Colloquio con la madre Esiste una particolare facoltà dello spirito umano, l’intuizione, che riesce a superare le barriere dello spazio e del tempo, a penetrare in profondità segrete, nascoste all’occhio comune. I fratelli Taviani, probabilmente, ne hanno almeno in parte fatto uso nell’affrontare il lavoro di Luigi Pirandello: anche loro grandi artisti, hanno saputo rappresentare l’opera del drammaturgo dandone, nella versione filmica, un’immagine – oserei dire - talvolta più vera e appassionante di quella letteraria. E’ il caso di “Colloquio con la madre”, episodio di “Kaos” che si ispira a parte di una novella (“Colloquio con i personaggi”) senza seguirla in maniera letterale, anzi, aggiungendo eventi, particolari ed atmosfere non originariamente presenti in essa, inesistenti; eppure, così, il racconto risulta perfettamente intonato allo spirito dell’autore siciliano, anzi sembra catturarne l’anima e restituircela in forma trasfigurata e poeticamente struggente.
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Pirandello in questo episodio conclusivo del film è egli stesso protagonista. E’ un uomo di successo, uno scrittore affermato, a Roma gode di reputazione e meritata fama. Chi è però veramente l’uomo Pirandello, cosa ha realizzato davvero nel suo intimo? In fondo tutta la sua opera si occupa di capire chi siamo, al di là delle convenzioni, delle opinioni collettive, dell’immagine sociale, pubblica, stereotipata, che abbiamo di noi e degli altri. Questa ricerca, così pressante nella sua sensibilità e nel suo lavoro, torna a tormentarlo come un richiamo: egli si sente chiamato a tornare indietro, al paese natale in Sicilia, dopo anni di lontananza. Forse, come tutti noi quando ci impegniamo nelle vicende della nostra storia, nel quotidiano, nelle mille faccende che ci assillano, anche lui ha perso il contatto con la sua vera natura, con la sua terra originaria, con sé stesso. Questo ritorno indietro ha proprio lo scopo di riportarlo alle radici, al sé stesso che è quasi scomparso nel ricordo, ricoperto com’è da strati e strati di esperienze, di eventi. Da qui il dialogo con la figura materna, simbolo femminile della profondità, dell’origine di noi stessi, della memoria e della consapevolezza del nostro vero io. Una madre morta nella realtà di questo mondo e, quindi, tanto più grande e importante nel suo ruolo archetipico e spirituale di consigliera, di anima, di quella ‘grande madre’ che, in sostanza, è la vita stessa.
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Il dilemma, profondamente introspettivo, di Pirandello, qual è? In questo colloquio egli si rende consapevole di un fatto importante: il pensiero e la reminiscenza della madre sono in lui sempre vivi, a portata di mano, possono essere richiamati; la madre morta, però, non può più pensare a lui, perché non c’è più. Quella rappresentazione di lui che l’altra persona aveva, ora è scomparsa: per questo si piangono i morti, non tanto per loro, piuttosto perché ci manca la loro considerazione, senza di loro perdiamo una parte della nostra realtà, noi stessi moriamo, diventiamo più inconsistenti. Quanto è importante il ricordo, la conoscenza, il pensiero, il sentimento, la percezione! Queste sono le cose reali che danno sacralità e consistenza al vivere. L’unico rimedio al grande rammarico, alla desolazione dell’esistenza, alla morte – egli suggerisce - è prestare i propri sensi, i propri occhi a coloro che non ci sono più: percepire suoni, luci e colori anche per loro, vivere affinché il loro ricordo in noi trovi concretezza, voce, per lo meno per il tempo in cui noi stessi siamo vivi. Proprio questo fa, in fondo, un grande scrittore come Pirandello: si fa medium di chi non ha più voce, o di chi non l’ha mai avuta perché è semplicemente un ‘personaggio’, nato dalla fantasia dell’autore magari per descrivere una situazione, un problema o un sentimento comune a tanti, in definitiva nato da un colloquio con sé stesso.
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Fin qui, più o meno, quanto ci racconta lo stesso Luigi Pirandello nella sua novella. I Taviani, però, vanno oltre. Prendendo spunto dalla storia della madre del drammaturgo, quella che lei gli rammenta nel loro colloquio, una vicenda di quando lei era bambina caratterizzata dalle difficoltà, dall’esilio e dall’allontanamento dalla Sicilia per vicende politiche avverse, i registi del film ci propongono una soluzione ulteriore al dilemma della vita e della morte. Nell’’isola della pomice’, tappa di quel viaggio, c’è un momento di grande serenità, al di là delle cure quotidiane, dei doveri, della sofferenza e degli ostacoli. I bambini, fra cui la madre dello scrittore, si slanciano dalla collina di polvere bianca e si tuffano nel mare, in un volo di commovente serenità, fuori del tempo, come in un istante eterno. In quella innocente freschezza, in quel gioco, si avverte una grande liberazione, un vertice di verità: in quel grande mare, il mare della vita, si slanciano sereni, pieni di speranza, con l’ingenuità delle anime giovani, rinnovate e forse, proprio per questo, antiche. Esiste il piano delle cure, degli affanni, delle lotte, dell’esilio, del dolore, della mentalità concreta e ‘adulta’. Esiste, però, anche quella dimensione ingenua, difficile da raggiungere, oltre il pensiero, che non teme nulla e non si preoccupa di nulla, e che si lascia andare nell’abbandono, scivolando felice verso la totalità dell’eterno presente: e questa, senza dubbio, è la vera immortalità. |