GIULIO CESARE Fra le opere di Shakespeare, questa è una delle più fredde, ha ragione il famoso critico Samuel Johnson. Ma non ne spiega i motovi, che secondo noi vanno ricercati semplicemente nella natura politica di questa tragedia. Il grandissimo drammaturgo non poteva che servirci un piatto freddo, perché laddove c'è politica c'è ghiaccio, cristallizzazione, egoismo raffreddante elevato all'ennesima potenza. Che sia un'opera politica è evidente: c'è una folla disposta a farsi manipolare, un capo molto invidiato e temuto, dei subordinati ambiziosi disposti a tutto pur di raggiungere il potere. Per non parlare dei discorsi di Cassio, Bruto, Marc'Antonio e dello stesso Cesare. Machiavelli serpeggia fra sillaba e sillaba, sibilando quel vento gelido serpentino proprio, appunto, della politica. René Girard vede nel Giulio Cesare un'opera fondata sul sacrificio. Ma è questa una tesi poco condivisibile, in quanto il sacrificio ha natura religiosa, e di religiosità qui non v'è nemmeno l'ombra. Né è condivisibile la critica di George Bernarde Shaw, che rimane sdegnato per come un grande uomo come Cesare venga presentato come "millantatore", e dei volgari assassini come grandi "statisti e patrioti". La sua lettura è troppo letterale, non tiene conto delle esigenze teatrali di Shakespeare, che dovendo dar vita ad una tragedia, dovendo parlare di politica, dovendo ironizzare sulle masse, è costretto ad invertire certi parametri. La grandezza della tragedia sta proprio qui, in queste inversioni che ben mostrano le invertite polarità dell'animo del politico. Alla fine, un assassinio rimane un assassinio, nonostante le mille architettate pseudo giustificazioni dell'atto contro natura. Non c'è sacrificio (?) che tenga, non c'è filosofia che spieghi, non c'è politica che possa giustificare: chi toglie la vita ad un uomo non può compiere nulla di meritevole o saggio. Punto. Ne si può tirare in ballo Freud con il "suo" Edipo per giustificare l'orrenda azione di Bruto e compagnia. La politica è fredda perché chi la pratica è già un uomo morto, uno che ha deciso di non essere dal momento che ha incoronato il proprio ego suo spirito. La politica è fredda come una lama: ogni parola del politico è tagliente, mira ad eliminare avversari politici, è avvelenata dall'ambizione, dall'invidia, quindi è scorpionica. La politica è fredda perché freddo è il sangue del politico. Il Giulio Cesare è un enorme cadavere di politico che sulle tavole di palcoscenico viene di volta in volta mostrato in tutte le sue fredde e inerti componenti. Cesare, Bruto, Cassio, Ottaviano Antonio e tutti gli altri sono solo organi di questo mitico, quasi archetipico "uomo politico". Ma è soprattutto negli effetti che ha sulla folla che possiamo vedere la natura politica di questa tragedia. Il discorso di Marc'Antonio è un esempio classico di come una massa di persone dotate di poco o nullo senso critico possa essere manipolata a piacimento da semplici infiammanti-fredde parole. Le frasi di Marc'Antonio hanno occhi di serpente che riescono - nonostante diretti da freddo sangue - ad affascinare, infiammare. Quello sguardo satanico ha ucciso ogni uditore, lo ha raggelato nella mente, pietrificato, ipnotizzato, avvelenato. "Ora basta lasciar fare. Furia, sei scatenata, segui il tuo corso" . Antonio può concludere il suo discorso in questo modo, perché consapevole di avere iniettato quel potente veleno che solo il politico è in grado di produrre. Ancora una volta Shakespeare mostra di essere un profondissimo conoscitore dell'uomo, e quindi un maestro. Chi vuol conoscere i cromosomi del politico non deve perdere tempo con microscopi e- lettronici: legga Giulio Cesare. Cominciamo dunque a dare un'occhiata più approfondita a tale tragedia. Nel dialogo Bruto - Cassio del primo atto possiamo vedere e toccare con mano quali sono le molle che fanno del politico, paradossalmente, il "creatore " della storia. Molti sono convinti che i Bruto e i Cassio nascano e crescano sotto la spinta di ideali o di pensieri filosofici. Non è così. Quelli sono solo paraventi. Shakesperare ci offre l'opportunità di sbirciare oltre ed osservare le vere cause. Cesare (non dimentichiamo che anche lui è un politico, ma che soprattutto è un condottiero) è diventato grande e ha fatto grande Roma. Incoronarlo è per i romani un fatto quasi automatico, scontato, diremmo quasi dovuto. Cassio ha salvato Cesare dai gorghi del Tevere ed ora i romani, di quest'uomo, ne hanno fatto un dio. Quando si ammalava, un tal dio tremava e si lamentava come una bimba malata. "Di che cibo si nutre questo Cesare, per esser tanto cresciuto?" (Giulio Cesare - Mondadori, pag. 25). Non ci vuole la laurea per avvertire dietro queste parole di Cassio un'invidia colossale. Se Cesare ha fatto quel che ha fatto ed è diventato quel che è diventato, un buon motivo deve pur esserci. Non tutti nascono condottieri, né tutti vengono al mondo con doti di comando. Ognuno ha le sue pre-disposizioni, quindi è adatto per certe cose e non adatto per altre. Dov'è lo scandalo? L'invidia è un sentimento umano negativo che ha radici lontanissime, tanto che uno dei dieci comandamenti recita "non desiderare la roba d'altri". I gatti non sono invidiosi. Quando due maschi si incontrano non stanno lì a discutere su chi è il più bravo: lo dimostrano in una lotta istantanea per il territorio o per la gatta: chi vince è il più bravo. Niente vendette, niente ricorsi, niente pugnalate alle spalle, né comizi o fondazioni di partito. Cesare è Cesare e Cassio è Cassio. La vita ha prodotto una sorta di selezione ed ha messo ciascuno al suo posto. Questa è l'unica incontestabile verità. Alterare una selezione già avvenuta con la violenza non sortisce effetto. Questa tragedia lo dimostra. Ma allora la Rivoluzione Francese, direte voi? Libertà, uguaglianza, fraternità? Lì la dignità umana era calpestata, i comuni diritti naturali dell'uomo ignorati. Qui, a Roma, non è il popolo che si ribella, ma dei benestanti, annoiati, invidiosi, facoltosi cospiratori. Le persone, normalmente, anziché focalizzarsi sui propri limiti, guardano ai successi altrui come a delle ingiustizie perpretrate ai loro danni. Non conoscono le proprie possibilità, credono di essere come chi ha successo, e cominciano a chiedersi di che cibo si nutrono costoro per esser cresciuti tanto. Un filino d'erba vicino ad una quercia ha più dignità di simili individui: vive la propria statura senza traumi e non si sogna di invidiare l'altezza dell'albero che lo sovrasta. Alcuni hanno semplicemente ricevuto più talenti di altri. Non è la fine del mondo, è normalissimo. Non è possibile avere milioni di Mozart, Michelangelo, Einstein, Galileo, Leonardo ecc. Non nasciamo tutti uguali. Tutto qui. Ognuno ha i suoi bravi talenti da spendere. Leopardi era un genio nelle lettere, ma non eccelleva certo, per esempio, nella socializzazione. Mozart eccelleva nella musica, però non era in grado di badare ai suoi affari. Ma torniamo all'invidioso. Esso, quando l'invidia si palesa, comincia a parlar male del Cesare di turno, perché l'unico modo che ha per stare alla pari con chi sta in alto è di buttarlo giù dal "piedistallo": ma parlar male di qualcuno non è garanzia di dottorati immediati, non solleva chi sguazza nella propria pozzanghera: lì è e lì rimane. Ciò che rende "grandi" è il lavoro, l'uso del talento ricevuto alla nascita, la volontà, la forza, e soprattutto l'amore. E di quest'ultimo sentimento, un questa tragedia, non si sente nemmeno l'odore. Quello di Bruto per Cesare non è vero amore: chi ama, ama la vita e non produce morte. Quello di Cassio per Bruto non è vero amore: solo l'odio per Cesare li accomuna. Quello di Antonio per i romani non è vero amore: basta leggere quanto nel terzo atto egli dice a Lepido a proposito del testamento di Cesare pieno di lasciti per i romani: "Ma tu, Lepido, va a casa di Cesare, porta qui il testamento, e noi decideremo come sfrondare un po' i suoi legati" (pag. 135 op. cit.). In politica tale sentimento è bandito, sarebbe come un pesce fuor d'acqua. L'arma della politica è ben altro: la menzogna, il tradimento, la cospirazione, l'allusione, la seduzione: "Chi è tanto saldo che non si possa sedurre?" dice Cassio ad un Bruto che è già uscito di scena nel primo atto sul finire della scena seconda. Ma il politico è soprattutto cattivo con le masse che lui consapevolmente prende in giro con giri di parole, soprattutto quando esse lo ignorano preferendo un… Cesare. E' sempre Cassio a sproloquiare: "Che ammasso di immondizie, pattume e rifiuti è Roma, se serve da vile materia per illuminare una cosa indegna come Cesare! (pag. 45). Peggiore di Cassio è però Bruto, che dal momento in cui Cassio stesso lo ha aizzato contro Cesare vede nascere nell'animo una battaglia fra l'angelo buono e le passioni dell'animo, e pur essendo consapevole di questa lotta sceglie volontariamente il male. Tutte le parole sulla libertà e la tirannia, e quelle sul modo di ucciderlo (E, nobili amici, uccidiamolo con coraggio, non con ira) sono solo una infantile giustificazione della sua cattiva scelta. Ma il manuale di politica che è il Giulio Cesare ci svela altre cose. Il politico deve avere doti di attore, perché non essendo sincero deve saper fingere per meglio raggirare, soprattutto quando ha già deciso di pugnalare suo "padre" o il suo migliore amico: "Comportiamoci come fanno i nostri attori" dice Bruto ai cospiratori poco prima di incontrare l'agnello sacrificale. Ma ecco: Cesare è stato vigliaccamente assassinato. E' il momento di Marc'Antonio, il più politico di tutti, il più esperto, il più opportunista, tempista, il più dotato di arte oratoria. Come vedete saltano fuori"opportunismo" , "arte oratoria". Sono queste, "qualità" di cui il politico non può fare a meno. E qui è d'obbligo leggere il discorso di Antonio ai romani. Egli usando il cadavere di Cesare con le vesti insanguinate come una clava, dando corpo a tutto il cinismo di cui è pieno, scrive una canzone alla politica, ne detta l'apologia meglio di quanto abbia fatto Machiavelli, perché Antonio ha una più ferrata conoscenza della psicologia delle masse. Egli è il perfetto burattinaio delle folle, un tessitore formidabile di passioni scatenate, di furie, di venti inarrestabili. Il vero protagonista della tragedia non è un personaggio, ma questo discorso. Antonio a volte sembra dialogare, ma non è così: l'altro viene trasformato in coppa in cui versare quello che si vuole; la mente del popolo è fatta prigioniera dai sentimenti indotti dalle parole gelide del politico, il cui bagaglio si è arricchito di "qualità" come: psicologo, cinico, tessitore, ipnotizzatore. Come tessitore egli usa, allo stesso modo del ragno velenoso, una rete che non si vede ma che sta lì, nascosta e viscida, appiccicosa. Come ipnotizzatore impone la propria volontà risvegliando in chi ascolta solo l'odio e l'ira. Come psicologo tocca le giuste corde della massa usando il sangue di Cesare come la lucina rossa addormentante. Shakespeare è davvero un profondo conoscitore degli uomini, un genio. L'animo umano per lui non ha segreti, e le sue tragedie, le sue commedie sono lo specchio delle anime nostre. In esse vediamo i nostri vizi e le nostre virtù in perenne lotta, incarnate in personaggi immortali perché creati dalla conoscenza. Shakespeare è un uomo di conoscenza: conosce se stesso e quindi conosce il mondo. E' per questo che studiando la sua opera, approfondiamo la conoscenza di noi stessi. Ma a questo punto occorre fare una precisazione. Il politico di cui abbiamo parlato non va assolutamente riferito a persone reali. Esso è il politico ideale, quello machiavellico, quello teatrale. I politici reali non li conosciamo se non di nome. E poi, quando dovessimo parlare veramente di politica, ci rivolgeremmo alla filosofia dei Platone, degli Aristotele e dei mille filosofi che si sono occupati seriamente di essa, avendo come unico scopo il bene della comunità tutta. Ha poca rilevanza che Bruto sia un intellettuale stoico e Cassio uno epicureo. Di quella saggezza ancora apprezzabile è rimasta l'eco dell'eco. Tutto è sbiadito. Quando oggi pronunci la parola "politica", la gente si tura il naso, e se qualcuno di buona volontà volesse affacciarsi sul panorama filosofico attuale, rimarrebbe fortemenrte deluso: il nichilismo è la fede comune della filosofia cosiddetta moderna, ed i nostri giovani imparano l'importanza del niente, del nulla, e della morte di Dio fin quasi dalle elementari. Forse non passerà molto tempo ed eminenti nichilisti psichiatri bolleranno come malato mentale chiunque pronuncerà il nome Dio: Benedetto Egli Sia In Eterno. Scusate se approfittiamo degli ultimi giorni di tolleranza per benedirLO. Se qualcuno rimarrà ferito da tale benedizione, gli consigliamo la lettura di una diecina di pagine di filosofia all'avanguardia, e si rimetterà subito. Quanto al film, noi facciamo riferimento al Julius Caesar americano del 1953 diretto e sceneggiato da Joseph L. Mankiewicz ed interpretato ottimamente da una compagnia di grandissimi attori: Brando, Mason, Gielgud, Garson, Kerr, ecc. Molto fedele al testo, tale film non è solo ben interpretato, ma anche ben doppiato. Cassio, Bruto e Antonio sono superlativi. Solo chi ama veramente il teatro può rendere l'anima di Shakespeare. Grazie, Nat. |