“Questa e’ la vita” ovvero 4 novelle di L.Pirandello

   

Nel 1934 Pirandello conseguì il premio Nobel per la letteratura. Per commemorare l'evento, Corrado Alvaro scrisse un articolo (riportato quasi per intero nella prima edizione Oscar Mondadori di Novelle per un anno - La giara - 1969) che, fra l'altro, diceva: " Una delle vie per cui opera Pirandello è l'amletismo:tutti i suoi personaggi hanno in sé qualcosa di Amleto…Portano qualcosa di essenziale, e il sapore della morte, e il demone del pensiero in confronto con la debolezza della volontà"…
Ebbene, quel "sapore di morte", visto in senso lato, può essere anche interpretato come una totale rinuncia da parte di ogni personaggio alla propria identità. Colei che accomuna tutti in tale rinuncia è la signora Ponza, moglie del segretario Ponza: "…e per me, nessuna". Ma tale mancanza di identità è dovuta anche ad un altro prepotente fattore: il caso, il destino, qualcosa di esterno al personaggio. E allora diventa protagonista, ora la mala cottura (La Giara), ora la proiezione della collettività (La Patente), oppure un oggetto (Il Ventaglino), o ancora un vestito (Marsina stretta). Come se la volontà, più che debole, fosse assente. In fin dei conti, tutti i personaggi di Pirandello pare debbano ubbidire ad una sorta di rassegnazione, che deriva forse dal carattere di ogni siciliano, che, prigioniero di un mare avvolgente e asfissiante e di un caldo opprimente, ha come abdicato alla propria libertà, accettando l'isolamento a tutti i livelli (fisico, emotivo, mentale, spirituale).  Forse l'accostamento che Corrado Alvaro fa (Pirandello - Shakespeare), andrebbe approfondito, per scoprire magari che, a differenza del grandissimo e inarrivabile genio inglese, in Pirandello è completamente assente la poesia. Il cuore di ogni personaggio risulta come soffocato, e ad essere protagonista assoluta è la mente. Di qui quel senso di aridità che percorre tutta l'opera pirandelliana, che possiamo paragonare ad un mistico che continua a porsi domande e che mai accenni ad una qualsivoglia risposta. Sì, credo che, con una parola, possiamo definire Luigi Pirandello un uomo rassegnato.
Ma adesso occupiamoci del film "Questa è la vita" e cerchiamo di capirci qualcosa.
Cosa volesse comunicarci Pirandello con queste quattro novelle, non lo sapremo mai, perché di tutto quello che si dice o si fa, le sorgenti sono due, la coscienza e l'inconscio. Quindi, anche se l'autore avesse scritto da qualche parte l'originale interpretazione di esse, egli non avrebbe potuto che esporci mezza verità, quella coscienziale. E' qui che noi ci inseriamo, cercando di vedere il tutto dal punto di vista simbolico, e di scoprirne le sorgenti seconde. Così facendo conosceremo meglio lo scrittore e noi stessi. Riducendo il tutto ad un rebus, noi cerchiamo in esso un senso. Ma questo ci è possibile perché Pirandello, da quel genio che è, riesce a trasformare personaggi e situazioni in una sorta di archetipi. Don Lollò (con due elle nella novella e con una elle nell'atto unico) è una giara piena di litigiosità, prepotenza, pignoleria, arroganza, ira. Egli portando il tutto agli estremi limiti, diventa il simbolo, l'emblema della lite. Nel momento in cui noi ci imbattiamo in un archetipo dell'inconscio collettivo, il nostro personale inconscio viene attivato. Quindi, se Don Lollò va a stimolare la mia litigiosità possono accadere molte cose: divento litigioso; proietto su di lui la mia litigiosità; la proietto su altri; oppure la porto alla mia coscienza e mi dico "io sono Don Lollò", e così facendo mi arricchisco di autoconoscenza, scoprendo un burattino da poter manovrare, piuttosto che una tigre da cavalcare: divento potenzialmente "più forte". Ma se questo, per sommi capi, è quello che accade dal punto di vista psicologico, dal punto di vista della ricerca condotta secondo i nostri metodi, la novella diventa un iter, una strada o una tappa del "viaggio". Eccone un esempio.
La nostra ricerca ha dato buoni frutti, gli ulivi sono carichi ed il raccolto sarà eccezionale, ovverosia, nel corso dell'anno abbiamo prodotto tanta possibilità di saggezza (olio), ma avere gli alberi carichi non vuol dire però averlo di già: occorre raccogliere, trasportare, pigiare, mettere nelle giare. Avere cioè coltivato bene l'uliveto della propria anima non vuol dire di per sé avere già conseguito la Sapienza. A volte può accadere che una parte della nostra coscienza, la giara acquistata per ultima, si "rompa", vale a dire non è più in grado di contenere quel che doveva, e succede il finimondo, perché, pur avendone la possibilità, non provvediamo a ricomprarne una nuova e perdiamo tempo a riparere quella rotta. Fuor di metafora, anziché espandere la nostra coscienza per accogliere il nuovo, invece di ricominciare l'Opera daccapo, invece di buttare giù le vecchie mura per edificare le nuove, costruiamo sulle macerie senza rifare la fondamenta. Se nella novella Don Lollò affida il lavoro di riparazione ad un vecchio miope, poco intelligente e incauto, nel nostro intimo noi ci affidiamo al riparatore di vasi piuttosto che al vasaio, cioè non usiamo la nostra creatività e immaginazione, ma i nostri miopi istinti di conservazione che possono andare bene solo per il fisico e non per il mentale. Perché la giara si è rotta? Perché i simili si uniscono: Don Lollò ha la mente incrinata e fa acqua da tutte le parti; è un vaso rotto e non può che comprare una giara rotta in partenza. Ma c'è di più: l'energia impiegata per riparare la "giara" viene inghiottita dal recipiente, è persa, non serve a niente.
Adesso però occorre fare una considerazione. Al di là del fatto che ogni novella rappresenta un divertimento, al di là del fatto che tutti i personaggi sono riconducibili ad aspetti della psiche di Pirandello, al di là del fatto che ogni novella è un rebus, uno stato d'animo, un'iter, una morale, un documentario, una teatralità, un'opera letteraria, al di là del fatto che la si può vedere in mille modi, essa è soprattutto un Silenzio incarnato, un'opera d'arte che come una giara contiene frammenti di Verità e di Vita altrimenti inesprimibili. Ogni novella è uno spaccato di vita zen. Perché dico zen? Perché è così: Questa è la vita, un teatro fatto anche di Zi' Dima e Don Lollò, di farse e di pianti ed anche di giare rotte, ma soprattutto di "mondi" (termine zen che sta per "sfida fra due ricercatori") che si svolgono spesso fra burattini piuttosto che fra burattinai. Il "mondo" fra Don Lollò e Zi' Dima è vinto da quest'ultimo che, almeno, sa prendere la cosa con filosofia e con allegria. Per fortuna, spesso il nostro conciabrocche interiore i contenitori rotti li ripara pure e vengono come nuovi per via del suo mastice miracoloso che si chiama allegria. Questa è la vita: un'infinita Luce che sul palcoscenico del Nulla inventa forme e danze a non finire; un' Eterna Sinfonia fatta anche di "apparenti" stonature. Questa è la vita!

 

 

Il Ventaglino

Se nella Giara la litigiosità e la pignoleria sfiorano il paradosso, qui la disperazione rasenta l'assurdo, ma la vita è fatta anche di cose così. La madre protagonista di questo secondo episodio dà l'impressione di una piuma al vento, di una foglia morta trascinata ora qua ora là, di un albero che non ha radici.Probabilmente Pirandello scrisse questa novella sotto la spinta di uno stato d'animo farfallesco, come se la sua creatività si guardasse allo specchio e si osservasse durante una inconsistente fase immaginativa. Ma entriamo nei simboli. Se la giara è simbolo della raccolta, della conservazione, del futuro, il ventaglino è simbolo della dispersione (muove e allontana l'aria), di vuoto presente (non contiene alcunché). Se la giara è simbolo dell'utilità, il ventaglino lo è dell'inutilità, perché usato non per mitigare il caldo, ma per possedere l'oggetto e civettarvi. Anche questa è la vita: un'anima "fuori casa", che in un mondo illusorio più di quello fisico, non è in grado di alimentare il figlio (lo Spirito). E' l'anima di un ricercatore immaturo, che la caccia via da sé per nutrire altri prima ancora di imparare a nutrirla. Il ventaglino comprato con gli unici due soldi da parte di un'anima in pena è meno di un vestito, che almeno copre e può caratterizzare. E' solo un falso conseguimento, la vittoria di un desiderio indotto. Il venditore di ventagli, in piccolo, è il serpente tentatore che riesce per l'ennesima volta a vincere. Il desiderio è un tarlo voracissimo che riesce a distogliere dal presente e dalla Vita; è un affare mentale che ingrassa sua madre (l'egoità); un'erbaccia infestante. Chi desidera può avere due identità: quella di Don Lollò, che appena avuta il bene (la giara) ne diventa schiavo; quella della madre di questa novella, che appena contagiata dal desiderio è disposta a svuotarsi di tutte le proprie energie pur di avere l'effetto desiderato. Il desiderio è schiavitù, è la palla al piede del ricercatore. I desideri sono sirene, trappole tese alla coscienza che nuotano libere nel mare dell'inconscio. Possono essere ascoltate o no; ognuno è libero di scegliere. Questa è la vita: ognuno è libero di tracciare il proprio destino, il proprio sentiero. Beato l'uomo che giunge all'ultimo desiderio, quello di non più desiderare. Il desiderio è una grande prostituta, un presente che regala se stesso ad un futuro che non è mai esistito.

 


La patente

Rosario Chiarchiaro, a detta dei suoi compaesani, è uno jettatore. Siamo in pieno mondo della superstizione. Lo jettatore sarebbe un portatore di male: ovunque egli vada, lì succede qualcosa di brutto a cose o persone. Più o meno lo si definisce così. Ma chiediamoci: esiste davvero una simile persona? Diciamo subito che ogni uomo, ognuno di noi, è un composto di bene e di male. Se una persona è amorevole, essa è ben vista; se è odiosa, è malvista. Quando si ama, lo sguardo, il pensiero, la parola, il gesto, ecc. sono armonici, unificanti, antiossidanti, aggreganti, produttivi, sananti, vitali. Quando si odia, è tutto l'opposto: disarmonici, ossidanti, disgreganti, improduttivi, avvelenanti, disunenti, mortali. Quello che pensiamo è che la carica emotiva negativa, se riesce a impadronirsi totalmente della mente e della volontà può trasformare una persona in una rice-trasmittente pericolosa, capace di attirare negatività da ogni dove, e di trasmetterle ad ogni dove. L'atmosfera psichichica di un tale individuo è nociva all'ambiente perché è fortemente disarmonica. I cani, un'atmosfera simile la avvertono istantaneamente: riconoscono il malintenzionato, il violento, il pauroso, l'odioso, ecc. Ma d'altro canto individuano subito la persona amorevole, il coraggioso, il benintenzionato, ecc. La parola, con i suoi accenti, le sue vibrazioni, i suoi contenuti, la sua tonalità, la sua carica, ecc. dà l'esatta identità di chi parla. Ora, quando una persona poco amorevole aggiunge alla sua negatività una fervidissima immaginazione e una forte volontà, a parer nostro, può davvero causare qualche guaio. Tutto questo però in teoria, perché nella pratica non abbiamo mai incontrato una simile persona. E qui casca l'asino.
Luigi Pirandello in molte delle sue opere ribadisce il concetto che ognuno di noi è come l'altro vuole che sia. Pertanto, se Tizio è convinto che Caio è uno jettatore, è fatta: Caio sarà come tizio lo vuole e diventerà portatore di un "potere" che questi gli ha conferito. Ecco quindi come il povero Rosario Chiarchiaro ha acquisito i suoi "poteri". Daltro canto è risaputo che il Maestro Gesù nel suo paese natale non riuscì a far miracoli, perché nessuno credeva in lui. C'è un proverbio siculo che dice: "fatti a nomina, e va' cucchiti", cioè fatti una fama (cattiva o buona che sia) e vai a dormire sonni tranquilli, perché quello sarà il tuo marchio. Più sono coloro che credono nei nefasti poteri di Chiarchiaro, e più la di lui "potenza" aumenta. Ovviamente, dal punto di vista del buon senso, ci troviamo di fronte al solito ritornello del capro espiatorio su cui scaricare tutte le nostre colpe. Nel paese di Chiarchiaro ognuno è artefice dei propri guai (e ciò vale per tutti i paesi del mondo) ed anziché ricercare in sé la causa di essi e quindi correggersi, scarica ogni colpa sul povero Rosario, che paradossalmente, facendo buon viso a cattiva sorte, accetta il "potere" conferitogli dalla comunità, ed accettandolo diventa quasi uno jettatore "mitico", capace di poter gestire gli strani "talenti" che i suoi conterranei gli hanno affidato. Riportando il tutto al campo della ricerca interiore, possiamo dire che spesso molti ricercatori o pseudo-tali attribuiscono ad altro la causa della loro mancata crescita: quello mi disturba, il lavoro è un impedimento, la salute mi frena, i parenti e gli amici mi tirano da un'altra parte, non ho tempo, ecc. Essi agiscono proprio come uno dei tanti personaggi pirandelliani: fanno finta di non avere né volontà né cuore. La ricerca è come un amore: non basta dichiararsi innamorati, bisogna pure esserlo, dimostrarlo. Non basta dire sono ricercatore, bisogna darne "segno", "frutto". I frutti sono i figli degli sforzi di miglioramento  che, se manifestati, potranno essere gustati da altri. Ma la vita è fatta anche di questo, di ignoranza dei propri difetti, di paura di essi, e di conseguenti proiezioni. Sul povero Rosario Chiarchiaro hanno proiettato in tanti, ma tali investimenti massicci, anziché annientarlo lo hanno potenziato, perché tutta quella enorme energia l'ha usata per conseguire (!) la patente di jettatore, e con quella risolvere tutti i suoi problemi familiari e non, attraverso un "non agire" che poco ha a che vedere col suo omonimo taoista. Questa è la vita, e a volte fa quasi "piacere" vedere la gran massa di ignoranti farsi spennare come polli da maghi e maghelle di ogni genere. Dico "quasi" perché le truffe possono avvenire anche nelle migliori famiglie. Auguro a tutti di conservare a lungo e per sempre la propria volontà.

 


Marsina stretta

Quest'ultimo episodio è un capolavoro in tutti i sensi, e sicuramente ci ha dato più di tutti gli altri, perché al genio di Pirandello va sommato quello di un Fabrizi supelativo sia come attore, sia come sceneggiatore e regista. Alcune scene (vedi quella del professore che ha appena raccattato la bombetta, non può alzarsi, e incontrando lo sguardo di un poliziotto dà vita ad un dialogo mimico eccezionale; oppure quella col cocchiere, o l'altra col portinaio dell'edificio ove abita la sua allieva) sono proprio zen, nel senso che rubano pe un istante la mente (come avviene coi Koan) e lasciano in una felice sospensione. Fabrizi ha una carica umana eccezionale ed una bravura da cui molto avrebbero da imparare i giovani attori, forse perché l'epoca in cui egli visse sottopose a "benefica" cottura il suo vile metallo. Queste poche righe iniziali vogliono essere un ringraziamento e un omaggio ad un uomo, ad un attore che forse non è stato apprezzato nel giusto modo.
Con questa quarta novella ci viene affidato il quarto ed ultimo simbolo, la marsina stretta, con cui poter completare un suggerimento di percorso di crescita, che "giocandoci" un po', si può estrarre dalla loro unione e sequenza: La Giara, Il Ventaglino, La Patente, Marsina stretta. Quest'ultimo simbolo, se ci fate caso, è l'unico ad essere indeterminato: manca di articolo determinativo, e per questo è quasi mitico. E' l'unico, tra i quattro, che fa tutt'uno (si fa per dire) con l'uomo. La Giara mantiene le distanze dalla persona; Il Ventaglino sta a contatto con una mano; La Patente si limita a rimanere in tasca; La Marsina stretta copre quasi tutto il corpo della persona, e siccome è stretta, impone quasi la sua presenza. E' proprio quello che accade al nostro professore. Appena la indossa diventa un altr'uomo. E' proprio così che confessa ad uno dei testimoni di nozze alla fine della commediola. Il tormentone che essa gli dava era quesi insopportabile, e la rabbia che ne nasceva costituiva una sorta di riserva di energia, capace alla fine di fare imporre la volontà sua a quella di chi voleva rovinare la vita della sua pupilla ed ex alunna, allontanando lo sposo da essa nel momento in cui, proprio il giorno delle nozze le era morta la madre. Ma cosa potrebbe voler dire tutta questa storia, se osservata  con l'occhio di chi cerca in essa un percorso di crescita spirituale?  La chiesa è pronta, il prete l'ha addobbata per la funzione; la sposa ha già indossato l'abito; testimoni e parenti, pronti pure loro. Improvvisamente muore la madre della sposa, ed i parenti dello sposo, approfittando dell'occasione, lo allontanano sperando così di mandare a monte il matrimonio. Il professore, grazie alla marsina stretta avuta in prestito dal colonnello suo vicino di casa, riesce ad imporre il matrimonio dei due giovani.
Fuor di metafora, il tempio, il corpo, è ormai pronto per l'unione di Anima e Spirito in lui (le sacre nozze stanno per avere luogo). L'ego, i parenti dello sposo, le energie egoiche che si sono ribellate contro il Padre, si oppongono perché dalle ceneri di una fenice, di un "volatile" inafferrabile (dalle ceneri della ragazza di prima) è risorto un "fisso" (Angela di adesso: il nome è significativo), che non corrisponde più alla terra senz'anima che sarebbe loro simile, ma ad una pietra animata. A questo punto, la Saggezza (il professore) prende il sopravvento, e, grazie alla divisa stretta del colonnello, cioè dopo avere indossato le qualità del combattente (colonnello), del Marte positivo, con una rabbia trasmutata in forza vince le volontà egoiche.
Quanto ai quattro simboli, essi potrebbero invitare all'alchimista: 1) a preparare il vaso alchemico nel migliore dei modi; 2) alla completa interiorizzazione, la sola capace di sconfiggere la forza dei desideri, ed all'uso appropriato del mantice sul fuoco alchemico; 3) a non essere niente per nessuno e per se stessi, in modo da poter essere qualificati dallo Spirito, e a non curarsi del giudizio della gente; 4) a indossare l'armatura stretta e pesante di Marte (vittorioso sempre)  per imporre l'unione dello "sposo" e della "sposa". Ancora più sinteticamente: Fatti vaso; cura il soffio vitale (il chi); abilitati alla guida di te stesso; indossa l'armatura per lo scontro finale e decisivo.
Come vedete, divertirsi a ricercare cose così in alcune novelle di Pirandello fa parte del gioco di questa esistenza. Questa è la vita: una giara di saggezza; un ventaglino di inutilità; una patente per poter guidare l'assurdo; una marsina stretta che impone l'Amore. Walter Chiari non è stato all'altezza degli altri grandi interpreti? Era ancora giovane, e poi è com'é. Questa è la vita! Un gran divertimento, un fantastico gioco delle parti, un palcoscenico su cui possono accadere le cose più strane ed insensate.
Pirandello, con le sue novelle, le sue commedie e tragedie ce lo ricorda continuamente. Egli ci ha introdotto con esse nel secolo della psicanalisi, in un periodo in cui la psiche, l'anima, diventa oggetto e nello stesso tempo soggetto di studio. "E' finita l'era del romanticismo" pare che gridino tutti i suoi lavori. Ma il cuore non può essere eliminato. Forse Luigi Pirandello ci ha solo provocati nascondendone i battiti, perché alla fin fine, regista assoluto di tutti quei burattini senza centro, di tutta quella schiera di personaggi rassegnati, è solo lui. La sua opera è un improprio trattato di psicanalisi: con essa ci invita tutti ad osservare i personaggi della nostra mente, i nostri burattini, ed a manovrarli, anziché a farci manovrare. Il cuore? Secondo noi, per un siciliano come lui, il cuore è un fatto scontato, ed amare vuol dire, alla fin fine, vivere l'amore in silenzio. Sarà un po' limitante, sarà forse sbagliato, ma per Pirandello potrebbe essere stato così, e noi ne possiamo solo prendere atto e ringraziare, perché

 

QUESTA E' LA VITA. Grazie, Luigi,  dal tuo amico e conterraneo Nat.

 

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