostato di polvere, tanto da non essere più trasparente, aveva proprio deciso di trovare un “qualunque” asilo: doveva assolutamente riposare.
“Mi accontenterò di una accoglienza modesta, di poche ore, tanto per sistemare l’abito e fermarmi un po’! Ma devo assolutamente farmi ospitare da qualcuno”. Vide davanti a sé un palazzetto a più usci, di tre o quattro piani, avvolto nella nebbia.
Sul pianerottolo c’era una porta, quella della casa del portiere. Pensò: “Sicuramente egli sarà modesto e non avrà difficoltà ad accogliermi”. Bussò. Il portiere le chiese che cosa volesse. La Modestia spiegò che era molto stanca, chiedeva solo alloggio per un giorno. Il portiere le rispose che lui personalmente non avrebbe potuto ospitarla, ma che poteva rivolgere la domanda agli inquilini dei piani superiori.
Non l’aveva cacciata via. Era già molto.
Al primo piano la Modestia trovò due usci simmetrici: uno a destra, uno a sinistra. Bussò allora all’uscio di sinistra: venne ad aprire una signora tutta elegante; la signora sapeva fare di tutto, era abilissima in qualunque lavoro, soprattutto “recitava” assai bene; doveva perciò essere sempre “Splendente”; dove avrebbe potuto mettere la Modestia? Che provasse piuttosto a chiedere ospitalità al signore di fronte, forse avrebbe avuto più fortuna! La Modestia bussò alla porta di fronte. Venne ad aprire un giovane di bell’aspetto. La Modestia espose la sua richiesta, ma ebbe come risposta un rifiuto: il giovane era un giocatore di professione ed era abituato a “Vincere” non avrebbe mai potuto accogliere presso di sé la Modestia, non era proprio una qualità che gli si addicesse! Che facesse un tentativo al piano di sopra!
Al piano di sopra c’era una sola porta. Quando la Modestia salì l’ultimo gradino di quella rampa, tirò un grosso sospiro, poi si diede coraggio e bussò. Venne ad aprire un meraviglioso ragazzo vestito da principe: la sua prerogativa, lo si vedeva lontano un miglio, era la “Bellezza”. La Modestia non osò domandargli ospitalità e salì con le gambe tremanti ancora al piano di sopra.
Al terzo piano c’erano due porte simmetriche, come al primo. Una a destra, una a sinistra. La Modestia bussò a quella di sinistra. Le aprì una matrona bella e vigorosa; questa si proclamò la “Forza” di tutta la casa e disse subito che non avrebbe potuto accogliere la Modestia perché non aveva posto. Ma, visto che era lì, essa avrebbe potuto bussare all’uscio di fronte; vi abitava un signore noto per la sua Giustizia; se era “giusto” per lei avere un posto in quella casa, glielo avrebbe trovato di sicuro; così detto, chiuse la porta. La povera Modestia era al limite delle sue forze. Con un ultimo sforzo bussò all’ultima porta.
Venne ad aprire il giudice in toga e tocco: “Lui ospitare la Modestia? La signora dell’uscio di fronte doveva essere impazzita! La Giustizia deve essere giusta, non modesta!”
E così anche quell’ultima porta si richiuse.
Allora la Modestia si ricoprì il volto con il velo e tutta curva stava già per iniziare a discendere le scale quando… udì una Voce chiamarla dall’alto. “Non vuoi salire ancora un piano? E’ da Me che devi venire prima di tutti. Sono Io il Padrone di Casa. Se tu bussi alla Mia Porta Io ti accoglierò e ti farò poi ospitare a Mio Nome da tutti gli altri inquilini”.
La Modestia non vedeva scale per salire…capì che il Passaggio per l’ultimo Piano non era fatto di gradini, ma doveva essere un “salto in alto”. “Volle” essere al Piano di sopra, alla Presenza del Signore della Casa. Si concentrò e si trovò di fronte al Padrone.
L’abito lacero era sparito; la veste era di nuovo “modestamente” meravigliosa”; il velo terso e trasparente; i sandali lucidi ed in perfetto ordine. Egli la ospitò e la rifocillò; poi le diede il permesso di presentarsi da tutti gli inquilini del Palazzo a Suo Nome.
La Modestia si recò allora dal Signore della Giustizia ed il Giudice l’accolse in sé, perdette qualcosa e divenne Giudice di Pace. Poi tornò dalla Signora della Forza, questa l’ospitò, acquistò qualcosa e divenne Forza equilibrata. La Modestia scese dal Principe della Bellezza, ed egli, per mezzo suo, si trasformò in “Principe d’Amore”.
Poi la Modestia entrò nella casa del “Giocatore Vincente”, anch’egli la ricevette, anch’egli perdette qualcosa e divenne la Vittoria moderata; subito dopo la Modestia fu ricevuta dalla Signora Splendente, essa subito acquistò qualcosa e divenne lo Splendore Duraturo. Infine la Modestia passò dal Portiere, questi, accogliendola, si trasformò in Vero Guardiano della Soglia.
Per merito della Modestia tutta la Casa si perfezionò e divenne Albero della Vita.
Allora la Modestia, rinnovata, tutta rivestita di splendente umiltà riprese il suo cammino alla ricerca di un altro Palazzo disposto ad ospitarla e che Ella avrebbe trasformato in Tempio di Luce.

 

 

N.16  Il Fervore

 

Quando Jod fu chiamato a governare il paese di Chefa la corruzione dilagava per ogni dove: la venerazione degli avi era stata dimenticata, gli anziani venivano derisi e tenuti in disparte, gli uomini erano divenuti codardi e le donne spudorate, l’educazione dei fanciulli era trascurata; insomma, la Legge era dappertutto  ignorata  o vituperata. Jod dapprima pensò di rifiutare l’incarico, ma poi il suo alto senso di responsabilità e la compassione che suscitava in lui il suo popolo lo fecero decidere per il “sì”. Accettò. Avrebbe tentato per un periodo di sette anni di riportare la pace e la giustizia, l’ordine e il rispetto reciproco nella sua gente.
Entrò a Palazzo, là dove il suo predecessore era stato trucidato mentre gozzovigliava con i suoi cortigiani, chiamato da quei pochi che ancora credevano nella necessità di avere un capo di stato di completa integrità. Jod doveva solo governare e governare bene. Diede subito inizio a un periodo di cambiamenti e riforme: i cambiamenti erano salutari e le riforme giuste, tuttavia le leggi da lui promulgate, che rendevano attive e operanti le riforme, potevano essere fatte rispettare solo con la coercizione e la repressione, queste purtroppo suscitavano odio e desiderio di vendetta e quando odio e desiderio di vendetta crescono, si sviluppano ribellione e disordine. Jod non riusciva a trovare il modo giusto di far accettare alla popolazione i sacrifici necessari alla pacifica convivenza e al benessere comune.
Dopo tre anni di faticosi tentativi stava per rinunciare all’incarico e dimettersi, quando decise di recarsi in pellegrinaggio al Tempio agreste situato al limite del confine del suo stato. Era quello un luogo sacro, carico di radiazioni positive; là gli antichi re del paese si recavano per trarre i buoni auspici per il loro governo. Andò dunque Jod al Tempio: compì le rituali abluzioni, si unse con l’olio benedetto, mangiò il pane sacro, bevve il vino delle offerte e si immerse nella contemplazione ispiratrice. E vide sui quattro sentieri che dai quattro punti cardinali portavano al Tempio, affluire quattro colonne di buoi giganteschi, tutti bianchi, tutti in fila ordinata. Poi si sentì sollevare in alto e vide che le strade del suo paese erano tutte popolate di cani e di tartarughe, anch’essi giganteschi e tutti bianchi; ognuno di loro, a coppia, un cane e una tartaruga, sostavano ordinatamente ai lati di ogni porta di ogni casa del paese. Poi di nuovo Jod si ritrovò a terra e vide accanto a sé un agnello tutto bianco e arancio, alto sette metri, che gli faceva cenno di salire su di un albero di acacia lì vicino. Jod salì e quando fu in cima i suoi occhi si trovarono all’altezza degli immensamente dolci occhi dell’agnello che così parlò: “Le forse del tuo popolo sono tutte qui, in attesa di essere utilizzate e ordinate. I tuoi sudditi celano in loro stessi la forza e la calma del bue, la fedeltà e l’obbedienza del cane e la sacralità della tartaruga, ma queste qualità possono essere rese manifeste solo se tu stesso sai suscitarle in loro; per poter far ciò tu devi accogliermi in te con FERVORE, IO SONO il tuo Sacrificio per il tuo popolo, lasciami entrare in te e allora di sicuro riuscirai nel tuo compito”.
Jod rispose: “Sono pronto… ma come posso accoglierti in me? Tu sei così grande…!” Aveva appena terminato di parlare che l’Agnello bianco e arancio cominciò a rimpicciolire. Divenne sempre più piccolo, si rinchiuse in una sfera trasparente come una bolla di sapone e gli si posò sul cuore ed entrò in lui. Jod si destò, lasciò il Tempio e tornò dal suo popolo.  Chiamò quegli stessi che lo avevano eletto e, dando tutto di sé, insegnò loro tutto quello che sapeva e che aveva imparato; poi li mise a capo di piccoli gruppi di persone da loro scelte in grado di aderire ai principi della Legge e, appena questi furono abbastanza preparati, li mandò in mezzo al popolo ad insegnare con fervore con la parola e con l’esempio, nelle scuole, nelle case, nelle piazze. Tutti quello che aderivano agli ideali venivano a loro volta mandati ad insegnare agli altri: la Spirito di Sacrificio si trasmetteva dall’uno all’altro come il fuoco di una candela accesa ne accende centinaia di altre purché la sua fiamma venga accostata opportunamente allo stoppino.
In capo a quattro anni il popolo divenne tutto operoso e forte come il bue, docile e fedele come il cane, saggio e prudente come la tartaruga. Tornò alla venerazione degli avi, ad ascoltare e a tenere in considerazione i consigli degli anziani.  Gli uomini ridivennero coraggiosi e le donne modeste e riservate, i fanciulli furono di nuovo educati fin dalla più tenera infanzia, alla conoscenza e al rispetto della Legge.
Allo scadere del 7° anno della sua reggenza Jod fece organizzare una gran festa, durante la quale Egli elesse un Re e una Regina prima di andarsene per sempre. ….
Al termine della cerimonia, nel silenzio più completo il nuovo Re-Sacerdote e la nuova Regina-Sacerdotessa alzarono le loro coppe ricolme di liquido sacrificale; era l’ora del tramonto e un bagliore di fuoco si rifletté sull’oro dei calici e, benché il cielo fosse completamente sereno, da oriente si fece udire il rombo di un tuono. Un brivido di sacralità percorse la folla degli astanti: Dio aveva accettato l’offerta e manifestava il suo beneplacito per i festeggiamenti in corso.
Le coppie di giovani, fanciulli e fanciulle iniziarono le danze rituali e la musica delle cetre e dei liuti riempì l’aria con la sua sonorità argentina. Gli avi furono evocati e la Coscienza dell’Unità nella Divinità Tutelare saturò l’aria di sé… il FERVORE pervase il popolo, l’entusiasmo esplose: “Dio è!… Dio è!…” Jod dall’alto della torre guardava e sorrideva… e pian piano scompariva…