UNA SERIE DI RACCONTI DI NATALE MISSALE

 

1 Kkienn - Il Creativo

“Dove va il mondo, nonno?”.
La voce del nipotino aveva quasi svegliato il vecchio, che, dagli occhi aperti, grandi come due finestre, qualche mezz’oretta prima era uscito per andare a vivere un pò d’esistenza in uno di quei mondi immaginari ove spesso si re­cava, ed in cui si sentiva altrettanto vivo che in questo.
“Vedi figliulo - rispose con voce dolce e tagliente al tempo stesso - il mondo cui tu ti riferisci è un vecchio cavallo ormai stanco. Da milioni di anni sta lì legato al palo; da sempre è pronto per esse­re cavalcato, ma nessuno, tranne pochissimi saggi, lo ha mai montato.
La maggior parte degli uomini si accontenta di vermi: sì, ogni uomo sceglie di cavalcare il proprio corpo con la propria mente, ma que­sta è un cavaliere-spugna che assorbe tutto ciò che entra nel suo raggio d’azione. E’ come un campo magnetico che, su una lastra scon­finata di ferro, agisce solo entro una superficie limitata. Tutto è dovuto ad una forza centripeta (l’ego) che non consente a quella porzione di ferro, di rendersi conto della vastità di cui fa parte.
Per tornare all’esempio del cavallo, diciamo che il cavaliere (la mente) a poco a poco schiaccia il corpo fino a renderlo un verme; ed i vermi, tu sai benissimo, sono esseri piani o quasi, che non riescono a vedere le cose “alte”. A questo punto, il vecchio Kkienn (questo era il suo nome) si curvò, raccolse un piccolo ramoscello e con esso disegnò a terra sei piccole linee parallele. Poi tornò ad appoggiare la schiena sul sedile del parco e, sorridendo, disse al piccolo kkienn (tale era il nome del nipote): “Sai, l’uomo è l’es­sere più fortunato dell’intero universo, perché, che sia illuminato o no, sa di essere un uomo, ma soprattutto è in grado - unico fra gli animali - di costruirsi il senso dell’“io”, dell’ego.
Per tornare all’esempio di poco fa, è come se una mano sconosciuta, con un gessetto, avesse disegnato un cerchio su quella superficie di ferro infinitamente va­sta (e capirai certamente che sto parlando del corpo). Qui devi stare attento: quella mano misteriosa non ha tagliato un disco di ferro, lo ha solo “disegnato”...  Ebbene, è a quella falsa porzione di superfi­cie che nasce l’idea di “io”, ed a questo punto il gioco comincia: si è illuminato un…. pezzo di ferro. In effetti, ragazzo mio, ogni uomo, per il solo fatto di essere nato, è un animale illuminato, un pezzo di ferro magnetizzato. Dal momento della sua nascita comincerà a muo­versi dentro quel suo piccolo recinto illusorio. Per rendere l’idea di quello che voglio dire, fai finta di essere sopra un grandissimo tappeto elastico sulla cui superficie vi sono sferette d’energia. Adesso immagina una superficie parallela al tappeto che si estende so­pra la tua testa e da cui pendono infiniti oggetti. Ora, siccome ti piace recitare più “io voglio” che “io sono”, comincerai a raccogliere oggetti dal mondo che ti sta sulla testa, allora ti appesantirai ed il tuo peso farà abbassare il tappeto sotto i piedi, e nella coppa che si creerà si precipiteranno tutte le sfere vicine. Se su di un simile tappeto poni alla rinfusa un po’ di uomini dello stesso stampo, ti renderai conto di come si apra una vera e propria caccia alle sfe­re, anche se indirettamente: l’ego è direttamente proporzionale a “io ho”. Nella società in cui viviamo avviene proprio così. Ma non sto criticando tale tipo di comportamento, perché ripeto esso farà sviluppare sempre più l’ego, il senso di separatività, e ciò, lo affermo, è importantissimo.”
“Sì, va bene, nonno; ho capito tut­to, ma io t’avevo chiesto dove andasse il mondo, e non questo”.
“Lo so, lo so mio caro, ma visto e considerato che non hai capito che già ti ho risposto, sarò ancora più esplicito. Quando dici “io  avevo chiesto”, non ti rendi conto di essere un falso disco di ferro? Torniamo al nostro paragone, così ci capiremo meglio. E’ come se un disco chiedesse ad un altro disco dove vanno tutti gli altri dischi, cioè il resto della sconfinata lamiera. Ma tu sei il mondo, ragazzo mio, non sei una parte di esso. Fin quando crederai di esserne parte, sarai diviso, ma nell’istante in cui ti accorgerai anche per un solo secondo, di essere quell’immensa distesa di metallo, avrai cancellato un po’ di circonferenza, e da quel momento, avendo già dato un’occhiata oltre l’apparente limite, avrai un solo scopo nella tua vita, quello di cancellare tutta la circonferenza; da quel momento saprai di essere, e chi “è” non va da nessuna parte: sta lì a giocare il gioco più bello del mondo, quello del mutamento, della partecipazione al cambiamento. Ecco quindi la risposta finale che ti do: il mondo è. Esso non va da nessuna parte, ma… muta, gioca con se stesso. E qui veniamo al disegnino che poco fa ho fatto a terra. Quelle sei linee sono i sei posti del mondo. Il gioco divino (da sempre in atto) fa sì che il mondo cambi or questo or quel posto, e facendolo crea, nella zona degli stampi, tutto ciò che poi giù in basso sarà visibile come movimento delle sfere sul tappeto. Diciamo che al gioco dell’alto (le linee sono fonti di pensieri, simboli parlanti) corrisponde il cambiamento di co­lori nel medio, e che a questo corrisponde poi nel basso un cambiamento verificabile coi sensi. Adesso ti affido a queste sei piccole linee: esse sono il mondo, quindi l’antico cavallo. Cavalcale subito, mio caro ragazzo, perché con esse giungerai fino al più lontano limite del tuo essere, e così saprai quanto sei grande. Vola su di esse, vola, perché sono il cielo, il padre del fuoco: esse sono tuo padre, perché tu ora sei il fuoco, lo spirito ardente. Ti hanno già creato una volta creando se stesse. Adesso lascia che ti ricreino, che ti facciano ricordare chi sei. Ma sappi: ad ogni battito d’ali, il cavallo tenterà di disarcionar­ti. Se ti aggrapperai alla sua criniera, ciò non potrà mai avvenire, no­nostante la vigorosità del moto del cielo, perché tu, il nobile, ti sarai reso forte e vigoroso. In effetti il cavallo che monti è un drago di cui tu sei il fuoco interiore. Rimani in groppa fermo; non agire all’inizio, ma dopo, quando saprai di essere molto più grande di quello che sei, quando vedrai il granduomo faccia a faccia, quando vedrai la tua reale dimensione ed avrai la sensazione di spuntare da un campo, come un fiore, non vorrai più smettere di cavalcare, lo farai tutto il giorno. La sera forse sarai un pò stanco, ma tu non ti abbandonare, rimanigli in groppa persino nel sonno, perché nel chiudere l’occhio che ha visto, vi è pericolo. Allora, col passare dei giorni, aumenterà in te la voglia di essere scagliato, di scagliarti come una freccia verso i tuoi più lontani e inimmaginabili limiti; vorrai perderti nel tuo mondo infinito. Da allora in avanti tutto sarà puro, senza una macchia: tutto sa­rà bello così com’è. Ed ecco: tu sarai il cielo nel cielo; tu sarai me”.
E nel momento in cui il vecchio Kkienn tacque, il suo mio corpo si trasformò in cavallo d’oro alato, sulla cui groppa vi era un cavallo d’oro alato più piccolo (sotto Kkienn il cielo; sopra Kkienn il cielo): anche il pic­colo kkienn si era mutato in cavallo. Entrambi volarono alti nel cielo, ma nessuno dei due girò il collo per guardare orgogliosamente le proprie ali, perché nell’attimo in cui era avvenuto il mutamento, una voce misteriosa ed imperiosa aveva detto: “il drago altezzoso avrà da pentirsi”. Entrambi sapevano di essere e non essere.

Firmato: Il Creativo.

 

 

 

4 - Mong - La Stoltezza giovanile

“Miei cari discepoli — esordì il Maestro — per vostra libera scelta vi trovate oggi qui, per cominciare un corso di studi un po’ particolare.
In questa scuola non vi sono docenti. La mia umilissima carcassa, la persona fisica che vi sta davanti, si limiterà, per tutta la durata del corso, ad essere un punto di riferimento per eventuali imprevisti.
Non vi sono materie, né libri, né esami; né tantomeno professori.
In un certo senso, i docenti siete voi. Si, proprio voi. Vi accorgerete presto, infatti, come sempre per vostra scelta abbiate deciso di sapere; o meglio, di autosapere.
Qui vi si dà la possibilità di scoprire le leve che muovono le piccole cose intorno a voi. Ma ovviamente, e per analogia, come per uno così per un milione; per cui potrete capire anche le cause delle grandi cose.
L’era elettronica, trova in questa stanza la sua più genia­le manifestazione: la lavamens.
Tutte, diciamo così, le lezioni si svolgeranno alla lavamens.
Di cosa si tratta è intuibile: è una lavagna che, con un termine da mille e una notte, potremmo definire, magica.
Ad ognuno di voi verrà dato in dotazione un pezzetto di gesso, un panno spugna, un diario, una penna, ed una chiave.
La chiave apre quella porta a vetri lì in fondo alla stanza che dà sul giardino.
La genialità della lavamens consiste in questo: col gesso vi si scrive sopra una frase qualunque, e colui che la scrive diventa protagonista dei contenuti di essa. Mettiamo che qualcuno scriva “io sorrido”: basta attendere tre decimi di secondo, et voilà: chi l’ha scritto sorride.
Un mormorio generale si levò. Il maestro con molta calma e indulgenza aspettò che scemasse, e poi con la stessa pacata voce di prima continuò: “in un certo senso è come un gioco. Avete due trimestri a disposizione. Per fare cosa? Per giò-studiare, o se volete, per stu-giocare. Lavorando di gesso e di panno, potete scrivere e cancellare quello che volete, e senza obbligo alcuno, potete appuntare ogni vostro effetto-scrittura sul diario, che potrete comunque usare per promemoria.
In che cosa consista lo studio, dovrete scoprirlo da voi. E adesso; buona lezione”.
Chiuse la porta dietro le sue spal­le, e andò via.
Vi lascio immaginare quel che successe in quell’aula. Come ad un segnale convenuto i quattro discepoli, gesso alla ma­no, conquistarono quasi nello stesso istante, ciascuna la sua porzione di lavamens, e….. non ci crederete; scrissero la stessa frase. Mo scrisse: “Mo è ricco”; Mon scrisse: “Mon è ricco”; Mong scrisse: “Mong è ricco”; Gnom scrisse: “Gnom è ricco”.
Ebbene, finito di scrivere, tutt’e quattro si ritrovarono, ciascuno con una valigia piena di soldi nella mano sinistra: ne avevano verificato il contenuto in un attimo: il maestro non aveva mentito.
Mo, Mon e Gnom stavano contando con avidità quei bigliettoni di banca, quando Mong, non visto, si era portato alla lavamens e stava già scrivendo “Mong è più ricco di tutti”. Non ci vuole molto per capire in quanti minuti l’aula si riempì di cartamoneta e di lingotti d’oro; tanto che si dovette giocar di panno per fare un po’ di spazio e passare ad altro.
Quello fu il primo giorno di lezioni, mentre il maestro, da dietro la vetrata, dal giardino guardava divertito.
Per non affaticarvi troppo col racconto, farò un breve resoconto di quello che seguì alla ricchezza: bellissime donne; cavalli puro sangue; libri rari; pasti da re; vestiti incredi­bili; motori supersonici; insomma, per quella stanza passò l’in­tera storia dell’umanità; e questo in appena sette giorni.
L’ottavo giorno, il maestro entrò nell’aula, ma anziché 4, vi trovò 3 alunni, che ovviamente erano alla lavamens, a scri­vere.
Li chiamò e disse: “Tu, Mo; come vanno i tuoi studi?”
“Il mio Maestro vorrà scusarmi — rispose Mo — ma sono alle prese con la lingua inglese: stavo giusto scrivendo “Mo parla l’in­glese, ed in quel momento, Voi...”
“Va bene, bravo — gli fece il maestro — E voi ?
rivolgendosi a Mon e Mong.
“Come vede, maestro — risposero in coro i due — noi copiamo sul­la lavamens le frasi che via via ci appuntiamo sul diario; e forse ci vorrà una vita per scriverle tutte. E...”.
“Bene, continuate”— disse loro sorridendo. E andò in giardino. Gnom era lì, sotto un albero di quercia, e col pollice e l’indice riduceva il gessetto in polvere. Aveva l’aspetto sereno e dolce.
Appena vide il maestro, gli sorrise piangendo, e, alzandosi, gli si inchinò con molto rispetto. Il suo sguardo pareva pro­venire da una distanza infinita.
Prese tutto quello che si era portato appresso, e lo porse al Maestro: era il suo diario aperto all’ultima pagina: v’era scritto “GNOM SI E’ ILLUMINATO”.
Il Maestro sorrise e, a sua volta, offrì un inchino molto rispettoso a Gnom. Dopo allungò un ultimo sguardo alla scolaresca: “stoltezza giovanile! — disse — ma passerà”; e trasse un lungo respiro.

 

                                                                                                                                 Grazie

 

 

 

 

5 -  L’Attesa

La terra dei padri è un’immensa distesa di verde.
Le tuniche azzurre dei dodici vecchi-perenni, seduti solenni sul prato, insieme coi loro capelli di luna, facevano danze col ven­to. La vita accadeva in profondo silenzio: sembrava un’attesa infinita. La rosa di luce, lì al centro del piano cantava l’e­terno presente. I vecchi gridavano amore dagli occhi. Berescit era giunto in quel luogo aspettando, ma la sua era sta­ta un’attesa di pochi minuti, perché nell’eterno presente l’atte­sa è un evento ch’è stato da sempre in un luogo: il tempo di sottrarsi a sé stesso, ed eccolo là nella terra dei padri. Com’era bello vedere la grazia! : dal cielo, dall’erba, dai vol­ti, dai petali accesi; da tutto, emanava.
“Com’è che sei qui, figlio mio — echeggiò la voce felpata di un padre — cos’è che ti porta fin qui?”
“E’ stata l’attesa, mio nobile vecchio, è stata la voglia che avevo di essere qua e di viverla insieme con voi che sapete e che siete per sempre”.
“L’attesa è un mondo racchiuso nell’uovo: sta lì tutto quanto finché col calore si “svolge”.
La rosa è una mano robusta che picchia alla porta del cuore con tutti i sapori che ha. Guardala bene, figlio mio, annullati un attimo in essa, e poi dim­mi: dov’è l’attesa dei petali?
Non essere mai stanchi di essere e dirlo a chiunque. Quando la rosa si china al vento che passa, affida il messaggio anche al vento. Il tuo è un cuore mai stanco di Dio che cerca sculture di poche parole da dare.
Se stai con la rosa, l’attesa scompare, perché nel profumo che por­ti ti perdi per sempre. Allora riposa la lingua e vince il silen­zio: più nulla da dire e da dare: ognuno ce l’ha.”.
Berescit guardò il fiore di luce e con tutta la forza che aveva gridò: “l’attesa”!...
La parola esplose nell’aria come un pronunciamento impersonale, come se si fosse detta da se’.
Quell’esplosione di verbo disintegrò tutto ciò che essa conteneva: la parola si liberò del suo contenuto, e divenne canto.
Di eco in eco essa accelerava le sue vibrazioni dando vita ad ar­monie cosmiche.
Un profumo di rosa riempì l’aria, mentre i vecchi padri, uno dopo l’altro, scomparivano come l’ultima fiamma di una candela: rimase solo la rosa, e dopo, solo la sua luce.
Alla fine, solo il profumo.
Ho la netta sensazione che l’attesa mi abbia nascosto qualco­sa, perché suol vedersi in essa un non so che di statico, mentre qui qualcosa si è mosso e m’è sfuggito.
E se fosse davvero arrivato qualcosa? Starò più attento la prossima volta, però se qualcuno l’ha visto... Credo proprio che ognuno di noi è un albero, e che i frutti abbia­no un sapore sconosciuto all’albero stesso.          Ma..., stiamo davvero aspettando qualcosa?

 

Grazie.

 

 

 

6 - La Lite

Sung era un piccolo villaggio circondato da un bosco. Berescit, di tanto in tanto, vi si recava per andare a trovare il vecchio Zuma’.
Quel mattino di primavera aveva deciso di rincontrarlo perche’ era alle prese con un importante problema: era sicuro, il suo anziano amico lo avrebbe aiutato a risolverlo.
Zuma’, ancor giovane, era entrato in convento, e vi aveva trascorso trenta anni della sua vita recitando i sutra del Budda senza averne tratto alcun beneficio. Si’, era molto cresciuto in spiritualita’, ma in tanto tempo non gli era riuscito di illuminarsi.
Un giorno, mentre si trovava a mensa con tutti gli altri monaci, al suono di un campanellino ebbe la netta sensazione, anzi la certezza assoluta, di “essere... un cappotto”, un immenso cappotto (l’universo intero) che abbracciava il suo corpo-mente-cuore da tutte le parti; come se l’intera esistenza poggiasse sulla sua pelle. A quel punto si alzo’, batte’ forte le mani, fece un riverente inchino ad una statua del Budda; ne fece un altro al suo maestro e poi, dicendo: “Ho trovato un cappotto”, si avvio’ verso l’uscio.
Nessuno aveva capito che si era illuminato, ad eccezione del suo maestro, che inchinandoglisi replico’: “Hai trovato il cappotto, l’unico cappotto che c’era. Eppure, sei nudo come un verme. Adesso sei l’uomo piu’ comune che c’e’: sei un Budda!”
A queste parole, tutti i monaci, pur non avendo compreso, fecero un inchino corale a Zuma’ che intanto aveva varcato la porta.
Tempo dopo, quando Berescit giunse a Sung, trovo’ il maestro seduto su una panca. Zuma’ con la mano gli fece cenno di sedersi accanto a lui: “Il tuo e’ un problema molto serio - gli disse come se avesse saputo da sempre la questione - molto, ma molto serio”.
Berescit ormai non provava piu’ alcuna maraviglia: il vecchio sapeva sempre i motivi delle sue venute.
“La lite - riprese Zuma’ - e’ una delle tante strade che conduce al vero. Unica condizione e’ che con essa si varchi ogni limite. Ti racconto questa, cosi’ mi capirai.
C’era una volta un giovane chiamato Nun: non c’era al mondo persona piu’ litigiosa: all’asilo litigo’ con tutti i compagni di scuola, con la maestra, col bidello, e persino con il cane del custode. Si racconta che un giorno riusci’ a litigare anche con un banco. Quando fece la prima comunione, ovviamente litigo’ col vescovo; col padrino ebbe qualcosa da dire durante il rinfresco. La prima volta che ando’ al cinema “disputo’” prima con la maschera, poi con sette spettatori, ed infine con uno dei protagonisti del film. Alle superiori litigo’ con tutti, e pare che verso il terzo anno di frequenza si tenne un consiglio di classe straordinario, nel disperato tentativo di anticipargli il rilascio del diploma di un paio díanni. Quando sposo’ la sua prima moglie, durante la cerimonia, prima litigo’ col prete durante il sermone, e subito dopo col suocero. Con due testimoni si sfioro’ la  rissa. La sera, prima di partire per la luna di miele, litigo’ con la moglie e le chiese il divorzio. Con la seconda moglie litigo’... durante il fidanzamento, perche’ da sposato non ebbe tempo, per via del fulmineo divorzio bis. Insomma, non tramontava sole senza che lui non avesse litigato con qualcuno. Solo una volta gli stava succedendo il contrario. Si trovava sulla cima di una montagna, ed era solo perche’, a causa di un litigio di massa, il giorno prima, l’intera cordata (all’infuori di lui) era finita in un crepaccio. Era solissimo. Guardo’ in tutte le direzioni: nessuno, nessuno con cui litigare. Si sentiva un uomo davvero inutile. Ma dopo un po’, un colpo di fortuna: un serpentello velenoso se ne stava su una roccia, ed immobile porgeva il dorso agli ultimi raggi di sole. Appena lo vide gliene disse tante che la lite fu inevitabile. In pratica gli grido’ sette od otto cose che non andavano. Ovviamente, alla fine, il serpente, convinto che a nulla sarebbe servito il suo potente veleno, scappo giu’ a valle. Un giorno – continuo’ Zuma’ sottolineando la cosa con un sorriso - Nun incontro’ me, e come al solito lancio’ la litigata, ma fin dal suo primo “attacco” gli risi in faccia; e piu’ ridevo e piu’ s’innervosiva; e piu’ s’innervosiva e piu’ ridevo. Alla fine, non potendone piu’, mi disse: “Ma mi spieghi cosa hai da ridere tanto?”. Ed io gli risposi: “Rido perche’ sei convinto di avere litigato per tutta una vita, ed io so di certo che tu non hai mai litigato, perche’ il vero, l’unico autentico litigio e’ quello che uno ha con se stesso una volta e per sempre”.
Nun non aveva mai pensato a quella remotissima possibilita’: litigare con se stesso: come mai non ci aveva pensato prima? La cosa lo esaltava, lo stuzzicava, ma: come fare? Passo’ giorni interi a cercare un pretesto: niente.
Dopo un anno di sforzi sovrumani, finalmente un giorno gli accadde. Era davanti allo specchio e si osservava nell’intento di trovare il giusto spiraglio. Si fisso’ talmente intensamente da quasi trasferire la sua coscienza nell’immagine dello specchio: a quel punto scaglio’ su di essa cio’ che aveva in mano, ma appena lo fece, istintivamente, si abbasso’ per schivare il colpo. Fu un istante, un solo istante, ma gli basto’: si rese conto di essere due: per la prima volta in vita sua si era manifestata a lui la sua Coscienza; il suo Dio interiore l’aveva osservato per la prima volta. Ma la cosa piu’ sbalorditiva fu (cosa mai azzardata prima) che tento’ di evitare la lite, ma non vi riusci’, perche’ lui, come Coscienza voleva evitare se stesso, un se stesso che occupava lo stesso identico corpo. Vi era una sola cosa da fare: essere Uno; ed i modi per farlo erano due: o farsi assorbire dalla Coscienza (cioe’ fare il mistico e pregare Essa di farlo); oppure “conquistarsi” lui la sua Coscienza (fare cioe’ il Mago, agire, lottare). Scelse, ed era prevedibile, la seconda soluzione.
Nun era un Arcangelo, ma ancora non lo sapeva. La battaglia infurio’ per anni, e non fu la solita lite, perche’ alla fine il “premio” fu immenso: DIO! - DIO... “IN PERSONA!”.

 

 

 

 

7 – L’esercito

Il sovrano, con molta pazienza, aspettò che alla sua tenda giungessero uno ad uno i vari generali in rappresentanza di tutto l’esercito dell’impero. Lui sarebbe rimasto seduto sul­la sua poltrona posta sulla pedana di legno in posizione tale da poter ben vedere tutta la “generalità”.
Il primo ad arrivare fu il generale Sci, e poi via via: il ge­nerale Mustafà, il generale Moshè, il generale Santità, il ge­nerale Harè, ed infine il generale Sakià.
Quando tutti si furono seduti dopo aver reso omaggio a sua mae­stà, cominciarono gli interventi sul tema “come potenziare l’e­sercito di Sua Maestà”.
“C’è troppa dispersione — esordì deciso il generale Sci — troppi sono i generali. A comandare dovrebbe essere uno e poi, gradual­mente, l’esercito andrebbe disarmato, perché tanto non c’è nes­sun nemico da combattere. Si dia il comando supremo a me, e sistemerò tutto in poco tempo”.
“Ma questo è assurdo — saltò su il generale Mustafà — davanti al nostro esercito non vedo altro che nemici, tutte popolazioni ostili che vanno combattute, eliminate, trasformate. Si dia a me il comando supremo, ed in men che non si dica si allargheranno i confini del nostro territorio”.
“Questa poi — disse sorridendo il generale Moshè — è pura follia, dal momento che i veri confini sono lì nell’abisso sconfinato, irraggiungibili per gente che non sa nemmeno arrampicarsi sull’albe­ro... Solo un’intelligenza intuitiva può comandare tutto l’esercito. Se mi consentite, solo uno che è riuscito a far spuntare alberi dal deserto e poi a scalarli può comandare, ed io faccio questo da decenni, perché è tradizione della mia famiglia. Date a me il comando: pre-scelti si nasce, ed io lo sono nato...”
“C’è un solo comandante supremo qui — disse in modo perentorio il generale Santità — e quello sono io. Bisogna solo comandare con umiltà, ed io ne ho tanta perché l’ho imparata a scuola. Da due mila anni la mia è una famiglia di umili comandanti. Datemi il co­mando che mi spetta, ed io, umilmente, distruggerò tutti i nemici”. “Queste sono tutte chiacchiere. Qui — disse il generale Harè — ciò che conta è una sola cosa: combattere. Tutti vogliono il comando supremo, ma nessuno pone l’accento sull’unica cosa seria, il com­battere. Solo chi combatte è guerriero, e solo un vero guerriero può stare a capo di un esercito. Io sono un vero combattente, io devo essere il comandante supremo”.
“Se uno è ancora uno schiavo — disse per ultimo il generale Sakià —se uno è ancora schiavo di sé stesso (e qui tutti dicono Io, Io, Io) non può essere il comandante supremo: solo chi è liberato può esserlo, ed…io sono liberato”.
Finiti tutti gli interventi, Sua Maestà suonò un campanellino, ed ecco che da dietro le sue spalle sbucò fuori un bambino dagli occhietti svegli. Questo è Berescit — disse il Re con tono rispettoso — il mio consigliere personale. Ha ascoltato tutti i vostri discorsi, ed ora mi darà i giusti consigli”. Fece un cen­no a Berescit come per dire “Su, comincia”, e poi si sistemò bene sulla poltrona per ascoltare.
“Suggerisco subito a Vostra Maestà — cominciò Berescit —di cambiare titolo ai... generali di Vostra Maestà: essi non possono più essere chiamati “generali”, ma... “particolari”. Sì, proprio così: particolari. Poi suggerisco a Vostra Maestà di avvicendare i particolari di Vostra Maestà nelle province. In­fine, propongo a Vostra Maestà di riconvocare qui fra un anno i particolari di Vostra Maestà”. Berescit face un inchino e tornò a porsi alle spalle del Re, il quale, alzandosi, disse: “Così sia fatto”, e congedò tutti.
Passò un anno.
Tutti i particolari (ex generali) si ritrovarono sotto la stessa tenda, dopo avere guidato per dodici mesi una nuova provincia: in pratica, i generali, anzi i “particolari” Sci, Mustafà e Moshè, avevano scambiato le province coi particolari Santità, Harè e Sakià ed era successo questo: gli ultimi tre avevano ripetuto le stesse identiche cose che avevano detto l’anno prima gli altri tre, e viceversa.
Anche questa volta il Re suonò il campanello, e come allora, sbucò da dietro le sue spalle Berescit.
“Cosa pensi — disse il Re al nostro giovane — di tutto questo? Qualcosa mi sfugge. Su, dimmi”.
Berescit disse con voce seria e decisa: “Io suggerisco intanto che Vostra Maestà si faccia una grossa risata. Quindi suggerisco a Vostra Maestà di indossare la speciale divisa di comandante su­premo. Mio nonno, che ha conosciuto tutti i capostipiti di questi “particolari”, mi ha più volte testimoniato che erano davvero dei generali, e che sapevano combattere vere battaglie contro veri nemici. Gli ex generali di Vostra Maestà, quelli che io  chiamo “particolari”, sono solo dei politicanti, perché solo un politicante può oggi vedere nemici e battaglie este­riori; solo un politicante, oggi, può tracciare confini. I confi­ni sono caduti da un pezzo, ma sembrano esistere ancora, perché nei discorsi degli ex generali di Vostra Maestà è rimasto solo l’eco delle Verità Totali dette dai loro capostipiti.
Di tanto in tanto va nascendo qualche soldato semplice che, at­traverso l’eco di tali Verità, riesce a risentire la voce ricomposta dei capostipiti, ed, in un certo modo, riesce a fare un Unico Discorso anziché sei discorsi. Ebbene, Vostra Maestà, que­sti sudditi rarissimi di Vostra Maestà vengono perseguitati e tacciati di follia, ed alla fine eliminati. Loro sì, sanno che Vostra Maestà è il Comandante Supremo, anche quando non veste la grande uniforme. Ecco perché suggerisco che Vostra Maestà faccia riunire qui tutti i folli dell’intero regno: fra essi troverà il generale che occorre, ed allora Vostra  Maesta’ potrà riappendere la grande uni­forme.” Berescit tacque un po’, fece un inchino al Re, ed ag­giungendo: “i miei rispettosi omaggi a Vostra Maestà”, tornò an­cora una volta a porsi alle spalle del Re.
<< “Sotto Kkann, l’abissale, l’acqua; sopra Kkunn, il ricettivo, la terra”. Confucio non assomiglia per niente a Lao—Tzu. Commentando l’esagramma, egli fa sì un volo intuitivo per dire che: “Simboleggia l’acqua sotterranea che si accumula nel sottosuolo...”, però, nel momento in cui dice la cosa il suo volo ha termine. Confucio ha buttato in aria una pepita che è ricaduta in terra, non è riuscito a rimanere in aria. Certo, quello che dice è oro, oro puro, una buona intuizione, ma la sua acqua e il suo cielo sono di que­sto mondo>>.
Berescit riprese fiato. Stava discutendo del settimo esagramma dell’I Ching, l’Esercito, con un suo vecchio amico, Scwà. Scwà era un samurai che vestiva una strana veste azzurra. I suoi capelli erano legati da un cordoncino anch’esso azzurro. Le sue ciglia non si chiudevano mai, ed i suoi occhi, sempre attenti, erano limpidi come un lago di montagna. Scwà, nella sua vita si era innamorato una sola volta e per sempre: amava la sua spada, Aìm, che nonostante le mille battaglie non presentava alcuna scalfitura: era tutta d’oro, ed. al sole brillava come un sole. Quan­do la impugnava, si fondeva con essa. La luce di Scwà era la sua spada d’oro.
Il vecchio samurai ascoltò divertito Berescit, ma poi, sorridendo e approfittando della pausa del giovane, disse: “è bello quello che dici, degno di un futuro samurai. Mentre parlavi sembravi Confucio e non eri contento di quello che dicevi. Adesso voglio aiutarti: con la mia adorata Aìm fenderò l’aria che ci circonda e che racchiude questo spazio—tempo; aprirò l’Essere ed insieme andremo da Lao—Tzu”. Ecco quindi che si alzò, sguainò la spada, la offrì al Sole dei Soli con un inchino pieno di infinita riconoscenza; divaricò le gambe, e con una incredibile velocità e leggerezza, tagliò l’Essere. Il giovane e il vecchio furono investiti da un fa­scio di luce che dall’apertura esplose a ventaglio; quindi, dopo aver abituato l’occhio alla nuova situazione, videro...
Videro un vecchio dal fisico di un ragazzo. Se ne stava seduto su una pietra cubica posta sopra una piccola altura. Per cuscino ave­va una bianca pelle d’animale. Il suo corpo cantava il silenzio, ed il suo respiro era quello di due amanti con Dio. Scwà fece qual­che passo, depose la sua spada ai piedi di Lao—Tzu in segno di ri­spetto e devozione, e poi con voce dolce ma ferma disse: “Chi è l’Esercito?”.
Vi fu qualche attimo di silenzio. Dopo Lao—Tzu sorrise, e per tutto il tempo che lo fece, la risposta venne dalla voce di Berescit. “Per i tuoi sensi sei tu e la tua forza in perfetta salute, mentre instancabilmente affili la tua Aìm; ma adesso sono io che ti parlo e che impugno la spada. Per il tuo occhio è la nuvola, il divino pozzo dell’acqua, la terra dei cieli che accumula luce bagnata”.
“Ma cosa vuol dire: sei all’inizio...?” disse il samurai.
“L’ordine è il corpo dell’Uno — disse la voce del ragazzo — Esso è armonia. L’inizio sei tu che muovi te; è questo”: e Lao—Tzu gli lanciò la spada. “Tutti sono nell’Uno, ma l’Uno non trova posto in tutti, perché non basta sapere di esserci, occorre esserci nell’ordine e nell’armonia.
Nel mezzo dell’esercito: tu con la tua spada e la tua luce bagnata, tutti nello stesso istante.
Se lasci la spada alla mano non tagli più l’Essere, ma te: ti dividi, ottieni un due che spezza le cose legate.
Se ciò dovesse accadere, prima che la spada ubbidisca alla mano, dissolviti, dissolviti presto lassù nella nuvola.
La mano non è mai la più vecchia, più vecchio sei tu con la ma­no: mantieniti in tutto, non farti scappare le cose; ma se ciò dovesse accaderti, cacciale senza ucciderle, catturale, perché tu sei uno. Mai vinca la mano: se essa comanda, sei morto.
Sii tu a comandare: ti spetta per patto.
Non essere comune, ma eccezionale. Ordina alle tue parti, fonda stati di esistenza sempre più alti; fai di ogni tuo organo un centro di ubbidienza a te stesso. Adopera il tuo uomo che mostri e che porti.
Adesso — disse infine la voce di Berescit sul sorriso di Lao-Tzu — fammi vedere il tuo Esercito!”
Il samurai con mosse lente e piene di grazia riprese la spada. Si chinò. Cominciò a girare come un danzatore sufi, proprio come un amante di Dio. Facendo girare la sua Aìm, riempì di fendenti quello spazio e quel tempo: come una torcia che girando forma un cerchio di fuoco, così quella lama dorata, in tutt’uno col corpo di Scwà, formò una sfera di luce che inghiottì ogni cosa. Più niente.
Berescit se ne stava seduto comodamente e tranquillamente, con gli avambracci poggiati sulla scrivania, come un generale che, avendo vinto una battaglia, ha allentato ogni tensione. Era calmo, tanto calmo da potersi permettere qual­che volo di fantasia: ogni pratica era un piano di battaglia; la dattilografa, l’aiutante di campo; ed i vari impiegati, ufficiali e sottufficiali.
Fu così che all’archivista (persona anziana prossima al pensionamento) che gli aveva portato una lettera da firmare, per gioco mise in bocca queste parole:
“Ed anche questa è vinta sig. Generale, eh!. Mi dica sig. Generale, come mai il nemico, pur essendo stato per l’ennesima volta sconfitto, ricompone sempre le sue fila, e ridichiara guerra?”
“Tenente Bonè - rispose il generale, lasciando di stucco l’archivista - lei è una mia emanazione - e qui l’archivista fu costretto a sedersi - una mia buona “creazione”; fa quindi parte del mio esercito bianco.. Ma ora guardi” e col dito indicò sopra la propria testa.
L’archivista guardò (ma questa volta lo fece da tenente...), e vide come dal­la testa del generale cominciasse ad uscire, dapprima un fumo, e poi dei colo­ri; quindi osservò come il tutto, piano piano, assumesse i contorni di un soldato, uno strano soldato simile più ad un merceneraio, il quale teneva arroto­lata nella destra la solenne promessa. Appena i contorni di esso furono netti e chiari, si staccò dalla testa del generale e andò a sedersi proprio accan­to al tenente, che intanto aveva completamente dimenticato di essere un archi­vista prossimo alla pensione.
“Adesso guarda ancora” riprese il generale, e nello stesso momento dalla sua testa cominciarono ad uscire diversi soldati, ciascuno con nella destra la so­lenne promessa in pergamena: l’ufficio, che oramai era una tenda da campo, fu pieno zeppo di soldati. “Ora - disse il generale - puoi chiedermi qualunque co­sa” e sorrise come compiaciuto.
“Ma qui c’è un esercito! - disse il tenente Bonè stupito ed in preda ad eccita­zione - ma chi sono costoro?”
“Lo hai appena detto, mio caro Bonè: questi personaggi costituiscono proprio l’esercito, ma…. quello nemico, quello che si ricompone sempre... Sappi, amico mio, che ognuno di noi può utilizzare tutta la materia mentale che vuole, “creando” tutte le forme che vuole. Ora, quando “crea” un’immagine netta di se stesso alle prese con una soddisfazione di desiderio che poi non soddisfa, quel personaggio si ritrova con una solenne promessa scritta, cioè con un desiderio da realizzare. Capirai come una persona molto desiderosa, in una sola giornata possa creare un reparto al completo. Ebbene, nel momento in cui non mantiene la promessa, il personaggio gli muoverà guerra. Qui è da sottolineare che ogni soldato va per proprio conto, ma metti insieme cento, mille persone che ciascuna per proprio conto ti muove guerra, e vedrai di fronte a te un eserci­to nemico in piena regola. A questo punto occorre un esercito amico, ma il primo passo da fare è vestirsi da generale (all’esercito è d’uopo perseveranza e un uomo forte); e poi… caro Filipponi... fare di ogni personaggio vero che lei recita nell’arco di una giornata (o di una vita) un soldato bianco da opporre ai mercenari insoddisfatti”.
“Ma io sono il tenente Bon...” stava per dire l’ar­chivista Filipponi. Invece Berescit lo interruppe, e: “Caro Filipponi - gli dis­se togliendogli dalle mani la lettera - le firmo subito il congedo illimitato e le dico pure come far scomparire questa compagnia”. Firmò la lettera e aggiunse: “Caro Bonè - e qui l’archivista perse ogni traccia di identità - tolga a ognuno la promessa solenne e la bruci: scompariranno”, fece quindi una pausa per concludere: “Ma lei... Filipponi...  il fuoco.. ce l’ha?”

Grazie.

 

 

7 – L’Esercito(2)

<< “Sotto Kkann, l’abissale, l’acqua; sopra Kkunn, il ricettivo, la terra”. Confucio non assomiglia per niente a Lao—Tzu. Commentando l’esagramma, egli fa sì un volo intuitivo per dire che: “Simboleggia l’acqua sotterranea che si accumula nel sottosuolo...”, però, nel momento in cui dice la cosa il suo volo ha termine. Confucio ha buttato in aria una pepita che è ricaduta in terra, non è riuscito a rimanere in aria. Certo, quello che dice è oro, oro puro, una buona intuizione, ma la sua acqua e il suo cielo sono di que­sto mondo>>.
Berescit riprese fiato. Stava discutendo del settimo esagramma dell’I Ching, l’Esercito, con un suo vecchio amico, Scwà. Scwà era un samurai che vestiva una strana veste azzurra. I suoi capelli erano legati da un cordoncino anch’esso azzurro. Le sue ciglia non si chiudevano mai, ed i suoi occhi, sempre attenti, erano limpidi come un lago di montagna. Scwà, nella sua vita si era innamorato una sola volta e per sempre: amava la sua spada, Aìm, che nonostante le mille battaglie non presentava alcuna scalfitura: era tutta d’oro, ed. al sole brillava come un sole. Quan­do la impugnava, si fondeva con essa. La luce di Scwà era la sua spada d’oro.
Il vecchio samurai ascoltò divertito Berescit, ma poi, sorridendo e approfittando della pausa del giovane, disse: “è bello quello che dici, degno di un futuro samurai. Mentre parlavi sembravi Confucio e non eri contento di quello che dicevi. Adesso voglio aiutarti: con la mia adorata Aìm fenderò l’aria che ci circonda e che racchiude questo spazio—tempo; aprirò l’Essere ed insieme andremo da Lao—Tzu”. Ecco quindi che si alzò, sguainò la spada, la offrì al Sole dei Soli con un inchino pieno di infinita riconoscenza; divaricò le gambe, e con una incredibile velocità e leggerezza, tagliò l’Essere. Il giovane e il vecchio furono investiti da un fa­scio di luce che dall’apertura esplose a ventaglio; quindi, dopo aver abituato l’occhio alla nuova situazione, videro...
Videro un vecchio dal fisico di un ragazzo. Se ne stava seduto su una pietra cubica posta sopra una piccola altura. Per cuscino ave­va una bianca pelle d’animale. Il suo corpo cantava il silenzio, ed il suo respiro era quello di due amanti con Dio. Scwà fece qual­che passo, depose la sua spada ai piedi di Lao—Tzu in segno di ri­spetto e devozione, e poi con voce dolce ma ferma disse: “Chi è l’Esercito?”.
Vi fu qualche attimo di silenzio. Dopo Lao—Tzu sorrise, e per tutto il tempo che lo fece, la risposta venne dalla voce di Berescit. “Per i tuoi sensi sei tu e la tua forza in perfetta salute, mentre instancabilmente affili la tua Aìm; ma adesso sono io che ti parlo e che impugno la spada. Per il tuo occhio è la nuvola, il divino pozzo dell’acqua, la terra dei cieli che accumula luce bagnata”.
“Ma cosa vuol dire: sei all’inizio...?” disse il samurai.
“L’ordine è il corpo dell’Uno — disse la voce del ragazzo — Esso è armonia. L’inizio sei tu che muovi te; è questo”: e Lao—Tzu gli lanciò la spada. “Tutti sono nell’Uno, ma l’Uno non trova posto in tutti, perché non basta sapere di esserci, occorre esserci nell’ordine e nell’armonia.
Nel mezzo dell’esercito: tu con la tua spada e la tua luce bagnata, tutti nello stesso istante.
Se lasci la spada alla mano non tagli più l’Essere, ma te: ti dividi, ottieni un due che spezza le cose legate.
Se ciò dovesse accadere, prima che la spada ubbidisca alla mano, dissolviti, dissolviti presto lassù nella nuvola.
La mano non è mai la più vecchia, più vecchio sei tu con la ma­no: mantieniti in tutto, non farti scappare le cose; ma se ciò dovesse accaderti, cacciale senza ucciderle, catturale, perché tu sei uno. Mai vinca la mano: se essa comanda, sei morto.
Sii tu a comandare: ti spetta per patto.
Non essere comune, ma eccezionale. Ordina alle tue parti, fonda stati di esistenza sempre più alti; fai di ogni tuo organo un centro di ubbidienza a te stesso. Adopera il tuo uomo che mostri e che porti.
Adesso — disse infine la voce di Berescit sul sorriso di Lao-Tzu — fammi vedere il tuo Esercito!”
Il samurai con mosse lente e piene di grazia riprese la spada. Si chinò. Cominciò a girare come un danzatore sufi, proprio come un amante di Dio. Facendo girare la sua Aìm, riempì di fendenti quello spazio e quel tempo: come una torcia che girando forma un cerchio di fuoco, così quella lama dorata, in tutt’uno col corpo di Scwà, formò una sfera di luce che inghiottì ogni cosa. Più niente.

 

 

 

7 – l’Esercito(3) 

Berescit se ne stava seduto comodamente e tranquillamente, con gli avambracci poggiati sulla scrivania, come un generale che, avendo vinto una battaglia, ha allentato ogni tensione. Era calmo, tanto calmo da potersi permettere qual­che volo di fantasia: ogni pratica era un piano di battaglia; la dattilografa, l’aiutante di campo; ed i vari impiegati, ufficiali e sottufficiali.
Fu così che all’archivista (persona anziana prossima al pensionamento) che gli aveva portato una lettera da firmare, per gioco mise in bocca queste parole:
“Ed anche questa è vinta sig. Generale, eh!. Mi dica sig. Generale, come mai il nemico, pur essendo stato per l’ennesima volta sconfitto, ricompone sempre le sue fila, e ridichiara guerra?”
“Tenente Bonè - rispose il generale, lasciando di stucco l’archivista - lei è una mia emanazione - e qui l’archivista fu costretto a sedersi - una mia buona “creazione”; fa quindi parte del mio esercito bianco.. Ma ora guardi” e col dito indicò sopra la propria testa.
L’archivista guardò (ma questa volta lo fece da tenente...), e vide come dal­la testa del generale cominciasse ad uscire, dapprima un fumo, e poi dei colo­ri; quindi osservò come il tutto, piano piano, assumesse i contorni di un soldato, uno strano soldato simile più ad un merceneraio, il quale teneva arroto­lata nella destra la solenne promessa. Appena i contorni di esso furono netti e chiari, si staccò dalla testa del generale e andò a sedersi proprio accan­to al tenente, che intanto aveva completamente dimenticato di essere un archi­vista prossimo alla pensione.
“Adesso guarda ancora” riprese il generale, e nello stesso momento dalla sua testa cominciarono ad uscire diversi soldati, ciascuno con nella destra la so­lenne promessa in pergamena: l’ufficio, che oramai era una tenda da campo, fu pieno zeppo di soldati. “Ora - disse il generale - puoi chiedermi qualunque co­sa” e sorrise come compiaciuto.
“Ma qui c’è un esercito! - disse il tenente Bonè stupito ed in preda ad eccita­zione - ma chi sono costoro?”
“Lo hai appena detto, mio caro Bonè: questi personaggi costituiscono proprio l’esercito, ma…. quello nemico, quello che si ricompone sempre... Sappi, amico mio, che ognuno di noi può utilizzare tutta la materia mentale che vuole, “creando” tutte le forme che vuole. Ora, quando “crea” un’immagine netta di se stesso alle prese con una soddisfazione di desiderio che poi non soddisfa, quel personaggio si ritrova con una solenne promessa scritta, cioè con un desiderio da realizzare. Capirai come una persona molto desiderosa, in una sola giornata possa creare un reparto al completo. Ebbene, nel momento in cui non mantiene la promessa, il personaggio gli muoverà guerra. Qui è da sottolineare che ogni soldato va per proprio conto, ma metti insieme cento, mille persone che ciascuna per proprio conto ti muove guerra, e vedrai di fronte a te un eserci­to nemico in piena regola. A questo punto occorre un esercito amico, ma il primo passo da fare è vestirsi da generale (all’esercito è d’uopo perseveranza e un uomo forte); e poi… caro Filipponi... fare di ogni personaggio vero che lei recita nell’arco di una giornata (o di una vita) un soldato bianco da opporre ai mercenari insoddisfatti”.
“Ma io sono il tenente Bon...” stava per dire l’ar­chivista Filipponi. Invece Berescit lo interruppe, e: “Caro Filipponi - gli dis­se togliendogli dalle mani la lettera - le firmo subito il congedo illimitato e le dico pure come far scomparire questa compagnia”. Firmò la lettera e aggiunse: “Caro Bonè - e qui l’archivista perse ogni traccia di identità - tolga a ognuno la promessa solenne e la bruci: scompariranno”, fece quindi una pausa per concludere: “Ma lei... Filipponi...  il fuoco.. ce l’ha?”

Grazie.

 

 

 

11  La Pace

Berescit aveva oramai deciso: avrebbe condotto una seria ricerca sull’esagramma undici dell’I Ching in una maniera insolita.
Si era procurato, in un mercatino delle pulci, delle vecchie statue di legno, imitazioni di capolavori di grandi maestri. Lui sapeva benissimo che attraverso i canali dell’arte, della vera arte, sono precipitate da sempre delle grandi verità. Erano davvero identiche agli originali: un Mosè; un Cristo nel deserto; un Budda nella posizione del loto; un Lao-Tzu nella posizione del mungitore; un Boddidarma davanti al muro; un Maometto al cospetto dell’arcangelo Ga­briele; una comitiva di maestri zen a braccetto. Se 1e era messe davanti a semicerchio e, con un leggero movimento del collo, poteva vederle tutte senza muovere la testa. In un primo momento aveva deciso di fissarle ben bene e di cogliere il senso sottile del­la pace che da ogni sculturina gli sarebbe piovuta, ma dopo aver fissato la prima, quella della comitiva di maestri zen, gli accadde un fatto insolito: la sua coscienza entrava nella allegra comitiva e, penetrandola, s’imbatteva in un mondo di rumorosi silenzi. A catturare la sua coscienza era stato lo strano sorriso che emanava dagli occhi di quella “banda” di maestri: era in essi la stessa gioia che, cogliendo di sorpresa un bambino,  lo lascia lì senza fiato, come in un atteggiamento di stupore, e lo solleva quasi fisicamente dal terreno. Riuscì a sentire in quel rumoroso silenzio la voce della gioia perfet­ta, la voce dell’estasi superiore, la voce dello stesso silenzio. Poi cominciò a nuotare in essa, per divenirne l’essenza. “Ecco - risuonò il coro muto dei maestri - la pace è l’essenza del silenzio. Non dirla mai, non l’affermare mai, perché se no la tradisci. Rispettala con lo stesso stupore con cui un bambino stupito la tace. Non tradirla con sorrisi o con parole, ma, come noi, apri le tue finestre: i tuoi oc­chi: sono esse le aperture con cui puoi sorriderla. Però, facendolo, non compiacerti, ma rimani in naturale, spontanea apnea: non prendere aria: il tuo cuore respirerà per te, non avrai bisogno di aria per un po’! Questo è un vero respiro: il piccolo se ne va e il grande se ne viene. Se respiri col naso: il grande se ne va e il piccolo se ne viene. Un fortissimo odore di muschio restituì a Berescit la sua coscienza ed il suo sguardo era posato sulla statuetta del profeta di Hallah il Misericordioso. Maometto era al cospetto dell’Arcangelo Ga­briele il quale, nonostante l’immobilità del legno, nonostante il si­lenzio della figura, emanava un pregnante sapore di vero, tutto rac­chiuso nel messaggio che l’assoluto riponeva nel suo tacere. Questa volta la gioia del bambino esplodeva in un canto incontenibile: sure di Maometto diventavano un inno all’Assoluto cantato dal cuore, ed ogni parola avvampava d’amore. A quel punto, il profeta, pur cantando, ta­ceva, perché la canzone di un faro è un dolce silente richiamo che va al di là della spada e della lotta; trascende tutto per divenire la pace. Gabriele è il Cielo, Maometto è la terra, e congiunti là, in quel modo, sono lo specchio della pace di Hallah. Il profeta allora di­venta un re di diritto e amministra e ordina i doni di cielo e terra, e assiste il popolo: tutto quello che fa è perfetto. “La pace è moto ordinato dell’assoluto” echeggiò la voce di Mohammad. E qui Berescit si ritrovò ancora una volta in se stesso.
Il suo sguardo si era posato sulla statuina di Bodhidharma davanti al muro. Dopo anni aveva finalmente capito, Berescit si era reso conto di cosa quel muro rappresentasse per il ricercatore. Esso era lo spec­chio davanti a cui l’Essere del grande iniziatore dello zen poneva il suo involucro. Il muro era un’arma formidabile di cui il maestro si serviva per annullare di colpo lo spazio e con esso il tempo. Davanti a quella parete, il corpo (la materializzazione dell’essenza) veniva ributtato a se stesso, la coscienza veniva così rigettata dentro le mura del suo tempo, non veniva più attratta dai pallidi riflessi del­la vita. In quel modo, la mente taceva e la pace imperava. Il corpo di Bodhidharma, come una roccia, sfidava il silenzio del muro, e vinceva perché più silente: primo uomo al mondo, alzava se stesso per i ca­pelli: svellendo fallarica viene via anche la zolla. Quando, poco dopo, lo sguardo di Berescit si posò sulla statuetta di Lao-Tzu, non successe niente, ma proprio niente; quel niente che a priori mette paura, ma che, come ultima meta, non lascia più spazi. In quella stra­na posizione Lao-Tzu mungeva l’Assoluto e non si curava di niente. Un matto, sembrava proprio un matto; ma solo un divino matto come lui avrebbe potuto comprendere quella sottile pazzia. Per un attimo Berescit avvertì un Muuuhh, ma di mucche non vi era ombra. “Certamente echeggia nell’aria rarefatta il “Muh” di Joshu (il cane ha la stessa natura del Budda?— fu chiesto a Joshu. La sua risposta fu: “Muh”, che vuol dire nul­la, niente). Lao-Tzu camminava perfettamente nel mezzo. Stavolta Berescit entrò nel sorriso del Budda, i cui occhi erano socchiusi!. Ma una stranissima sensazione lo sconcertò: si sentiva come acqua bevuta da un assetato, come pane mangiato da un affamato: era lui la causa di quel sorriso; ma non lui come corpo, bensì come essere. Sì, a quel tem­po non era ancora nato, ma un’affermazione gli s’impose dappertutto: prima che Budda fosse, IO SONO; Io Sono prima che Abramo fosse. Un cor­po destinato a morire esplodeva in un eterno sorriso. A questo punto Berescit trasse un lungo respiro, quindi posò lo sguardo sul legno raffigurante il Maestro di Nazareth nel deserto. Prima ancora di entrar­vi dentro, nelle sue orecchie echeggiò: “Nessun piano cui non segue un declino, nessuna andata cui non segua un ritorno...egli cala aleggiando senza far pesare la ricchezza, insieme al suo prossimo schiet­to e sincero”. Cosa volevano dire quelle parole così misteriose? Berescit entrò in quella statuina, e appena dentro disse: sono, io, il tuo Krisna, la tua coscienza cristica, la tua consapevolezza. Quando io mi manifesto tu diventi umile e tutto va bene. La tua ricchezza interiore sono io, io sono il tuo “Oro”. A questo punto anche il tuo corpo risplen­de, ma solo dopo la desertificazione io mi mostro a te, ed ecco: la pa­ce, ovvero IO in te SONO: il piccolo se ne va, il GRANDE se ne viene. Mosè guardava lontano, lontanissimo. Il suo sguardo non si posava mai. Tutto Mosè era uno sguardo potente. La legge. E’ come un sacerdote che celebra continuamente, che costantemente posa gli occhi impavidi sul divino. E’ forte, e attraverso lo sguardo posa la sua essenza sulla Assolutezza: dà in sposa sua figlia, e ciò è la sua forza, la sua prosperità, la sua salute. Mancava una variante, e statuine non ce n’erano più. Allora Berescit entrò in se stesso, ma, mentre procedeva, una voce lo ammonì: “quando cominci a scavarti devi saperlo fare, perché se non usi i dovuti accorgimenti diventi come una buca la cui terra appena estratta vi ricade dentro. Non bisogna adoperare eserciti, non bisogna usare armi per vivisezionarsi, ma le mani per modellarsi.
Sii l’artista della tua creta; prendi il comando e annuncia i tuoi decreti. E persevera, scavati sempre. Sii un artista, e.. chissà!.. forse un giorno non lontano qualcuno potrà farti visita attraverso un silenzioso sorriso”.

SHANTI

che vuol dire P A C E.

 

 

 

12 – IL RISTAGNO

Per quale stranissimo fenomeno — si chiedeva Berescit — dopo avere letto un brano di un qualunque testo sacro, ci si sente come un cavallo voglioso di ga­loppare o come un coniglio saltellante? Sicuramente è come un far benzina, ma… che tipo di benzina? e… dove si trova?
Certo non sta nel libro, ma è il libro che dà la chiave del serbatoio. Tu leggi e rileggi il testo, e poi cominci a riempirti di qualcosa che prima non c’era e che cercherà di uscir fuori sotto forma di creatività. Ma, attenzione, può essere creativo anche il silenzio, anzi è proprio il silenzio il punto di partenza di ogni atto creativo. Lo stato di pienezza rimane intatto se la creatività rimane potenziale e latente sotto forma di amore verso tutto e verso tutti. Ma quando il maestro è perfetto, riuscen­do a condensarlo in poche parole potenti (vedi Lao-Tzu o il Maestro) lo passa, lo deve passare. Lo hanno fatto tutti. L’I Ching lo fa da millenni con pochissi­me parole, e non si è ancora esaurito, perché racchiude potenzialmente una delle più grandi verità: il movimento. Apparentemente ogni esagramma, col suo simbolo e con la sua sentenza-immagine, è un archetipo, ma di fatto è un evento, è il mo­vimento incessante e sempre fresco che sta all’interno dello stessa archetipo. Per fare un esempio diciamo che ogni esagramma è come una persona, e che anziché farcela conoscere con una foto, l’I Ching ce la presenta prima con un piccolo filmato (immagine e sentenza in fermento), e dopo, tramite gli atteggiamenti del­la persona, attraverso ciò che essa fa. Ogni archetipo nasce, cresce e muore in tutti gli altri, come dire: non muore mai; più o meno come la verità di un uomo contiene la verità di tutti gli uomini, e come la morte di un uomo non significa la morte dell’uomo. Un granello di sabbia, una goccia d’acqua, contengono la verità dell’intero universo. Come potrà mai — si chiedeva ancora Berescit — esaurirsi un tale messaggio? E’ come la voce di una sorgente che lassù in montagna si rinnova costantemente: il suo canto, sempre diverso, è fondamentalmente sempre uguale. Fluisce sempre, e nonostante si versa come acqua continuamente nell’ocea­no, non si stanca mai di farlo. Sorgente, fiume, oceano, con tutto ciò che compor­ta un tale percorso: anse, laghi, ecc., tutti aspetti e mutamenti della stessa acqua canterina di montagna. Quando la creatività (la sorgente) con moto inin­terrotto s’insinua tra i sassi dell’alta montagna per lasciarsi andare verso la valle, prima o poi comincia ad essere nutrita dal mondo circostante, comincia a diventare fiume. Questi apporti sono come varianti, le quali danno al fiume un aspetto sempre diverso. Il fiume dell’I Ching è sempre scorso e sempre scorrerà. Nei suoi 64 tratti diversi esso appare come un fiume spiralato; ha sempre un ini­zio e una fine a dimensioni via via più alte, diverse. Non potrà mai avere fine perché la sua sorgente nasce nel silenzio, nel Tao. E mari sempre più vasti, uno sull’altro, riempiendo il cielo e la terra danno testimonianza di ciò: NON esiste alcun ristagno. L’esagramma 12 del libro dei mutamenti è un laghetto, è il fiu­me dell’I Ching fattosi lago. A prima vista sembrerebbe che esso si allarghi in un’immensa conca, per ristagnarvi, ma deboli correnti superficiali e subacquee rinnovano incessantemente le acque facendole mutare. Più a valle il fiume ripren­de in suo corso, il lago si riveste da fiume, il lago diventa uno dei tanti aspet­ti del fiume. “Il grande se ne va e il piccolo se ne viene”. Chi è il grande e chi il piccolo? Berescit questa volta tacque a se stesso perché la domanda l’aveva posta all’I Ching. Lo aprì a caso e lesse: “L’Esaurimento”. Ma mentre leggeva, apparve nella sua mente una enorme clessidra: “sempre — si disse — in ogni movimento c’è un grande che va e un piccolo che viene: è lo stesso archetipo del ristagno che, passando da sopra a sotto, come immagine, dà l’esat­ta natura di se stesso. Il fiume si fa sabbia, ma nulla cambia; il ristagno diventa un piccolo I Ching, un piccolo Libro dei Mutamenti, ed ogni linea, a sua volta, diventa un ancor più piccolo libro, un ancor più piccolo fiume. E’ la goccia d’acqua che contiene il principio dell’oceano; è il granello di sabbia che contiene il deserto; il granello di senape che porta in se’ l’albero. L’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande si allontanano e pur s’avvici­nano; i due opposti trovano un punto di coincidenza in qualcosa che può essere reso solo con la parola SILENZIO. Qui, il Ristagno diventa stupore incomunicabile, diventa uno stato d’animo. Esso si è staccato dal libro ed agisce su me: adesso il fiume sono io e mi osservo; ed il mio osservare è un continuo essere freschi: ed ecco la sorgente......
Quando un fiume sente se stesso alla foce, nel lago, e alla sorgente, nasce un “moto” al di là di ogni spazio e al di là di ogni tempo. E’ un ristagno, uno strano irrequieto ristagno. Ecco, è finita: il grande se ne va e il pic­colo se ne viene: ovvero: il silenzio è andato via, il grande è scomparso; il piccolo (il blaterare) è qui, anzi…era qui, perché, per fortuna — disse Berescit — appena metterà il punto sarà nuovamente silenzio, ed il sottile le­game che ci unisce tutti sarà ristabilito: non sarò più un fiume che s’è vi­sto allo specchio, ma 10.000 fiumi. E’ questa la compagnia fra uomini, ma di questo ne riparleremo un’altra volta”.
Berescit si era reso conto di un fatto incredibile: non vi era alcuna differenza di tempo…. tra l’attimo in cui trasformava in fiume un esagramma e questo momento qui… perché sotto ad ogni parola, sotto ad ogni immagine, la materia prima con cui l’una e le altre venivano formate incalzava da tutte le parti per imporsi su tutto, per avvolgere tutto. E’, quello, l’infinito presente: il  silenzio, la Forza da cui promana il Verbo.
SCIIIII…..

 

 

 

 

16 – IL FERVORE

Sentenza: propizio è costituire aiutanti e far marciare eserciti.
Berescit si chiese subito: a chi è propizio?… Far marciare eserciti ver­so dove?... E perché?… Propizio a che cosa?… E infine: sentenza da parte di chi?…
La risposta ancora una volta venne automatica: “ti sei imbattuto nella sedicesima tappa del viaggio da fermi, l’unico modo di viaggiare che crea movimento. E’ difatti indispensabile tacere pri­ma di parlare, inspirare prima di espirare, star fermi prima di andare. L’esagramma, con i suoi trigrammi di sotto e di sopra, è come un panino aperto da un affamato, che chiede a te, a te che lo osservi, di farti companatico. Se ti lasci imbottire, se sacrifichi un po’ di te, del tuo essere, del tuo tempo, della tua apparente individuale energia, allora produrrai un mutamento nel tutto. E’ questo l’unico modo (si fa per dire) per animare il libro. Nel mondo vi sono milioni di libri, ma solo pochi fra di essi ti permettono di far questo. Stiamo parlando dei testi sacri!. Pensa, milioni di libri scaturiti tutti da una ventina di lettere d’alfabeto.
L’I Ching ha racchiuso tutti i libri del mondo in 64 esagrammi, ma al suo interno ha fatto di più: ogni esagramma, potenzialmente, li contiene tutti. Ed infine dà la chiave di tutto il gioco in un’immagine semplice e perfetta:
UNA LINEA INTERA IMPROVVISAMENTE SI SPEZZA…, una sottile nuvola si spezza in due a causa del vento. Cos’è che fa spezzare le linee? Qual’è il misterioso vento che soffia su di esse? Dov’è l’anima dell’I Ching?... E’ il Verbo, il pronunciamento di una sentenza e di un’immagine, le quali rappresentano la voce dell’esagramma. Quando stai davanti a un esagramma è come stare davanti a un bambino, davanti alla perfezione divina silenti. Egli se ne sta lì zitto, ma appena lo chiami, ecco che si manifesta, esplode, come un vulcano, con la sua vocina. E’ un fatto talmente scontato, talmente normale che nessuno ci fa caso; parlare è manifestare il divino in modo netto e inequivocabile, ma com’è molto più bello sapere di farlo.. Saper­lo equivale a “Fervore”. Per rimanere in tema, è come un bambino che alla vi­sta della mamma e del papà non riesce più a contenersi ed esplode nella sua gioia. Ma veniamo alle domande. E’ certo che un testo sacro è per tutti!. Abbiamo appena visto il fervore di chi porta a spasso il suo Dio e di ciò ha un barlume. Vediamolo adesso in chi Lo porta a spasso e non lo sa. Per scoprirlo 1’I Ching suggerisce di costituire aiutanti e far marciare eserciti; l’I Ching sta dicendo in un modo allegorico: non essere diviso, prendi il comando di tutte le tue regioni e organizza le tue folle (i tuoi ego); disciplinali, falli marciare. E’ il primo passo per stabilire la pa­ce in te e per orientare tutti i tuoi sensi in una sola direzione. Ciò de­ve essere fatto con una perentorietà simile a quella del tuono che sta per affermare il cambiamento del tempo. Irrompi in te stesso, fai tuonare il tuo Verbo caricandolo di Cristicità: lascia che il tuo Signore comandi tra­mite il suo vassallo. Sottomettiti a Lui, al tuo Sovrano:solo così potrai diventare vero Re. Gli antichi re lo sapevano, e dopo aver fatto esplodere in loro il tuono, vedevano nella tempesta successiva la sacra musica, quel­la del sacro mutamento. Sacrificavano ogni loro tempesta interiore al Dio Supremo ed in quella offerta lasciavano bruciare al fuoco appena acceso la presenza dei loro avi, cioè tutto quello che costituiva la folla delle loro tante personalità. Il tuono è annunciatore della tempesta, è la voce del cambiamento. Quando esso arriva, gioisci, non aver paura: il Verbo è esploso in te. Mettiti da parte a osserva i venti, le nuvole nere, la pioggia e i fulmini. Solo così potrai purificare la tua terra. Offri te stesso alla tem­pesta, pulisciti, sii attento più ai suoi effetti benefici che a quelli distruttivi. Se si spezza qualche ramo è perché ti sei irrigidito, ti sei op­posto ai venti e all’acqua, non ti sei saputo piegare umilmente. Il pericolo sta tutto in questo eventuale irrigidimento. Impara dalla natura: l’albero orgoglioso e forte si spezza; quello umile, docile, si piega e non si spezza. La tempesta passerà, l’eco del tuono si allontanerà, ed un fervore nuovo, diverso, ti scuoterà in tutta la tua nuova e rinnovata natura. Non disperare, la tempesta passerà. Non aver paura, essa farà solo il suo dovere: monderà tutto e in fretta. Quando al mattino la voce non riesce a svegliare il bam­bino, la mamma è costretta a tuonare e scuotere sia pur dolcemente suo figlio. L’I Ching ti sta dicendo la stessa cosa: quando la tua anima dorme e la voce insistente del tuo Dio interiore non riesce a richiamarla dal sonno, Lui è costretto a tuonare. E’ l’unico modo sai? La tempesta a volte è proprio necessaria. Certo, essa ti staccherà a forza da un sonno che non finiva più; ti farà toccare con mano l’inconsistenza dei tuoi sogni, te li brucerà con un colpo di fulmine. Quello è un giusto momento: stai attento: la luce del ful­mine per qualche attimo illumina il paesaggio. A quel punto guarda, osservati, è un’opportunità unica: in quel attimo sei sveglio, ma se ricadi nel sonno, la tempesta diventa un brutto sogno come gli altri, forse il più brutto so­gno della tua vita. Ed essa continuerà fino a che, o ti svegli, o ti spezzi.
A te la scelta….
Infervorati quindi, sii come una gallina sull’uovo. Alimenta il tuo fuoco: la luce del lampo può essere imbrigliata accettandola. Covati, non disperdere il tuo fervore, non estrinsecarlo, sii saldo e muto come una pietra: conoscerai le mille cose di te stesso, ma piano, devi farlo con pazienza giorno per giorno. Però questo non deve essere inteso come un invito a temporeggiare. Devi solo soffiare sul tuo fuoco con un vento moderato: se la fiamma è troppa, po­tresti bruciacchiarti. A quel punto tutti i tuoi amici, tutte le tue miglio­ri qualità si schiereranno attorno a te come attorno a una fibbia per i ca­pelli. Procurati quella febbre che farà di te un eterna malato con la soffe­renza di mai poter abbracciare l’infinito corpo dell’amata/o. Alla fine es­so non sarà più il tuo fervore, ma il fervore, il Suo fervore. Perché sappilo, i 64 esagrammi sono tutti suoi aspetti. Ecco quindi come in fine il tuo fer­vore è cieco: non vedrai più col tuo occhio ma col suo. La tua cecità sarà molto diversa da quella di chi ha l’occhio e non vede: tu sentirai, per la prima volta nella tua vita, con l’occhio. E’ con il cuore che vedrai, e la tua vista non avrà limiti”.
Berescit era sbalordito, perché guardando l’orologio aveva notato che era passata un’ora di tempo, un’ora di un magico eterno mutamento, nato da alcune domande già gravide di ogni risposta. Non c’erano dubbi, il “chiedete e vi sarà dato” era verità assoluta. Il tutto era accaduto mentre la eterna tempesta della vita imperversava.
“L’acciaio va temperato” si disse Berescit, e, mentre lo diceva, si sentiva come una spada incandescente immersa nell’acqua. L’acqua era oltre il punto posto dopo l’ultima parola che aveva detto: quella          .

Grazie. N.

 

 

17 – IL SEGUIRE

“Non molto distante da qui — disse Centui  a Berescit — vi è un bosco di pini che emana un profumo d’incenso che a volta il vento ci porta. Lì, a metà mon­tagna, in una tenda abita la vecchia Sui. Ha per compagni un leone e un agnello. Nonostante non se ne conosca l’età, ha conservata un’intatta incredibile strana bellezza.
L’ho incontrata circa un anno fa, e sono rimasto affascinato oltre che dalla sua persona, dalle sue infuocate parole. Vacci Berescit; devi conoscerla. Sai, i mondi sono popolati da tanti, ma tanti saggi, e lasciarsene sfuggire uno solo è cosa gravissima.
Quando i fiori sbocciano e profumano, gridano. Il loro profumo è la voce della loro anima, la cui bellezza è poco paragonabile alla bellezza dei loro petali e dei loro colori. Col profumo, l’anima del fiore ti penetra, ti conquista, e facendolo lascia che tu profumi per qualche attimo. Quando mi sono trovato        davanti a Sui ho “visto” tutto questo: era un fiore, e dai suoi occhi emanava un profumo che era “mio”. Se vuoi vedere gli occhi di un fiore, vai. La troverai facilmente perché il profumo d’incenso viene da lei. Non puoi sbagliarti.”
Centui era un amico di Berescit, uno dei suoi 64 amici. Non lo vedeva da anni, e quella mattina l’aveva incontrato per caso mentre passeggiava nel bosco di querce.
L’aria era ancora fresca ed il canto degli uccelli era quello del mattino: accordi e passaggi di prova, brevi e in sordina, dettati dal rinnovato giornaliero stupore per il mondo. Un vento leggero allungava aromi d’incenso in un sottile filo d’Arianna che in breve condusse Berescit alla capanna.
Davanti ad essa, seduta su una roccia dai bagliori dorati vi era una donna vestita di rosa. Era Sui.
Di lontano pareva una statua, perché era immobile e con le braccia allargate ad angolo acuto in basso. Pareva salutasse il sole. Un cordoncino le stringeva la veste alla vita.
Appena vide Berescit fece un inchino e attese che si avvicinasse.
“Benvenuto — gli disse — ti ringrazio di darmi l’opportunità di cantare. Sai, non parlo mai, ma se qualcuno mi viene a trovare gli parlo, e parlando mi pare di cantare. Ogni cosa profuma di eterno appena si manifesta ad uno dei sensi. Quando ho visto il sentiero animarsi di te, ho avvertito il profumo del Tutto in maniera più forte. Non ti dispiace se parlo un po’, vero?” ed attese una risposta con un sorriso pieno di gioia.
Berescit era rimasto a guardarla affascinato: com’era bella! Era una strana bel­lissima vecchia dallo sguardo profumato, che mostrava l’anima da tutta la per­sona, ma soprattutto dagli occhi gioiosi e teneri. Le sue parole erano state un caloroso affettuoso abbraccio.
“Perché ti voglio bene tanto — disse il ragazzo — nonostante ti conosco da un solo minuto?”
“Perché io ti voglio bene. Sai, l’amore per il solo fatto di essere…. vuol bene. Non posso non volerlo, sono “costretta” a voler bene a tutti. Vedi quella sorgente? perché credi che versi continuamente acqua fresca? E’ amore. Non la dà a nessuno: sta solo dilagando. L’amore è dentro ognuno di noi ma è legato da pesanti catene, perché lo si vuole tenere vicino ad ogni senso, ben stretto: più vicino è e più si sente. E invece no, non è così. Se un giorno riuscirai a spezzare le catene che lo legano ai sensi, esso fluirà come una sorgente e inonderà ogni cosa. Sarà, allora, come una donna che bussa alla porta della comare per raccontarle un lieto evento; e la comare busserà dopo alla porta della vicina, e la vicina busserà… fino a che tutto il paese uscirà fuori. Tu mi ami, perché io amo.
Non è un dare, ma uno sciogliersi nel tutto, un essere l’altro, Quello... Se vi è un dare, da qualche parte scatterà l’aspettativa dell’avere; e ciò equivale a catene. Senti come il canto degli uccelletti esplode e si spande? Ti accorgi di come tutta la natura in quest’ora fatata si sciolga come ghiaccio ai raggi di un sole che non va da nessuna parte pur spandendosi dappertutto?
Il Tutto è un infinito fiore che profuma ad ogni mutamento: laddove esplode qualcosa, una nota si scaglia nel tutto, o se preferisci, nel nulla. Il Tutto è Uno quando nessuna sua parte esiste per se', e quindi quando il nulla ha inghiottito la parte. Tutto questo è perdersi, espandersi.
Sii come un fiore. E’ tutto qui, sai”
Berescit la guardava e pensava: “Quando un fiore si schiude e profuma, è l’amore a profumare. E’ come se tutto l’amore del mondo, per celebrare il suo dischiudersi, si precipitasse su di lui e lo arricchisse di profumo, e lui per profonda gratitudine lo indicasse al mondo attraverso i petali e i colori”.
“Parlami di te, amata Sui — disse — voglio conoscere la tua vita”.
“Mi stai offrendo un’altra opportunità per cantare, per celebrare la Vita — disse sorridendo —. Ero appena una bambina quando fui condotta dal vecchio del villaggio. Nel paese dove abitavo, tutti i bambini, compiuta l’età di dieci anni, venivano accompagnati da lui. La stessa cosa accadeva al compimento del quindicesimo anno di età. Era un vecchio saggio che ad ogni bambino asse­gnava una parola: si chinava su di lui e gliela suggeriva all’orecchio.
A me quel giorno sussurrò: "SEGUILO!"
Durante la prima settimana non feci altro che ripetere quella parola per tutto il giorno. La seconda settimana cominciai a ripeterla nel sonno. Per un mese in­tero ne fui ossessionata. Decisi di abbandonarla, dimenticarla. ma non fu facile: ogni cosa che mi succedeva mi richiamava alla mente la parola: un “seguilo” riaffiorava prepotentemente. Se mi assaliva un desiderio di correre, la parola esplodeva. Se mi veniva sonno, la stessa cosa: “seguilo!”. Se mi arrabbiavo, lo stesso. Un giorno mi arrabbiai moltissimo, e come al solito, la parola esplose: “seguilo!” Automaticamente, senza nemmeno rendermi conto, seguii la mia rabbia, ne seguii le tracce, la rincorsi fin dentro le parti più nascoste di me. Feci lo stesso con altri sentimenti, e continuai a farlo per giorni, settimane, mesi, anni.
Fu così che piano piano, seguendo ogni moto interiore, riuscii ad avvicinarmi sempre più alla sorgente del mio essere. Alla fine conclusi che, a sentire tutte quelle cose era sempre lo stesso identico padrone. Dai 14 ai 15 anni quindi realizzai che in me vi era un padrone molto esigente. Ma prima che compissi 15 anni mi feci una domanda fondamentale: “chi è — mi dissi — che si è accorto di avere un padrone?” Ebbene in quell’attimo mi esplose letteralmente un sorriso.
Qualche settimana dopo fui riportata dal vecchio. Gli baciai le mani e stavo per chinarmi ai suoi piedi, ma lui mettendomi le mani sulla testa mi disse: “Da oggi tu ti chiamerai SUI, che vuol dire il Seguire. Il Seguire ha sublime riu­scita. Propizia è perseveranza. Nessuna macchia. Quando nasce un sorriso, na­sce un amore, ma, prima o poi, quello che è nato morirà. Quando un sorriso accade, un fiore sboccia, ma in quel caso, la morte non ne ghermirà mai il profumo, perché i petali, prima di lasciarsi andare giù in terra, avranno ridato al cielo tutto il profumo che avevano. Quel fiore non morirà mai, perché un profumo, un amore, lo sbocciare, è un segnale d’amore infinito che un fiore ha raccolto e trasmesso.”
Era un vecchio eccezionale: aveva gli occhi profumati, e la sua persona odorava d’incenso”.
Berescit, sorrise, annusò l’aria, fece un inchino, e mentre il sole era alto nel cielo, guadagnò la foresta...

 

 

 

18 – L’EMENDAMENTO DELLE COSE GUASTE

“La parola — disse Berescit — sia essa scritta che parlata, è scatenante”.
E poi tacque. Tacque perché rileggendo la frase “Ku l’Emendamento delle co­se guaste”, ebbe una strana impressione: quelle parole erano come una macchi­na fotografica, e lui era una montagna, una montagna volante…
… Era una strana montagne ricca di bagliori dorati e la cui forma era cangiante, come se una gigantesca mano la modellasse dall’interno. Volava altissima nel cielo, e le sue ali erano di vento. Aveva attraversato dei deserti immensi per tre lunghi giorni!. Era finalmente giunto alla fine di essi e, quando si fermò, una sconfinata distesa d’acqua apparve ai suoi occhi. “Che strano - disse - guardo quelle acque e perdo ogni consistenza, come se il mio sguardo, seguendo la sua traiettoria, facesse precipitare la mia portentosa forma nell’umido elemento. Devo stare ben attento, perché l’I Ching propone spesso questo tipo di giochini: quando meno te l’aspetti, muta il mutamento. Come dire, prima ti offre una tazza di tè, e mentre la stai per bere, te la to­glie da sotto il naso, così, per gioco”.
Improvvisamente una strana voce echeggiò: “Benvenuto alle grandi acque. Qui sei al punto zero: il tuo passato è tre giorni: il primo giorno si sente, il secondo si conosce, il terzo giorno si è. Adesso tu sei, sei il monte portato dal vento; ma sei pure l’acqua”. Berescit, la montagna, a questo punto non seppe resistere a una forza gravitazionale fortissima: attraverso il suo sguar­do, il monte fu risucchiato dalle acque. Quando giunse in prossimità di esse, fu cosciente della vera natura del proprio corpo: era un delfino. Ma una sensazione lo caratterizzava: sentiva, dentro di sè, una mano che lo modellava e che lo spingeva alla corsa e al gioco. E giocava correndo sott’acqua per riemergere più in là con un bel tuffo acrobatico. Il suo corpo era caldo e felice perché sentiva chiaro il moto della forza che da dentro 1o scuoteva. Correva già da un’ora, quando improvvisamente incontrò lo squalo Lorenzo:
“Ti ricordi di me? di quel giorno che m’hai dato una spinta e stavo quasi per cadere?” “Mi ricordo sì di te. Eri venuto a casa nostra per riprenderti tuo figlio, ma quando arrivasti incontrasti sua “madre”. Ti ho spinto, perché tu, forse per gioco, hai spinto, ma se questo ti ha creato problemi ti prego di perdonarmi. Anzi, se ciò può alleviarti un pò, ti prego di ridarmi, ora qui, una spintarella, ma, per favore, fallo per gioco e non per vendetta, se no domani qualcuno potrà nuovamente spingerti. E poi un consiglio: i figli a una certa età vanno lasciati liberi. Adesso ti lascio dopo averti manifestato tutto il mio affetto”. Gli dette un amichevole colpo di coda sulla pinna dorsale e andò dicendo: “Non stare nell’acqua per sempre; a soli tre giorni da qui vi sono le spiagge di sabbia bianca. E’ lì che io vado”. E andò. Ma dopo un pò di corsa e di salti incontrò un vecchio che appena lo vide gli disse: “Non essere triste per quello che fu: ogni cosa è un giro di ruota. Se quello che hai fatto ti ha fatto un po’ andare, non essere triste, perché ho portato dei pesi anche per te e per voi tutti: è stata una scelta assai ripagata da luce infinita. Adesso sto in acqua perché tu sei qui, e tu sei qui, perché io sto in acqua, ma in appena tre giorni sarai all’asciutto, delfino mio”. A Berescit scappò l’unica lacrima che aveva, ma per fortuna, in acqua la cosa rimase inosservata. Andò. Correva già da un bel pò quando incontrò una colonia di ostriche: “Buon giorno a voi danzatrici delle acque, quali onde vi conducono da queste parti?”
Disse la regina di esse: “Siamo compagne di viaggio e siamo venute a salutarti perché stai per attraversare metà delle acque. Ti siamo tutte grate e ti offriamo, in segno di affetto, queste perle” e gli misero sul muso una bellissima collana di perle. Il delfino corse via felice. Rimaneva ancora un giorno e mezzo di viaggio. Accelerò la sua corsa e dl conseguenza aumentò l’altezza dei suoi salti fuori dalle acque.
Per tutta la giornata non incontrò nessuno. Alla fine del terzo ed ultimo giorno si imbatté in quattordici tartarughe sedute in cerchio attorno ad un tavolo: “Come vedi siamo tutte a casa. Perché non ti fermi per prepararti un bel guscio?”
“A me piace giocare, correre, saltare. Sto per lasciare le acqua. Perché siete qui?”
“Siamo qui — disse una di loro — perché tu stai qui, ti diamo un’occhiata, ti seguiamo perché non sappiamo mai quello che puoi combinare. Adesso ti scorteremo fino alle spiagge di sabbia bianca, e poi…., beh, poi vedremo”.
Il delfino, scortato da quattordici tartarughe, riprese la sua corsa e i suoi salti. Era contento.
Un’ora dopo, quando spiccò l’ultimo salto insieme con le tartarughe, uno stormo di quindici gabbiani volò alto su una spiaggia di sabbie bianche”’.
“La parola — disse Berescit — è proprio scatenante. E’ molto meglio tacere:
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19 – L’AVVICINAMENTO (I)

Berescit rimase immobile davanti alla grotta. Mai nessuno aveva visto il viso di Tuikunn, ma per tutti era come un oracolo: ci si recava su in monta­gna, ci si metteva davanti all’ingresso del suo rifugio, si offriva qualche frutto ponendolo lì nel cestino delle offerte, e poi si formulava la domanda a voce alta.
Berescit aveva fatto tutto questo, quindi aveva pronunciato ad alta voce: “l’Avvicinamento”, e la voce cavernosa di Tuikunn non s’era fatta attendere: “Avvicinarsi a Lui attraverso l’altrui avvicinamento è come guidare l’automo­bile guardando solo nello specchietto retrovisore. Guarda dove metti i piedi!
Il Testo sacro è un dipinto che dapprima stimola il gusto del dipingere e dopo “costringe” a farlo. Chi si limita a “osservarlo” è come un affamato che osserva il piatto di pasta. Il Creativo nutre, i pennelli colorano, i maccheroni riempiono la pancia. Salta!” e, dopo un attimo di silenzio... “ma rima­nendo là dove sei. Stattene fermo, più fermo che puoi, ed il salto avviene”. Ancora un attimo di silenzio, durante il quale Berescit non poté fare a meno di esclamare: “Ma chi salta?”. Era un chiedere a se stesso, ma a Tuikunn non importava: a chi pronunciava qualcosa davanti “casa” sua dava sempre una rispo­sta: “non salta proprio nessuno, eppure avviene un salto”.
Nella mente del ragazzo si stampò l’immagine di un’onda che pur “saltando” a causa del vento rimane pur sempre un pezzo del mare, il mare. E poi l’immagine di miliardi di atomi che pur muovendosi ognuno per conto proprio alla fine andavano a formare un corpo, il suo, che aveva deciso di passeggiare davanti a quella grotta e di riflettere sulle parole del vecchio: io me ne sto qui - si disse - con tutta la mia illusoria folla di ego (mille onde) e Lui (il Mare) mi contiene pazientemente e amorevolmente, ignorando quasi questa mia apparen­te individualità frazionata. Ma come fa un’onda a smettere di credersi altro dall’oceano?... Che sciocco! E’ semplice: vive la sua vita di onda senza di­sperarsi del fatto di essere un giorno nata, di essere dopo cresciuta e di es­sere infine morta. Il mio corpo è una piccola onda terrestre, i miei sentimen­ti sono una piccola onda dell’aria, i miei pensieri una piccola onda dell’ete­re, la mia totalità un’onda infinitesimale dell’universo che essa riesce a con­cepire quale totalità, quale “oceano macrocosmico”. Onde su onde, movimenti incessanti di parti di un unico corpo, UN UNICO CORPO. Come potrebbe una ma­no sperare, solo sperare, di avvicinarsi al corpo che la alimenta? Come può un piede avvicinarsi al corpo di cui è parte inscindibile? Ecco perché l’avvicina­mento è un saltare da fermi e senza muoversi: esso è uno SCIOGLIERSI, un saltare in quel incredibile sconfinato anonimato.
Nella mente di Berescit continuavano a stamparsi immagini su immagini. Adesso era la volta di una grande orchestra: la sentì chiaramente suonare e si disse: “se quel violino ignorasse il resto dell’orchestra e si mettesse a suonare più forte degli altri, e se il trombone e il violoncello e tutti gli altri strumen­ti facessero lo stesso, non sarebbe possibile produrre quell' anonimo incredibi­le impasto di suoni. Se lo zucchero volesse continuare a essere tale, e l’a­mido e il latte ed il fuoco ed il cacao volessero ognuno rimanere se stesso, il budino non “avverrebbe” mai. SCIOGLIERSI, amare ogni cosa, fare in modo che il mio essere sia solo una piccola insignificante nota che contribuisce a far si che la sinfonia si manifesti. Se lo zucchero, improvvisamente, pensasse di rimanere tale e quale è, lì nel budino, non tutte le parti del budino sarebbero dolci: sarebbe una stonatura, sarebbe un salto sì, ma della mente.
Occorre umiltà. Ma per essere umili occorre coraggio, la più alta dose di coraggio possibile. E’ l’umiltà non del sentimentale che guardandosi dopo allo… specchio della gente dirà “o Dio come sono umile!”, ma quella dell’amato/a per l’amata/o: lo sciogliersi che dà origine al Noi, quel Noi che nasce, avviene quando un io e un tu si uniscono davvero. Qualcuno lo chiama Amore, ed è giusto. Poi vi è lo sciogliersi di un io e un voi che dà origine al NOI. Qualcun altro chiama questo AMORE, ed è vero.
Quando avvengono queste unioni il violino, pur cantando l’assolo, tace; quando ciò avviene, ogni strumento, pur suonando, smette di essere uno strumento che suona: è il tutto che suona, è l’orchestra”.
Berescit pensava così, quando improvvisamente sentì la voce del vecchio Tuikunn tuonare dalla grotta: “Adesso, ragazzo, volta pagina perché l’orchestra è una nota, un’umile nota del coro d’orchestre, e dopo questo coro d’orchestre sarà pur sempre un’umilissima nota del coro del coro...
Ti dico in confidenza questo: sarebbe meglio che tu non dicessi niente, che tacessi, che non suonassi nemmeno una nota; ed allora entreresti nel regno del silenzio e con te sarei costretto ad entrare anch’io. Taci dunque!” Berescit tacque e smise di passeggiare davanti a quella grotta. Rimase per un po’ immobile, e quando ogni suo senso si sciolse, un’orchestra di silenzi prese a suonare più alti silenzi.
A quel punto il ragazzo scosse la testa come fa il cane uscito dall’acqua , e a voce alta disse: “Il budino non è ancora pronto, sarà pronto nel venti: la Contemplazione”.
Esagrammi su esagrammi, ecc. ecc.

 

 

19 – L’AVVICINAMENTO (II)

Nel bel mezzo dell’isola del fuoco, fra le pianure di Egon e Segon, la città di legno mostrava tutte le sue cortecce
al sole cocente del mezzodì.
Quel giorno, grazie all’aiuto dei quattro perfetti, Berescit e Shekinà vi erano giunti dopo un lungo e avventuroso viaggio.
Dalla parte della pianura di Egon, nella parte bassa di un esteso massiccio montuoso che la limitava, un’enorme distesa levigata di marmi rifletteva una schiera di combattenti che credeva di vedere nell’immagine riflessa un eser­cito nemico. La paura li teneva inchiodati là: erano secoli che si  fronteg­giavano.
Dal lato opposto, dalla parte della pianura di Segon, un infinito silenzio era la voce costante dell’Uno: ogni cosa ed ogni essere era consapevole di sè e del fatto che lì non erano in tanti, ma Uno. Ogni cosa era vera, viva.
La città di legno era abitata da un solo uomo, Tloì, e da 1.000 Paròm. I Paròm erano degli uomini-tempo, la cui età media variava fra i pochi secondi e i tre anni. Ovviamente comandava Tloì, ma quando i Paròm si riunivano e decidevano di operare in massa, divenivano potenti, anche se molti, a causa della loro breve esistenza, si dissolvevano sotto gli occhi degli altri più longevi. In effetti i Paròm erano figli di Tloì, dei figli indesiderati. Durante gli anni della sua giovinezza egli aveva giocato un po’ troppo con la sua mente e con essa era riuscito a creare un vero e proprio popolo di esseri dall’aspet­to quasi umano.
Ora avvenne che un giorno Tloì se ne stava ai confini della propria mente quando vide nel cielo del suo mondo due punti di luce che avvicinandoglisi, diventavano sempre più luminosi.
Adesso la città era lì, avvolta da queste luci dentro un infinito spazio mentale. I Paròm cominciarono a lasciare ciascuno la propria abitazio­ne e piano piano andava formandosi una gran folla: insieme si sentivano più sicuri di fronte alla minaccia delle avanzanti luci, le quali, poco dopo, assunsero l’aspetto di due esseri solari.
Tloì rimase affascinato dalla bellezza e dalla potenza che emanava dal loro essere: “Noi — dissero — siamo i tuoi due veri figli. Quella folla di apparenze vorrebbe possedere la nostra essenza per essere forte, ma nello stesso tempo non riesce a sopportare la nostra vista. Fra poco si avventeranno famelici, ma non saremo noi a dover soffrire: tu lotterai, perché noi e loro insieme, in te non possiamo convivere. In passato hai creato proprio un eser­cito agguerrito e adesso, in questo momento, ora che hai attirato noi nella tua orbita sarai attaccato dai tuoi stessi mercenari. Quei tuoi fantocci potremmo finirli uno a uno, ma siccome sono una folla, fra poco diventeranno un unico grosso essere. Solo allora noi li combatteremo. Quando tu ci hai attirati qui, con i tuoi occhi hai costruito un ponte sull’abisso: una strada di fuoco collega adesso te a Quello. Ma le vere artefici di questa tua realizzazione sono le tue ultime nate: esse non sono figlie della mente ma del cuore. Una è Gnosài, l’altra si chiama Eroìs. Anche se tu, adesso, le sacrificassi per noi, anche se le dessi in mano alla folla per rinsavirla, non risolveresti il proble­ma: quella gente va eliminata, bruciata, perché tu ci hai accolti in te e ci hai preparato da mangiare un alimento che mancherà a loro; ecco quindi come necessariamente noi vivremo e loro dovranno morire”.
Improvvisamente la folla divenne un grosso drago nero dalle ali approssimative. Sputava fuoco e dimenava una lunga coda e volava minaccioso sopra la città di legno.
I due esseri luminosi si scagliarono alti nel cielo come due meteore. Il drago lì seguì, ma le due sfere di fuoco invertendo improvvisamente direzione si conficcarono nei suoi occhi facendolo esplodere. Una massa di fuoco precipitò sulla città di legno provocandone l’incendio.
La vecchia città poco dopo divenne una landa di cenere che faceva di due pianure un’immensa spianata, mentre il massiccio montuoso con la sua distesa di marmi levigati precipitava in una voragine con tutta la schiera di vecchi guerrieri.
Una scala di luce collegò quel punto al cielo, mentre la voce dei due esseri luminosi diceva: “Sali, ma non andare altissimo: ogni città è le valle di quella seguenti. Non voltarti mai indietro per la fine che folle di apparenze faranno. Abbi cura della tua discendenza, fai così: inebriati di vero e lascia­ti vivere dalle tue figlie Gnosai ed Erois. Stai or con l’una or con l’altra, riempiti di loro, fatti da loro riempire”.
La scala scomparve ed al suo posto apparve un’enorme distesa di girasoli che, in poco tempo, riempì l’oramai unica pianura, la pianura di Es. Al centro del­la sconfinata distesa di girasoli vi era una quercia secolare il cui tronco era d’oro ed i cui rami brillavano come diamanti al sole.
Un assordante ronzio attirò l’attenzione di Berescit e Shekinà: milioni di mi­lioni di insetti, volteggiando sui girasoli, parlavano ronzando: “Salute a voi conoscitori; la pace del luogo santo vi riempia fino alle stelle”.
“Chi siete?”.
“Noi siamo la storia — disse il ronzio, mentre lo sciame d’insetti assumeva la forma di aquila — siamo la storia che avete appena ascoltato; siamo una penna che scrive, un’immagine mentale, un fiore, un albero; siamo Tloì, Parom; siamo il silenzio. Siamo tutto quello che c’è e tutto ciò che non c’è; quello che fu e quello che sarà. Siamo quello che non sarà mai. Noi siamo colui che gioca con noi; siamo l’eterna certezza dell’essere eterno; siamo l’aquila bianca, una quercia, l’antica città. Noi siamo persino le prossime frasi a noi sconosciute: è il gioco più bello del mondo. Il nostro ronzio vi ha raccontato e fatto vede­re il mistero del centro più basso, allorché da lì la corrente sale alta verso la vera città, verso la Gerusalemme di luce che accoglie Israele. Siamo la vi­sta di ogni cosa, un occhio infinito. Quel campo di girasoli non finirà mai di sbocciare, come mai finirà il nostro ronzio, perché oggi ve lo porgiamo sbattendo le ali, domani ve lo passeremo in un cane che abbaia oppure in un uomo qualunque. Noi siamo la musica nascosta in Tloì, le penne dell’aquila bianca, il vostro ascoltare, il nostro ronzare.
Salute a voi conoscitori. La pace del luogo santo vi riempia fino alle ossa per sempre. Possa la pelle che con amore vi avvolge lasciarvi passare. Possia­te andare oltre l’involucro santo per essere aquile sante. Possiate voi essere fuori al più presto, ma non con il corpo leggero per mondi leggeri. Possiate essere l’eterno infinito che in voi, da voi, per voi guarda le infinite forme di Se stesso. Che bisogno c’è di portar dentro tutto quello che è fuori? Non esiste ascia che possa spaccare il legno dell’Uno”.
E si posarono tutti insieme sul campo di girasoli in una pioggia di ali.

 

 

 

20  LA CONTEMPLAZIONE

La tenda del principe Mailì era stata piantata sulle sabbie calde del deserto dei datteri mille anni prima che nascesse suo nonno Faràl.
Erano oramai secoli che il principe abitava lì, ed aveva scelto quel luogo perché, agli inizi del suo tempo, gli era stato detto che fra quelle sabbie avrebbe incon­trato il padri dei padri.
La tenda era preziosa perché fatta di lamine d’oro, ma in un deserto di sabbie dorate il suo valore veniva confuso, anzi diventava insignificante. All’inter­no di essa, proprio al centro, vi era però un vero tesoro costituito da un pozzo, il pozzo infinito. L’aveva chiamato così, perché seicento anni prima vi aveva gridato dentro e non era mai ritornata alcuna eco: era senza fondo. In esso non vi era una sola goccia d’acqua, eppure il principe si dissetava regolarmen­te, anzi spesso, per via di una sete propria di chi è stato sfiorato dal Fuoco Perenne; di una sete prosciugante, martellante. In esso la sua anima riusciva a placarsi, seppure per brevi momenti.
Berescit e Scekinà dopo due giorni di volo giunsero sopra il deserto, ma strana­mente non riuscirono a scorgere una sola palma. “Perché mai — si chiesero — vie­ne chiamato il deserto dei datteri?” L’avrebbero chiesto al principe Mailì al tramonto, appena cioè, col sole molto inclinato, avrebbero potuto scorgere l’ombra della tenda.
Quando più tardi la videro, si portarono giù. Il caldo era intenso ed era quasi impossibile tenere i piedi su quella distesa di polvere d’oro. Si portarono sotto il parasole all’ingresso della tenda e proprio lì videro un tavolinetto con sopra un vaso con una palma nana che portava un solo dattero.
Pensando che era conveniente rivolgere un rispettoso saluto al principe, i due ragazzi, volgendo la voce all’interno dissero: “Andiamo a spasso per il mondo in cerca di santi e di grandi. Lunga vita a sua altezza, principe Mailì. Il gran­de silenzio sia sempre con vostra Grazia”.
“La pace sia con voi, amici miei — rispose da dentro la voce — siate i benvenuti in questo deserto. Accomodatevi. Sarete miei graditi ospiti per tutto il tempo che vorrete”.
I ragazzi entrarono. Il volto del principe era buono. Due oc­chi grandi in un viso abbronzantissimo. Un copricapo giallo ed una tunica gialla con cintura rosso chiara. Sandali gialli con cuciture e lacci rossi. Ma la cosa che più colpì Berescit e Scekinà non fu tanto la figura del principe, quanto in­vece l’interno della tenda: non esistevano pareti, niente volta. Si vedeva solo un muro di pietre non più alto di un metro che si perdeva a sinistra e a destra.
“Molte cose qui sono strane principe Mailì — disse Berescit coinvolgendo Scekinà che aggiunse: — intanto il nome del deserto, poi la sabbia, la tenda, il pozzo, la tua solitudine”.
“Perché la vostra mente — miei cari — ha posto tutte queste domande? Non vi basta esservi trovati in un posto bello come solo nelle favole vere è possibile trovare? A che cosa vi servirà mai sapere tutte queste cose? Quello che conta è che qui c’è un pozzo a cui tutti quelli che mi vengono a trovare possono attingere. Non penserete di sprecare il vostro tempo per chiedere al pozzo, vero? Vi dirò sola che quel muro là è il parapetto del pozzo infinito: la tenda non può avere dimen­sione perché contiene un pozzo senza dimensione. Non tutto quello che è limitato all’esterno ha limiti interni: il varco che sta fra verbo e silenzio è un “luogo” infinito, un abisso. Ma adesso vi prego di assaggiare i miei datteri...” Rac­colse il frutto, l’unico frutto che c’era e lo porse a Scekinà. Nel momento in cui lo raccolse avvenne una cosa stranissima: un altro dattero rispuntò nella piccola palma, e la cosa si ripeté quando ne prese altri due, uno per Berescit e uno per sè.
“Come vedete — disse — quest’alberello porta sempre un solo frutto, ma non si esaurisce mai. Esso mi è stato regalato dal… pozzo il giorno in cui gli ho... (e guardò divertito i due ragazzi) giurato eterno amore”. Aspettò la reazione dei due giovani, che dapprima contennero e poi esplosero la loro risata: “Scusaci principe Mailì, ma la tua voglia di ridere ci ha influenzati più delle tue parole. Sappiamo benissimo che qui tutto è simbolo, tuttavia vorremmo che fossi tu a chiarire la cosa”.
“Vi sto solo mostrando ciò che nessuno mai ha potuto mostrare: l’archetipo, se così si può dire, dell’anima: il pozzo, la smisurata interiorità dell’uomo. L’anima è sorella perché è figlia dello stesso padre mio, ma essa non è figlia di mia madre: madre natura. Essa è direttamente nata da mio padre per precipitazione. Dapprima non la conoscevo ed era sorella estranea; ma appena l’ho scoperta, appena lei ha scoperto me, siamo diventati una cosa sola, la cosa unica. Adesso siamo marito e moglie e nessuno mai potrà separarci. Ho affidato il suo profumo, o meglio il suo profumo è stato affidato a...” e indicò con la mano... poco più avanti comparve una donna bellissima.
“A coloro che scoprono la loro anima, è dato vederla nella loro compagna, nella gemella, nella sorella. Ragazzi, vi presento la mia dolce metà, il suo nome è Eh. Cosa vorreste chiedere?” e sorrise.
“Il nostro Budda s’inchina al tuo Budda, principe amico. Sarebbe bello in que­sto momento levare la tenda e tutti confondersi nel tutto, per divenire un poz­zo infinito più grande del pozzo infinito. Levare la tenda è allargare la tenda, è morire per sempre ai deserti e alle cose. Levare la tenda è offrire all’altare se stessi. Tu principe Mailì ci hai mostrato la radiante potenza dell’Uno che essendo solo Se stesso, bruciando, E’. Ma essendo se stesso e girando (come una torcia ruotante) occupa tutti gli infiniti spazi. Sapere di essere torcia e non cerchio vuoi dire essere Budda, uno che sa di essere un puro riflesso del fuoco”.
“Le vostre parole di fuoco — figlioli — mi fanno un gran bene. Oggi noi leveremo le tende. Voi sarete i nuovi guardiani del pozzo infinito. Il dattero è vostro: esso è cibo solo per chi è rinato; se un fuoco fatuo ne raccoglie il frutto, questi non si riprodurrà più. Fatevi la vostra tenda spaziosa e larga, e ponetela laddove c’era questa. Che la luce infinita piova su di voi fino a sommergervi e farvi scomparire così come noi. Adesso vi preghiamo di uscire. Addio fi­glioli”.
E mentre i ragazzi uscivano la voce del principe Mailì echeggiava: “prima la ten­da, qui, nel deserto. Dopo, in essa, il pozzo”.
Scomparsa la tenda, il principe, Eh ed il pozzo, nell’immensa distesa di polvere d’oro rimasero solo due ragazzi ed una piccola palma con un solo dattero.
Era un nuovo giorno.

 

 

 

21  IL MORSO CHE SPEZZA

- Il morso è il primo atto del processo nutritivo. Se mordi qualcosa senza spezzarne una parte, il nutrimento non può avvenire. Ecco perché è detto il morso che spezza ha riuscita.
- “Dar corso alla legge” vuol dire non lasciare la frase “il morso che spezza ha riuscita”come una vuota norma scritta che tale rimane, ma dargli corso, cioè attuarla
- In immagine ciò è reso con il tuono e il fulmine: l’uno segue sempre l’altro L’attuazione della legge è il tuono, la legge è il fulmine.
Questo è il morso che spezza, disse Berescit all’aria che lo circondava.
Devi essere in grado di correre subito ai ripari nel caso in cui non riesci a spezzare, cioè a nutrirti. Devi essere rigido con te stesso, inflessibile: la legge è la legge e va necessariamente applicata. Nel caso in cui non riesci a mordere l’esagramma e a spezzarlo in bocconi per nutrirtene, rimarrai arido come un deserto, ingiusto come chi ignora la legge, vuoto come una canna di bambù, sconfitto come un re disubbidito.
Berescit tacque e cominciò a seguire il volo acrobatica di due colombi bianchi che segnavano nel cielo delle traiettorie circolari: giravano attorno ad un punto nello spazio come due elettroni nell’atomo.
Li seguì per un po’ in silenzio fino a quando, in picchiata, i due si posarono ai suoi piedi:
“Siamo Sci — Ho” dissero in coro, “tu chi sei?”.
“Sono Berescit e sto consumando un pasto eccezionale. Volete farmi compagnia e mangiare con me?”
“ Sì, dissero in coro Sci — Ho, siamo felici di accettare, nonostante abbiamo consumato il nostro pasto attorno al punto”.
“Cos’è il punto”, chiese Berescit.
“E’ un punto qualunque dello spazio—tempo su cui dirigiamo tutto il nostro amore: esso è il Luogo di Dio, il suo tempo, come un altare, costringe alla essenza, manifesta la divinità. Il nostro amato girare ne è testimonianza. Ma dì un pò, tu intorno a cosa giri, qual’è il tuo punto?”
“Il mio punto sono vecchie parole cariche di millenni di età, attorno a cui hanno volato i cercatori del punto dei punti. Io ho provato dapprima a fare un pò di giri, ma, ‘creato’ il punto, mi sentivo distante da esso, lo vedevo lontano nonostante un raggio d’amore mi legasse a ‘lui’ e mi costringesse ad una precisa orbita. Poi decisi di volarvi dentro, e l’unico modo per farlo era quello di mangiarlo. Voi siete arrivati mentre mi accingevo a farlo, ma... e qui non mi crederete…., la cosa più bella è che voi due siete parte del pun­to come io lo sono per voi. Se non fosse così saremmo delle cose irreali, in­vece siamo veri perché consci di essere parti del punto”.
“Il tuo cibo è buonissimo e ce n’è in gran quantità. Il nostro parlare sarà un suo nutrimento, un sapore manifesto, un canto d’amore. L’amore non è percepibile che attraverso i suoi effetti. Ebbene, come una linea è l’effetto di un punto che va, così la nostra parola: sarà il profumo di un fiore, uno sguardo d’amore, un raggio di sole che va senza meta; un morso che spezza ti spezza piano piano fino a che dimenticherai di essere sole: mille, centomila raggi di luce ti “disperderanno” negli infiniti spazi ed il tuo andare sarà un essere lì oltre i tuoi limiti. Il calore andrà su qualcosa come luca. Che pranzo eccellente il nostro!”
“Invero, Sci — Ho, siete un punto del punto dei punti, una parte spezzata da un morso che ripete se stesso nell’eterno nutrire.
Il punto dei punti, Sci — Ho, si nutre di voi perché voi vi nutrite di esso. Dietro ogni vostra soffice penna e piuma si cela un silenzio che spez­za ogni cosa. Il morso che spezza è un silenzio infinito che addenta la vita e si nutre di essa tradendo se stesso cantando.
Amore è la vita di un canto, il profumo di un fiore, l’essenza di ogni illusione. Inafferrabile Amore! Una carezza non è amore, ma viene da esso. Un fiore non è amore, ma viene da esso.
Voi, Sci — Ho, non siete la fame, ma il morso che spezza. Voi siete un ma­gico effetto d’amore, un cibo divino che nutre qualcosa che è amore e che si manifesta in un corpo.
Il Regno, il Malkuth, è un morso che spezza, un raggio di luce, un effetto d’amore, un punto, ma… non il punto dei punti.
Il sole dei soli è amore, silenzio.
Io e voi siamo un piccolo tuono di un piccolo fulmine, una piccola immagine di un grande silenzio; un piccolo morso che spezza, Sci — Ho”’.

 

 

22   PPI – L’AVVENENZA

Quando glielo avevano detto non ci aveva creduto, ma nel momento in cui gli fu davanti dovette arrendersi ai fatti: il cavallo parlava.
Per incontrarlo si era spinto lì, oltre il deserto, nella foresta di salici, in groppa al suo cammello Zuà. E fu proprio quando le scorte d’acqua erano oramai finite da un pezzo che scorsero in lontananza l’immensa foresta di salici, in cui si inoltrarono dopo l’ultima faticosa marcia.
Una gradevole frescura li accolse, ma già prima di penetrarvi Berescit si era accorto della ordinata disposizione in filari degli alberi.
In effetti, se avesse potuto vedere dall’alto, avrebbe visto come un enorme occhio stranamente vivo, il cui centro era costituito da un laghetto, nel mez­zo del quale, da una roccia, scaturiva una sorgente d’acqua.
I filari, dunque, erano disposti come a raggiera e Berescit, percorrendo uno di essi insieme con il suo stanco cammello, era giunto poco dopo alla sorgente. Bevvero abbondantemente, quindi si sdraiarono all’ombra di un salice e si addormentarono.
Dopo alcune ore di sonno profondo, i nostri due amici furono svegliati da una voce che pareva uscisse da una caverna: “Chi sei ragazzo? Perché sei qui? come hai fatto a vincere il deserto?... Il mio nome è White. Chi sei?”
“Mi chiamo Berescit, e sono qui per te, volevo vederti, parlarti. Questo è il mio amico Zuà. E’ stata la voglia di incontrarti che mi ha fatto vincere il de­serto, ma anche la pazienza e la robustezza del mio compagna di viaggio. Vorrei che tu mi parlassi di te, White”.
“Sappi, allora, ragazzo, che non sempre sono stato un cavallo. Tanti, tan­ti anni fa ero un mercante. Esercitavo regolarmente il mio commercio e gli af­fari andavano bene. Passavo le ore di riposo in famiglia fra l’affetto dei miei cari. La mia vita trascorreva serena e normale, fino a che, un giorno... Un giorno, un mio vecchio amico, dalla Cina mi portò in regalo un libro, uno strano libro. Fu da allora che la mia vita cambiò. Già appena me lo diede avvertìi come un’atmosfera di sfida simile a quella che, bambino, provavo davanti a un compagnetto dispettoso e prepotente. Non era un libro normale. A dire il vero, tutti i libri contengono l’atmosfera astro-mentale dell’autore, ma in quel­lo c’era qualcosa di più, come se in esso fosse contenuto l’autore in carne ed ossa; tanto che, fra lo stupore del mio amico (evidentemente lui non avvertiva tutto questo), chiesi al libro: “chi sei?”, e subito dopo nacque in me la rispo­sta: aprimi e lo saprai. Aprii il libro a caso ed a pagina 39 vidi uno strano simbolo; poi lo richiusi e ne lessi il titolo: I KING, Il Libro dei Mutamenti. Capii subito: era come la rappresentazione grafica di Adamo caduto con tutti i suoi aspetti. Un Adamo da conoscere. Pensai questo, nonostante mai avessi pen­sato alle cose della spirito. Ma ciò non mi impedì di vedere in esso, anzi, in Lui, l’incarnazione del mutamento, il mutamento in persona.
Lo aprii a caso una seconda volta e lessi: PPI — L’Avvenenza. Avvenenza ha riu­scita, in piccolo è propizio imprendere qualche cosa. Rimasi pensieroso per un pò, nella vana speranza di capire quello che mi stava dicendo, ma ciò mi riu­sciva impossibile, perché era come voler far ritornare in vita un morto: le parole da lui dette mi penetravano, venivano da me masticate, e mutavano subi­to in qualcosa d’altro che mi sfuggiva, ed il MUTAMENTO era l’unica cosa che ri­maneva lì, quasi palpabile, come l’unica, vera certezza. Ebbi l’impressione di trovarmi di fronte ad una sottilissima sostanza mentale in continuo movimento, ad una voce in continuo canto che ti faceva appena intuire, e non vedere, il cantante. Ma nello stesso tempo era uno specchio che ti rimandava tutte queste cose insieme, cioè i vari aspetti del tuo indefinibile, ma certissimo Essere.
Da quel giorno, piano piano cominciai a perdere la mia identità mano mano che i miei colloqui coll’I King si fecevano sempre più serrati; come se ad ogni sprofondamento in esso, la mia mente venisse inghiottita dal libro, il quale, nello stesso momento, mi sfidava come un essere momentaneamente privo di mente, ma pieno di qualcosa d’indefinibile, qualcosa che assomigliava ad un silenzio pettegolo, qualcosa di paradossale che mi faceva vedere il mondo non con i miei occhi, ma con gli occhi del mondo.
Più leggevo e meno mi interessavo  dei miei affari, che piano piano si spensero completamente. Poi mi allontanai anche sempre più dalla mia famiglia, e dai miei mi sentivo sempre più spesso dire: “Sei peggio di un cavallo selvaggio, sembri mezzo matto, fai le cose più strane come fossi un bambino sempre intento a giocare, hai perso ogni serietà”. Ed il guaio era che mi sentivo perfettamente come loro dicevano: un cavallo selvaggio. Insomma mi ero completamente dimen­ticato di me perché mi ero reso conto di non avere mai avuto un “me” invariabile nel tempo, e che l’unica cosa reale e immutevole era invece il mutamento che mi ac­compagnava ad ogni istante di esistenza; un mutamento che mi svuotava di ogni illusoria apparenza e che mi lasciava sempre più pieno di silenzio chiassoso.
Adesso, ragazzo, sono White, in questo momento sono un cavallo bianco che sta alla sorgente della foresta di salici, ma per quanto tempo lo sarà ancora non so, perché il libro mi incalza implacabile, inesorabile; né vale a qualcosa chiuderlo ed ignorarlo: te lo ritroveresti in ogni attimo di esistenza, perché il suo contenuto è anche un contenente, il contenente. Anche tu ne fai parte.”
“Dimmi White, c’è un ultima mutamento?”, chiese Berescit.
“La gente, figliolo, confonde spesso il Tao con la manifestazione di esso.
Il Tao è il non mutamento, questo.

 

 

23  - LO SGRETOLAMENTO

Quella mattina, Berescit si trovò davanti a una strana porta.
Le due ante di legno erano costituite da cinque tavole parallele sospese nel nulla, e da una sesta in alto da architrave.
Un senso di paura gli impediva di entrare, perché aldilà di essa vi era il vuoto, il nulla assoluto, e chi avesse varcato quella soglia si sareb­be annientato, sgretolato in essa. Né era da prendere in considerazione la vocina interiore che gli suggeriva di considerare la cosa come scala anziché porta: in che modo avrebbe potuto scalarla, se tutti i pioli erano segati a metà? Senza considerare il fatto che, ante o pioli, il problema fon­damentale rimaneva: la struttura non aveva alcuna solidità.
Berescit ignorò anche la voce di Pat, la quale, come un pungolo, lo spingeva: “Se non entri o non sali in qualche modo, non lo penetri, e perdi la sfida”.
Non gli importava niente di niente. Stette in attesa….
Finalmente una prima idea lo assalì: bastava aggiungere un piolo (che avreb­be potuto chiamare “piolo della misericordia”) lì in basso, e la cosa era fatta. Ma la voce di Pat lo scoraggiò subito: “Sconfitto!” Ma sconfitto da chi, da cosa, perché? E poi, cosa avrebbe mai potuto vincere? Ogni vittoria presuppone un nemico o comunque un concorrente, quindi fatti e non chiacchiere.
Una seconda idea gli balenò: fatti nulla e osserva la cosa da lì. Ma ancora una volta la vocina sorniona di Pat: “Lì... dove?”.
Seguì un gran silenzio che tuttavia non era “nulla”: c’era qualcosa che ren­deva la vicenda percettibile, e cioè l’attesa di ciò che avrebbe trasformato nel nulla il silenzio, vale a dire quel tipo di morte che fa vero uomo l’es­senza del cadavere. Alcuni, pensò Berescit, riescono a sorridere da morti mentre sono in vita. Da lì il passo per una nuova massima fu breve: i vivi non morti piangono; i morti vivi sorridono.
Quest’ultima idea gli parve buona. Rimase così in attesa.
Quando, poco dopo, l’attesa finì, cominciò il nulla; ma cominciarono pure i guai per il nostro Berescit: non vide più la porta: tutta l’apparenza del­l’essere, trasformandosi in quella porta, assorbì ogni mondo, ogni universo, ogni altro aspetto, e per burla parlò a se stessa: sono un aspetto e m’aspet­to di tutto. Ma echeggiò subito una risata, la sua, perché, esistendo solo essa, sapeva benissimo di non potersi aspettare niente al di fuori di se'.
Era proprio un’idea da scartare…
Altra idea:
La cosa in se stessa è in sgretolamento e comincia a vivere la sua par­te per noi qui ed ora: il sogno ad occhi aperti che ci fa vivere il segno comincia ad essere sgretolato dalla interpretazione che di esso si sta fa­cendo: le prime parole sono gli inferiori su cui poggeranno le parole e le immagini successive; i perseveranti vengono annientati, cioè le cose dette vengono “finite” dicendole (ad ogni nascita corrisponde una morte); ecco perché sciagura: da ogni inizio parte una fine che lo stesso inizio rincorre fino a confondersi in essa e scomparire. E più se ne parla, più il letto (il sogno) la cosa, viene sgretolata; anzi si sgretola perché trattasi di un so­gno che interpreta un sogno.
Qui Berescit fece una pausa di riflessione, e senza accorgersene, pensando ad un suo personale impegno per il pomeriggio, stava dando vita alla terza variante: egli si sgretola da essi, nessuna macchia.
Ma subito dopo venne riassorbito dal sogno e si sentì accapponare la pelle: il sognatore stava per essere attaccato dal sogno per essere assorbito e sgretolato. Questa volta toccò con mano la sua “sciagura” in itinere.
Il sogno stava cominciando a dare i numeri..., ma no, è semplice, si disse: i sensi (le dame di palazzo) seppure senza coinvolgimento, riprendono il sopravvento sulla schiera di muti pensieri (i pesci). Tutto è propizio: nonostante la cosa si stia inesorabilmente sgretolando, si apprende ancora una volta l’eterna lezione della vita: sotto il cielo tutto è caduco. Qui, l’esagramma resiste ancora (linea intera: un grosso frutto non ancora mangiato), vi è qualcosa da sgretolare: è il futuro (linea intera che sta per essere spezzata dal basso) ancora da vivere. La carrozza del nobile è il tempo che il sognatore ha ancora a disposizione per percorrere l’ulti­mo tratto di sogno. E’ proprio qui nella sesta linea che sta il nocciolo del problema: il nobile, se saprà vivere lo sgretolamento, otterrà qualcosa in premio (l’esagramma 24); mentre l’ignobile, non sapendolo vivere, assisterà alla lacerazione della sesta linea da parte di una forza che viene dall’alto; come se qualcuno lo colpisse da sopra.
Lo sgretolamento si era dapprima presentato, dopo aveva recitato la sua parte servendosi di Berescit; ed infine era rientrato nel silenzio assumendo l’aspetto di una pausa musicale in quella divina sinfonia che è la vita scritta sulla partitura dell’I Ching.
Berescit aveva ancora una volta tentato di afferrare il Direttore d’orchestra, ma si era reso conto di essere ricaduto nel solito paradosso di chi lancia il grido e poi lo rincorre per riacchiapparlo.
A questo punto non gli rimaneva che cantare:

Lo sgretolamento mi ha sgretolato,

eppure rimango.

Un attimo fa non ero chi parla:

è morto qualcuno che ero;

eppure rimango.

Lo sgretolamento mi ha solo sfiorato la pelle,

come un odio innocente—incosciente

accarezza chi ama l’odiante.

Chi ero un attimo fa?

una foglia caduta;

eppure rimango.

Ogni istante è primavera e autunno:

foglie che vengono e vanno sull’albero eterno.

Cos’è che rimane di me seppure mi sgretola il tempo?

Cos’è che s’espande di me seppure mi scioglie lo spazio?

Cos’è quel sole che immoto mi vede girare, e mi gioca

e osserva da ogni mio senso? cos’è che non tocca l’I Ching?

Chi è che gioca muovendo esagrammi che muovono me?

Lo Sgretolamento mi tocca, eppure rimango.

E quando dai sensi del corpo nessuno mai più guarderà,

verranno altri occhi, altri sensi,

per sgretolamenti su sgretolamenti...

Eppure…. Rimango.

 

 

 

23  - LO SGRETOLAMENTO
BREVE DIALOGO FRA DUE SORDI

Entrano due strani personaggi ciascuno con un libro rosso in mano ed una cuf­fia alle orecchie. In scena vi sono solo due sedie. Una musichetta ironica accompagna il loro strano modo di fare; appena entrati posano il libro sul­la sedia e ciascuno butta in aria una sola moneta. Dopo ogni lancio, ciascuno va alla lavagna in fondo alla scena per tracciarvi una linea senza senso (un pò curva, un pò ondulata) per poi andare ad aprire a caso il libro rosso e leggere l’uno all’altro.
1° lancio: A compie tutte le operazioni descritte e poi aprendo il libro a pagina 141 (nove sopra) “Ecco un grosso frutto non ancora mangiato. Il nobile riceve una carrozza. All’ignobile si sgretola la sua casa.”
(Fissa l’altro e gli dice in maniera più marcata): Ho la sensazione di avere un vaso pieno di fiori e non poterlo poggiare su nessun piano.
Oppure avere una pera, ma non poterla mangiare per mancanza di denti.
Oppure ancora, come se avessi una gran voglia di correre e non poterlo fare poiché mi manca la strada sotto i piedi (mima una corsa da fermo con due, tre alzate di ginocchia).
Poi si ferma, raccoglie la monetina, prende in mano il libro rosso e si siede tacendo. Quindi si alza B. Fa le stesse operazioni di A e poi apre il libro a pag. 141 (sei al quinto posto) legge:“Una schiera di pesci. Mercè le dame di palazzo viene favore. Tutto è propizio.”
Sono un delfino in cerca del1’onda. Poi sono un’onda in cerca di una costa. Quindi sono una spiaggia in cerca di mare. (Pausa) ...mi sono perduto!
Ma… tu… mi vedi?
Ovviamente ognuno non sente l’altro e pertanto ignora l’altro.
Dopo un paio di lanci (sei all’inizio e sei al terzo posto):
A: sono un letto. Dimmi, come fa un letto a dormire? se gli si sgretolano le gambe? Tu come fai a dormire se non sei un letto?
B:   mi sento metà di qualcosa, ma cosa?
Entra C, toglie le cuffie prima ad A e gli sussurra qualcosa, poi lo stesso fa con B. Quindi toglie loro le monete, ne aggiunge una sua e le lancia sei volte. Va alla lavagna, cancella tutti gli scarabocchi, e vi disegna mano mano due trigrammi. Dopo ogni trigramma che rappresenta un perso­naggio (A e B) i due personaggi fanno un inchino di presentazione al pubblico.
Finalmente i due si stringono la mano.

 

 

24  - IL RITORNO

Berescit e l’esagramma, uno di fronte all’altro, stavano li da un po’. Regnava un gran silenzio che li riempiva entrambi…
Alla fine l’esagramma non seppe contenere la gioia del vuoto e, come un temporale improvviso, proruppe: “IO SONO il La che mi scuote e ti scuote. Tradisco il silenzio per amore. Tradisco l’amore per l’amore. Tradirò persino il tradimento. Avrei voluto tacere più forte questo infinito silenzio, e mi sono mosso; mi sono vibrato, ricomposto. E rimessi insieme i miei cocci, per vanità, mi canto.
Se qualcuno mi osserva, io muto, devo mutare. Ed ecco l’ennesimo mio modo di essere: spezzetto l’anima mia in sei parti (sei ottavi) con te.
E’ come fare cin—cin, ma nessuno mai potrà manifestare completamente la gioia che sta al di là del canto dei cristalli.
Il calice è pieno di TAO, e pur dissetando, nessuno lo beve: cin-cin!

 

 

 

 

27  - ALIMENTAZIONE

Anna:     Ha un antipasto buono nel cestino, ma ce lo fa vedere da lontano, è un mondo di sapori, ma va piano e ci costringe a starcene a digiuno.

              L’antipasto c’è, l’antipasto c’è, oggi è domenica, si mangia olè!

Angela:  Chi versa l’acqua tempera le mura di legno che la tengono legata, è una matita già bene appuntita ma che continua la “temperatura”.

              L’acqua fresca c’è, l’acqua fresca c’è, oggi è domenica, si beve olè!

Cinzia:    Lei crede di cercare ed è cercata un po’ come la luce e l’eremita che cerca ciò che porta: una “frittata” che se non va mangiata va perduta.

              La frittata c’è, la frittata c’è, oggi è domenica, si mangia olè!

Elena:     Ha una boccetta carica di luna, due gocce e vai per una settimana senza toccare cibo. E’ un toccasana che non svapora: ‘na vera fortuna.

              L’elisire c’è, l’elisire c’è, oggi è domenica, si beve olè!

Vitt.:      C’è chi ha capito come cucinare è un pò come cantare o come dire, ma con il gusto d’esserci e di fare: guidare il carro, “vivere” ed agire.

              Chi cucina c’è, chi cucina c’è, oggi è domenica, si mangia olè!

Gianni:   Se vuoi mangiare quello che ti piace, su dagli almeno il tempo che si cuoce se non diventi “folle” non hai pace e digiunando tu rimani in croce.

              Mezzo folle c’è, ma forse non c’è, oggi è domenica, che famo?... olè!

Lored.:   Il vino della Forza è già versato, ce l’ha portato il giorno che venuta con un leone accanto già domato, la Forza. Adesso su con la bevuta!

              Anche il vino c’è, anche il vino c’è, oggi è domenica, si beve olè!

Marco:   C’è una cipolla appesa d’annusare, l’ha appesa sua maestà l’Imperatore, è un alto contributo per l’odore di tutte le portate da mangiare.

              La cipolla c’è, la cipolla c’è, oggi è domenica,  s’annusa olè!

Margh.:  Stavamo per finire la cantata senza la pizza: proprio un’incompleta. Ma per fortuna c’è la Margherita, il sole dei sapori già infornata.

              C’è la pizza c’è, c’è la pizza c’è, oggi è domenica, si mangia olè!

La comitiva brinda a tutto spiano per festeggiare al solito “QUALCUNO” di cui, si parli forte oppure piano, non riesce a dire niente mai nessuno. Lo si blatera, Lo si indica, adesso a tavola: si mangia olè!
 


 

 

 

28  - La Preponderanza del Grande

1)      Mi piace vedere, in tale esagramma, una particolare fase dell’Opera Alchemica: quella immediatamente prima della Dissoluzione. Non avendo essa un nome (nessuno dei maestri ne ha mai parlato perché non è una vera e propria fase), la chiamerò proprio la Preponderanza del Grande, Ta Ko. Ma osserviamola meglio e più da vicino.
Quando il Vento dello Spirito soffia nell’uomo appena desto alla Vita (sotto Sunn, il mite, il vento) le acque superiori si gonfiano (sopra Tui, il sereno, il lago) e straripando ricolmano il risvegliato.
E’ un momento di Grande Potenza, poiché il Divino isordinata ed incontenibile. A questo punto, sempre senza seguire schemi o maestri, si cer­ca di entrare in meditazione, cioè in uno stato di quiete mentale che dà certezza e consapevolezza di essere uno col Tutto, o meglio, che solo il Tutto è, e noi siamo in Lui. Ora, per una persona che è emotivamente alterata e mentalmente vigile come una tigre, riuscire a stabilire la calma mentale è quasi impossibile: l’ego, la personalità, il senso di “io sono io” è vivo e vegeto e l’esperienza è vissuta non in comunione col Tutto, ma in separazione: un uccelletto, al primo volo “conosce” l’aria che lo avvolge da tutte le parti, che gli da vita, che gli permette di volare, che gli procura una ebrezza incredibile, ed anziché prendere atto della propria piccolezza (in quanto foa Sostanza, Essenza Universale) accade di sentire la propria trave maestra piegata da un peso enorme. Ecco come ad una personalità che sta per sfo­ciare nell’oceano del tutto (sia pure per un breve periodo) accade di puntellare da tutti i lati la propria apparente individualità. E’ eviden­te che la dissoluzione non è avvenuta: il seme è stato portato dal vento in un terreno fertile che lo ha accolto; sente l’umido; sente il richiamo del sole; sa di essere un seme e di dover quindi marcire come tale; ma per il momento preferisce rimanere seme, sapere tutto questo, e vivere il momento di pressione del divino.
Siamo ancora lontani da ogni volo di corvi, e ancor più di colombi: l’Opera è all’inizio, e la putrefazione, il totale abbandono alle acque (non ci si dimentichi che è solo l’umido che la produce...) non è ancora avvenuto. Per fortuna la trave maestra verrà solo piegata, perché ad ognuno non verrà messo sulle spalle più di quanto possa sopportare o portare.

 

 

2)      Quando il silenzio diventa parola, s’incarna. E’ come un fuoco sottile che prende l’aspetto di sole, e che piano piano consuma se stesso nella croce di tutto lo spazio ed il tempo.
Cos’è, nella gente, l’Essenza, se non un silenzio di mozzo, entro cui per gioco, la giostra illusoria di un solo cavallo che gira crede di essere un cerchio? Il Punto è un silenzio coagulato che porta con sè tutti i mondi, è un unico Figlio di Dio, che, solo, da Dio può venire. Il punto è la Pietra Angolare ch’è fuoco nel cuore.
La Sapienza è un aspetto del Grande Silenzio, l’aspetto formante di Dio, è il Verbo vestito d’Amore che unisce le cose volute in un’acqua infinita e infuocata.

 

E’ il Grande che crea e ricrea,

pensiero di Dio che dilaga

via come un mercurio infinito:

si muove portando il volere

del Padre di tutte le cose,

        volando.

 

Punto su punto, retta su retta… ogni cosa è divina nell’Uno: appena un quadrato si crede di essere altro dal Punto, è bugia, ignoranza, assenza di luce.

Ignoranza sei tu quando parli e dimentichi di essere piccola foglia di quercia infinita. Sei tu quando stacchi la presa e guardando altre foglie misuri uno spazio apparente in un tempo apparente: la tua mano destra è copresente alla mano sinistra: tu uno in te non hai né spazio né tempo…

Ignoranza è parlare; è una smorfia alla Vita; un sole che cerca la luce; un’acqua che prova la sete.

Sapienza è l’Unico figlio di Dio, la semplicità dell’Uno Infinito.

 

SE SOFFIA SAPIENZA PREPONDERA IL GRANDE

CHE PIEGA OGNI COSA CHE AD ESSA SI PIEGA.

Prepondera il GranDe, la trave maestra si piega, ed ogni cosa si scopre nell’altra: passaggio del Punto, del Cristo.       

 

 

 

29 L’ABISSALE

“L’ABISSALE è l’acqua, i fossi, l’agguato, l’arco, la luna, ecc.”
(libro secondo dell’I King, pag. 550-551).
Con un piccolo salto, ci riesce facile passare dalla luna all’immaginazione: quello strano aquilone che può farci volare fin su le nuvole, se ben manovrato con mano e filo accorti.
Quando il caldo Vento dello Spirito soffia, abbandoniamoci come fan­ciulli ad esso, lasciando che il nostro corpo dallo stato solido (ghiaccio—mummia—morte) passi allo stato liquido (acqua—uomo—vita).
Il calore del Vento, dapprima ci solleverà come vapore, e dopo, asciugandoci, ci assimilerà. Ora, se attraverso il filo, lo Spirito del Vento scen­derà e si fisserà, l’Acqua e il Fuoco, celebrando le nozze spirituali, si uniranno indissolubilmente; potremo allora capire la beatitudine provata da Pascal... 

“L’anno di grazia 1654

Lunedì 23 Novembre, giorno di S. Clemente, papa e martire,

ed altri al martirologio,

vigilia di S. Crisogono, martire, ed altri,

dalle dieci e trenta, circa, della sera fino a circa

mezzanotte e mezzo

F U O C O

Dio d’Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe,

non dei filosofi e dei sapienti

certezza, certezza, sentimento, gioia, pace.” (Fulcanelli, Dim. Fil.)

Diventare acqua vuoi dire andare alle radici, al mondo degli archetipi, per elevarsi attraverso di essi, alla Causa Prima. Vuol dire abbandono coscien­te, tenace e mirante. Mirante perché l’abissale è anche l’arco con cui prima si mira e poi si scaglia la freccia al bersaglio, alla meta di cui si parla nell’immagine dell’esagramma.
Quando si tende l’arco e si scaglia, se non si è nella freccia e nel bersa­glio non si coglierà mai il centro; se si fosse solo la freccia, nessun ber­saglio si avvicinerebbe; se si fosse solo bersaglio, nessuna freccia mai vi giungerebbe: la totalità del momento è la base di un corretto tiro con l’arco, è Zen, Tao, Assoluto, Essere.
I pericoli dell’abissale, le buche in cui è possibile cadere, sono quei vor­tici ove precipita colui che ha visto rompere il filo dell’aquilone (vedi Nietzsche).
Il vento ha inghiottito l’aquila di carta, che lacerata è stata rigettata in terra a brandelli contenenti confusi sapori del divino, la Po­tenza del Suo Fuoco divoratore: una freccia impazzita ha perso di vista il Bersaglio, e spinta dal vento si è costruito un labirinto di traiettorie: quel che ama di più è l’ebrezza del volo, e di ciò fa una meta sfuggente. Una pietra focaia che si è consumata in attriti potenti, ubriacanti, che mai hanno acceso il F U O C O, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe.
E qui ci fermiamo, perché questa Luce Divina, infinita, questo Fuoco, tutto divora essendo principio, dico Principio, di tutto: 1’Abissale, l’acqua è tornata alle sue Radici: il F U O C O.

 

 

 

 

30  IL FUOCO

Jean D’Espagnes nel suo “Trattato ermetico della fisica reintegrata” (1523), parlando un po’ qua un po’ la del fuoco, dice: “Questo fuoco della natura, insito nei misti,…. ha domicilio nel cuore” e ancora: “il fuoco della natura è duplice, universale ed individuale… l’universale ha sede nel sole, che quale cuore dell’universo, effonde su tutte le plaghe un calore vivificante, quasi il suo amore. Il fuoco individuale opera nel suo microcosmo analogicamente”… Ho sottolineato apposta la parola “amore”, perché mi piace pensare all’amore come essenza del fuoco. L’esagramma, coi suoi due trigrammi di fuoco, rende bene l’idea: fuoco macro-cosmico sopra, fuoco micro-cosmico sotto a rispecchiare, riflettere, osannare il “medesimo archetipo di tutte le creature”. Dove sta l’amore? Sta nel cuore dei due trigrammi: è quella linee spezzata, quel umilissimo centro che vivifica tutto il composto. Come potrebbe il sole risplendere in tutta la sua regalità se non fosse umile e tenero verso tutto il sistema? Tutta la sua forza è in quell’apertura (in quella linea spezzata) da cui il suo amore.

(Ogni centro è amore

perché è fuoco

perché è Dio)

Viene al mondo come luce e calore, come vita. Quindi l’umiltà è figlia dell’amore, la figlia mediana, mentre Sunn è la primogenita e Tui la terza figlia, il mite e il sereno. L’amore, dunque, è prima mitezza, poi umiltà ed infine serenità; ed il tutto è possibile riscontrarlo in tre fuochi “differenti”: un fuoco temperato, un fuoco a bagnomaria, un fuoco senza…. mantice. (“Differenti” è tra virgolette perché in effetti sono diversi solo apparentemente: si tratta sempre di un fuoco non violento, non divorante.) Dare la vita, come fa il sole ed il cuore, vuol dire “perderla” per se' ed acquistarla negli altri (Luca, 9,23). Perché forse ancora non l’abbiamo realizzato, ma ogni cosa grida a modo suo l’unicità del tutto che tutto contiene. “Il fuoco filosofico è un fuoco in potenza che non brucia le mani, ma che dimostra la sua efficacia quando viene eccitato dal fuoco esteriore…. esso è della stessa natura della materia filosofica… questo fuoco è adatto a calcinare, dissolvere e sublimare la pietra dei filosofi”. (E’ quello che scrive Linojon De Sainct Disdrer nel suo “Trionfo ermetico”). Come non pensare al seme, il cui fuoco interiore agisce solo al sole esteriore di primavera….? E andiamo ad osservare ancora una volta l’esagramma 30 de I Ching: il trigramma superiore è il fuoco esteriore, quello inferiore è il fuoco interiore, la chioccia e l’uovo. Nell’uovo il fuoco è nascosto e va eccitato, è annacquato e va asciugato, etc.  e il tutto vien fatto solo con il fuoco della gallina, con un fuoco costante e tenace. La gallina è proprio il trigramma superiore, è il sole + i quattro elementi, è il (mercurio filosofico), mentre l’uovo è quel misto stranissimo che ???. Senza il fuoco è impossibile compiere l’opera, come senza il sole di primavera è impossibile far germogliare il seme. Ma come si accendono i fuochi? Tutti i filosofi, in proposito, tacciono. Ne parla un po’ Artefio, Lullo, Fulcanelli; ne parlano pochissimo altri; ma la maggior parte tace. Esso è la chiave dell’opera, la quale non è altro che una lunga cottura a diversi livelli. Diciamo solo che, come fisicamente, di tanto in tanto, un fulmine, abbattendosi su un albero, lo brucia, così, di tanto in tanto, per Grazia dell’Onnipotente, la Shekinah, lo Spirito, scende su un essere umano e accendendogli il fuoco interiore, lo illumina, lo fa germogliare a nuova vita, accende d’amore ogni suo atomo, che da quel momento canterà la sacra vibrazione del Divino, il Verbo; il Vero, il solo, l’unico fuoco che non distrugge e non divora, ma che dona la vita. (Tale fuoco, però, può essere anche acceso, sempre che Dio lo voglia). Se osserviamo un albero da frutta, notiamo come spesso una ramo è carico di frutti ed un altro no. Se apriamo quei frutti, noteremo che alcuni hanno molti semi, altri pochi ed altri ancora niente. Ebbene per l’umanità è lo stesso. Vorrei però esprimermi in altri termini. Supponiamo che l’uomo sia una lampadina… ve ne sono di tutte le dimensioni e di tutte le forme: piccole, grandi, grandissime, semplici, complicate, grosse, magre, sottili etc, etc, etc. La distinzione più importante però è un’altra, quella che le divide nettamente in accese e spente. Fra le prime spiccano quelle dei fondatori di religione. Esse sono veri e propri fari che attingono la corrente direttamente alla fonte: tutti possono vederli, la loro luce è indicativa del divino e chiunque, attraverso la rotta personalissima, la sua unica rotta propria può approdare al porto de Divino su cui il faro è innestato. Poi vi sono quelle dei santi fondatori di ordini religiosi: sono fanali accesi nei giardini del lungo mare, proprio vicino al porto del Divino. Poi vi sono quelli dei ricercatori, che assomigliano a quelle povere lampade appese al filo pendente dal soffitto, le quali, tuttavia, illuminano la stanza in cui stanno. Sono i cosiddetti fuochi immobili e casalinghi. Dopo di questi vi sono le lampade a gas, olio, batteria insomma quelle a tempo, le quali sono convinte che è sufficiente accendere l’olio in dotazione per brillare sempre. Infine vi sono le lampade spente: sono le più buffe di tutte. Alcune gonfiano sempre di più il loro vetro, convinte che ingrassarsi sia il lo scopo dell'esistenza. Altre girano con in mano la spina e il portalampada, ma non sanno a cosa servono. Altre ancora sono convinte d’aver trovato la fonte dopo aver scorto per un istante il loro filamento spento nell’acqua specchiante. Altre ancora parlano della luce perché da qualche parte ne hanno sentito dire. Una categoria a parte è quella degli esoteristi: sono tutti con la spina in mano, ma col filo imbrogliato ai piedi: per scioglierlo…. “si perdono” un sacco di prese e qualcuno trova persino il tempo di criticare l’aggrovigliamento degli altri. E’ quello che facciamo tutti, ed il fuoco aspetta….. Il testo alchemico più esplicito sul fuoco, è la Lettera sul Fuoco Filosofico di Giovanni Pontano. Citiamo da un commentario al Mutus liber di Altus di Mino Gabrieli (archè 74) che a sua volta cita M. Mazzoni, che cita Pontano: “Per l’esercizio intendi Sole = Oro = Zolfo = Anima = Cuore. Prima fatti padrone assoluto delle tue passioni, dei tuoi vizi, delle tue virtù; devi essere il dominatore del tuo corpo e dei tuoi pensieri, poi accendi, o veglia, per meglio dire, nel tuo “cuore” per immaginazione, il centro del “FUOCO”; cerca di sentire da prima una specie di caloricità lieve,  dapprima ti parrà difficile; la sensazione ti sfuggirà; ma cerca di mantenerla nel “cuore”, rievocala, ingrandiscila, diminuiscila a piacere, sottomettila al tuo potere; fissala e rievocala a volontà. Prova e riprova. Impadronisciti di questa forza e conoscerai il FUOCO SACRO o FILOSOFICO”. “… La pratica invero è questa: si prende la materia e il più accuratamente possibile si triti con tintura filosofica e si metta al fuoco e la proporzione del fuoco si conduca in modo tale che ecciti semplicemente la materia, la tocchi tuttavia, e in breve tempo quel fuoco, senz’altra opposizione di mani, celermente compirà tutta l’opera, perché putrefarà, corromperà, genererà e perfezionerà e farà apparire i 3 colori principali; nero, bianco e rosso… Questo fuoco compie l’opera ed è la chiave di tutti i filosofi…. se tu indagherai bene e profondamente le cose sante, la proprietà del fuoco, la conoscerai e non altrimenti…” Chi “ama il prossimo come se stesso”, compresi quelli che ritieni nemici, Beato chi riesce, è già entrato in Tiphereth e può cominciare; non altri.

 

 

30  IL FUOCO(2)

 

(Il re passeggia nervosamente. Con lui, nella sala del trono, c’è il giullare, che gli gironzola intorno e cerca di distrarlo con buffonate puerili).

 

Giullare: …. e fù così che il grande giullare bloccò il povero re; olè, (gli tira il mantello costringendolo a fermarsi.. Il re si gira e con l’indice puntato, in crescendo di voce...)

 

Re:          Se non la smetti immediatamente ti faccio rinchiudere nella torre di ponente, a pane e acqua, per un’intera luna. (gridando) E DOPO TI FARO’...

 

Giullare:   ...ed ecco come avvenne che il matto ubbidì alla voce della follia (pronuncia le due parolette d’un sul fiato e velocemente mentre molla il mantello. Poi, all’ennesima minaccia del re, cambiando tono) …ricordo a Vostra Maestà, che sono pagato per far tutto questo, e rammento ancora che colui che mi paga, è...Vostra Maestà. Tuttavia...la smetto e taccio, dopo aver chiesto al mio signore...
(gli si avvicina, gli riprende il mantello con affetto)
…cos’è che oggi fa resistenza alla mia follia, vittoriosa sempre su tutti i passati problemi di vostra sovranità? E’ triste, o mio re, vedervi e sentirvi così. Parlate dunque; la riaffilata lama della mia pazzia sconfiggerà ogni vostro nemico. Il fuoco del matto vincerà!.

(Il re si siede sul trono)

 

Re:          Sentirti parlare di bruciante matteria, amico mio, mi rattrista ancora di più, perché, vedi, il mio problema è proprio un fuoco divorante che, strani venti, soffiando, alimentano sempre di più. E non riesco a controllare questa forza. Mi sento quasi come un poeta in preda al delirio di versi che irrompono da tutte le parti, come un aquilone non più retto e guidato, ma ormai in preda al vento. Ecco, mio caro ranocchietto, cosa angustia il tuo re.

 

Giullare: Ah, ecco che finalmente scorgo nelle vostre graziose parole il co­lore del fumo di tale incendio.
               Parlatene ancora signore, e saprò ben scoprire il piromaneincendiariopirofilo. Vostra maesta' lo
              consegnera' alle  guardie... (va verso la porta, la apre e grida) …guardie, guardie, tenetevi pronte,
              perché tra poco... (il re l’interrompe, ed alle guardie...)

 

Re:          Via, via di qua! (al buffone) chiudi quella porta, e siedi qui, qui ac­canto e me: il tuo re ha bisogno di parlare, e tu lo ascolterai. Ascoltami dunque, ascoltami bene.

               (il buffone gli, si avvicina e siede sul pavimento ai piedi del trono)

Il FUOCO di cui ti parlo, è un fuoco vecchio come il mondo, ma allo stes­so tempo sempre nuovo e sempre fresco, tanto che a volte sembra raggelarmi il sangue nelle vene (lo invita a sedersi sugli scalini del trono) questa vita che si muove dentro di me e dentro ogni cosa, un bel giorno ha alzato la voce, ha vibrato più in fretta, ha cambiato l’ottava modulando in pianissimo. Un mondo di legno, improvvisamente, ha preso fuoco. Ogni mio atomo ritenendosi di diritto un sole da mezzogiorno e ritenendo, io, me stesso, un universo di soli, pure stento a sentire il motore del fuoco che avvampa di fuori e non trova la porta. (avvicina al­la faccia del giullare la sua faccia angosciata)

Mi consuma,  mi asciuga, mi divora, e non so come…. esserlo. (con voce strozzata). capisci!

 

Giullare:   Vostra maestà è distratta, sbadata. Davvero, mio re, non riesci e vedere la porta che tu chiaramente mi mostri?

 

Re:          Ma non capisci che a divorarmi è la voglia di esserne il senso, l’essenza? E’ come se a consumarmi fosse non quel fuoco, ma il fuoco di quel fuoco che sento qui dentro, ma che non riesco a far incontrare con quello. E questo mio volerli riunire è come un terzo fuoco, che...  

               (smette di parlare e osserva naso contro naso il buffone) …riesci a capirmi?

 

Giullare:   Ma è proprio questa la porta, signor mio. Non hai sentito come un... quarto fuoco arde nelle tue parole tanto da farle diventare disperata preghiera di comunione? eccola qui la porta, e tu l’hai a dir poco spalancata: i simili, e questa è una vecchia storia, si uniscono, ed ecco come di tanti fuocherelli se ne crea uno, o meglio, ecco come il piccolo fuoco del volere del cuore ha abbattuto le barriere che spezzettavano l’unico fuoco che esiste, quell’antica Luce Primor­diale con cui la Sapienza - una con essa e con il Creatore - ha fatto, creato ogni cosa.

               Quel fuoco è un amore che unisce le genti e tutte le cose. Amare è bollire nell’UNO, non più come acqua sul fuoco, me come spirito ar­dente. Il CUORE è la porta: se metti ogni cosa la' dentro, costringi all’Essenza l’Amore, mio sire. Quando si ama, o mia sovrana maestà, si è di più pur non avendo di più, perché si comprende ciò che si ama e quindi ci si unisce ad esso. Similia similibus, maestà: per fare l'oro ci vuole l’oro, per accendere il fuoco occorre il fuoco. Ma in senso più generale, essendo l’Essenza di ogni cosa FUOCO, è sufficiente essere. Maestà.... (ricomincia a tirargli il mantello, il re si alza, si toglie la corona e la poggia sul capo del folle, lo guarda e gli fa un inchino)...

 

 

 

 

30 IL FUOCO

I filosofi dell’arte (alchemica) danno il nome di fuoco anche al loro mercurio o acqua celeste. E’ questo il fuoco che non brucia le mani. Lo hanno anche chiamato naturale, perché è nella materia, ed anche contro natura, perché riesce a fondere l’oro e spiritualizzarlo, cosa che non riesce a fare il fuoco volgare.

Se per oro intendiamo la persona comune che ha in sé la potenzialità del Santo, e per fuoco la luce cosmica, il mercurio filosofico, il Cristo, ci rendiamo conto di  come questo fuoco che non brucia, quest’acqua che non bagna, se acceso nella persona, spiritualizza.

E’ lo Spirito Santo, la Shekinà, il fiume di luce, che scorre solo quando è stato acceso dentro dalla Grazia, e qui parliamo del fuoco interiore, dello zolfo, dello Spirito.

Ed eccoci all’esagramma: fuoco sopra e fuoco sotto. Quando ciò accade vengono illuminate le quattro regioni del mondo (immagine). Queste quattro regioni ci richiamano il simbolo della croce che, in questo caso, rappresenta l’ordine che, nella materia, è subentrato al caos: i quattro elementi che nel loro corpo erano confusi, per effetto di questo fuoco doppio, si orientano ciascuno verso il posto che gli compete: la persona prende atto di tutte le sue componenti. Ecco che si lascia avvolgere da questo fuoco di cenere che altro non è che il solito mercurio filosofale, la solita acqua divina che non bagna, ovvero il solito fuoco che non brucia, e lasciandosi abbracciare e avvolgere da tutte le parti, “si forma” un guscio di luce (sarebbe meglio dire: lascia che un guscio di luce lo avvolga). E’ nato il famoso vaso filosofico. Quindi il vaso non sei tu, è qualcosa che ti contiene e che all’inizio ti procurerà un totale…. buio nell’Anima: sei proprio un uovo che, grazie al fuoco cosmico, verrà covato e rivedrà la luce dopo quaranta giorni: dal nero al bianco; dal piombo all’argento e il tutto grazie al solo regime del fuoco, che dalla luna ti porterà al sole, attraverso...

Chissà se le 6 varianti non parlino proprio di questi 6 regimi?

 


 

1°: è il fuoco appena acceso: scoppiettante e impaziente, quello di primavera.

D: è necessario accudirlo con serietà e non ci sarà errore.

 

2°: è il fuoco del corposo leone. E’ un fuoco maturo e responsabile.

F (come fuoco): il governo (non dimentichiamo che il leone simboleggia il Re ed il cuore) è totale.

 

3°: è il fuoco del sagittario, quello che cova sotto la cenere (anche di notte, il fuoco filosofale va conservato…)

E: La vista delle ceneri non deve ritener finita l’opera: la gallina cova sempre ed il suo covare farà sì che dalle “ceneri” il giorno dopo il fuoco riprenderà (fenice)

 

4°: I primi 3 fuochi sono quelli da “usare”, gli ultimi 3 sono particolari.

B: Questo quarto è un fuoco fatuo, di paglia.

 

5°: Questo è un fuoco che ti fa sciogliere in lacrime, ti fa bollire troppo,

C: ma che ti monda da ogni incrostazione.

 

6°: siamo alla circolazione della luce: il pulcino è vivo e pronto a nascere.

A: quando il fuoco cosmico circolerà in tutti i suoi canali energetici, romperà il guscio (ciò avverrà nel leone).

 

Ciò che era entrato nel vaso filosofico, non esiste più: dal caos all’ordine, dalla disarmonia all’armonia, dal vile metallo all’oro: adesso si può risplendere.

 

                                                                                              Che Dio lo voglia.

 

 

 

 

31 L’INFLUENZAMENTO

 

La Pentecoste consolava tutti, ricercatori, laici, belli, brutti,

e a ognuno j’assegnava de parlare na' lingua tutta sua, particolare.

Mentre che je’ cresceva ispirazione la folla dava vita a ‘n caciarone:

questo parlava a quello che parlava e questo e quello niente ce capiva:

un mongolo-fransè-greco-romano

in fronte a un turco-rnechico-ottomano.

Io che dal Santo Spirito scartato vivevo sta babele sconfortato, prorruppi na' richiesta con passione dicenno forte: “O Dio der popolone

me devi proprio di’ che devo fare, e subito, se no devo scappare:

ognuno va parlanno in Benedetto ed io rimango qui come ‘nterdetto!”

Aspetto… e… giù na voce vellutata

me dice seria: “Fatte na cantata

senza badare all’influenzamento.

Canticchia solo pe’ divertimento.

 

 

PARODIA DI “TANTO PE’ CANTA’”

La vita me pareva amara,

così, buttata la chitara,

ho messo bene ‘n pace er core

e me so fatto cercatore

der vero, ma la mia cercata,

dopo na grande faticata,

m’ha fatto capità ‘ndò c’era

na compagnia senza bandiera.

Stanno tutti là

smorfianno forte la Torà: che coro!

Stanno a sistemà

la pietra, chè ne scaturische l’oro.

Pe potello fà

te stann’ appende’ quanto passa er cielo

sull’arberello che te squarcia er velo

de li misteri e che te po da er volo.

C’è un ramo carico de gente:

Adamo ed Eva col serpente

vicino a Sara, proprio quella

che gioca a fare la sorella…

D’Abramo e poi l’Abimelecche

che ce ricasca senza pecche,

Melchisedecche e un Faraone,

che fanno ricco l’Alberone.

Stanno tutti là

speranno forte che je regga er ramo,

tutti a traballà quanno che arriva un ospite. Ce semo:

come reggerà?

Giacobbe arriva con le quattro mogli:

sono già cinque e ciò potrebbe annare

se non ci fossero dodici figli.

C’è chi l’appende a beverone,

chi con arguzie alla Platone,

c’è chi li butta alla rinfusa,

chi ci ha la mente un po’ confusa

e se ne sta così a pregare

che il vento faccia decollare

sti personaggi molto strani

che vadan soli su pe’ i rami.

Stanno sempre là

sotto quell’arberò dei sefironi

tutti a cabballà,

tra numeretti grafici e spintoni

vanno avanti ma

verso che dove nun sappiamo bene.

All’apparenza sono dei santoni,

nella sostanza dei giocherelloni

 

 

 

 

31 L’INFLUENZAMENTO

 

L’influenzatore aveva già camminato per più di un’ora, ma la sua disperata ricerca di qualcuno da influenzare era stata vana. Certo, l’ora non era favorevole, alle cinque del mattino la metropoli dorme ancora, però lui non disperava, e ad ogni incrocio volgeva lo sguardo a destra e a sinistra con lo stesso stato d’animo con cui il pescatore cala la lenza.

Finalmente, all’incrocio con la 31a strada, la cosa accadde: un altro uomo della città sarebbe stato  influenzato, con buone probabilità di divenire, a sua volta, influenzatore.

Qui bisogna aprire una parentesi per dire chiaramente come stavano le cose. Ebbene, non è che il nostro amico nelle due ore di ricerca non avesse incontrato nessuno, anzi. Quella città, per l’80%, era composta ormai da influenzatori provetti, tanto esperti che funzionavano quasi come delle radio: si autoaccendevano ad ogni incontro e offrivano la sintonizzazione all’influenzando, il quale, in pochissimi secondi, avrebbe trovato la giusta frequenza per, nientemeno, il Divino. E tutto accadeva attraverso quella perfetta radio che era l’influenzatore.

Ecco come il nostro amico aveva incontrato molti… colleghi che aveva regolarmente ignorato e da cui era stato cordialmente ignorato.

Ma torniamo al fatto, per assistere personalmente ad un influenzamento, alla propagazione di un … direi quasi contagio spirituale. Quella persona sarà per il nostro “untore” angelico come un pezzetto di legno da aggiungere al fuoco della sua insaziabile sete di essere Verbo incontrastato del Divino.

Il nome del fortunato è Lucien e sta spazzando il marciapiede della 31a mentre canticchia:

 

Lucien:             Il pesce da pescare non sta su questa terra, ma nell’immenso mare che non conosce guerra. Le strade da spazzare son tante, e con pa­zienza bisogna mantenerle con forza e con costan...

 

Influenzatore:    Avrebbe da accendere, buon uomo?

 

Lucien:             Certo, signore, tutti hanno da accendere.

 

Infl.:              (mostrando una sigaretta fra le dita) ebbene?

 

Lucien:          Ebbene, cosa?

 

Infl.:              Ebbene, mi faccia accendere.

 

Lucien:          Ma lei, signore, mi ha chiesto solo se avevo da accendere.

Infl.:              Infatti, e lei mi ha detto di si. O no?

 

Lucien:          Si, si, certo, io ho da accendere, ma vede….

 

Infl.:              (interrompendolo) no, no. Mi basta questo: lei ha da accendere, (mette la sigaretta fra le labbra) MI FACCIA ACCENDERE! deve solo tirar fuori una cosetta così, sfregarla, e avvicinarla qui (indicando la sigaretta).

 

Lucien:          Ma non è il caso che si arrabbi, signore. Io ho detto sì che ho da accendere, ma non qui. Vede, io, i… fiammiferi... li tengo a casa. Ogni mattina ne prendo uno, e lo faccio bastare per tutto il giorno.

 

Infl.:              Tutto il giorno! (Lucien annuisce). Lei vorrebbe farmi credere che.. accende una sigaretta di mattina con… un solo fiammifero, e poi, di sigaretta in sigaretta...

 

Lucien:          Ma io non fumo, signore, non ho mai detto di fumare, non sono così stupido da fumare.

 

Infl.:              Ma come si permette! lei mi sta offendendo. IO FUMO!

 

Lucien:          Non mi permetterei mai, signore. Mi spiego meglio. Un tempo fumavo, ma avevo sempre mal di testa, mal di denti, tosse; ed in più spendevo un sacco di soldi. Un giorno decisi di smettere, e smisi. Ed ecco: via mal di testa, via mal di denti, via tosse e via spese inutili. In poche parole, non feci più male a me stesso, e giudicai il me stesso di pri­ma uno sciocco e uno stupido. Io parlavo di me, signore, non di lei. Non mi permetterei mai di of­fendere una così degna persona.

 

Infl.:              Senta, io a lei non la conosco; non mi ricordo più che ci faccio a quest’ora insolita qui quando dovrei essere a letto. Al momento ho un solo, unico, grosso, infinito problema (gridando e con gli occhi fuori dalle orbite) devo accendere, CON ESTREMA URGENZA,, questa siga­retta, SE NO MI ARRABBIO!

 

Lucien:          Ma lei, signore, è già arrabbiato, e questo fa male, E’ quasi come fumare: uno fa male a se stesso, e quindi....

 

Infl.:              …e quindi sarei uno stupido (gli si avvicina minaccioso) CE L’HAI O NO QUESTO CERINO? (abbassa la voce in tono supplichevole) devo assolutamente fumare. Capisci? d e v o   f u m a r e.

(passa un altro influenzatore)

 

2° infl.:          Scusate fratelli, avreste da accendere? (e mostra un sigaro).

 

1° infl.:          NOO!

 

 (il 2° infl. scappa)

 

Adesso, tu ed io, andiamo a casa tua (si guarda intorno e poi gri­da) Taxì! E siccome le tabaccherie sono tutte chiuse, lì pren­derai il fiammifero n° 2, oppure quello di domani o quello di un altr’anno, e farai accendere la sigaretta al tuo fratellino. CAPITO?!

 

Lucien:          Certo signore. (saluta il tassista) ciao Martino, a casa per favore.

 

Infl.:              Scusi buon uomo, non è che per caso ha un fiammifero?

 

Taxista:         Niente da fare signore. Mai fumato, mica sono stupido sa.

 

Infl.:              Perché secondo lei, tutti i fumatori, tutti noi fumatori, siamo degli stupidi. E’ COSII'?

 

Taxista:         Mamma mia che giornata! e sono appena le sei. Fortuna che siamo arrivati. Signori si scende: 11° strada n° 30. 5 dollari giusti… grazie.

 

 (Lucien e Infl. salgono al 4° piano, int. 63. Il primo apre la porta e cedendo il passo)

 

Lucien:          Signore, sono onorato di riceverla in casa mia. Casa piccola, ma… pulita.

 

 (Infl. data appena un’occhiata dentro scoppia in una sonora in­contenibile risata: scope: scope dappertutto, alle pareti, sul tavolo, sulle sedie)

 

Infl.:              Sfido che è pulito. Quante saranno 100, 200...? Capisco che lei è spazzino e che ci lavora, ma tutte queste!

 

Lucien:          Premesso che non sono spazzino, signore, le dico subito che pur es­sendo tante, mi creda, non mi bastano mai.

 

Infl.:              (ricominciando a ridare) non gli bastano...

 

Lucien:          Ma lo sa, signore, perché con l’autista ci diamo del tu?

 

Infl.:              E questo cosa c’entra con le scope?

 

Lucien:          C’entra e come signore, e le dico perché. Lei è già la terza persona che porto a casa stamattina, e da qui a stasera ne porterò altre venti minimo. La prima persona della giornata mi aveva “agganciato” con la vecchia battuta del tempo; la seconda col “che ore sono?”; e la terza (lo indica invitandolo a parlare)

 

Inf1.:             La… terza… sarei…. io… beh, le ho chiesto…. (improvvisamente si ri­corda) ma certo, le ho chiesto di farmi accendere: ma mi vuole fare accendere questa benedetta sigaretta o no?

 

Lucien:          Io so solo che lei ha bisogno del fuoco e glielo do subito (prende una scopa e gliela passa) ecco.

 

Infl.:              (prendendo la scopa con incredulità) e con questa che ci faccio?

 

Lucien:          E che ne so io? Ormai è sua e la cosa non mi riguarda.

 

Infl.:              (sbalordito) ma io ho chiesto solo di avere un cerino, un pò di fuoco! ed a momenti non so più chi sono e da dove vengo, ed in più dopo un paio d’ore dalla richiesta mi ritrovo ancora la sigaretta spenta ed una scopa in mano, “che” non so che farmene. (minaccioso) Ho capito tutto: tu vuoi farmi ammattire. Attento sai: potresti essere la prima vittima del tuo golem!

 

Lucien:          Va bene. Basta così. Ti spiegherò tutto se mi lascerai parlare. Prometti?

(Infl. fa cenno di si con la testa)

Ebbene, devi sapere che la città ormai è divisa fra influenzatori e liberi spazzatori. 80% voi, 20% noi. A differenza della vostra, la nostra associazione si è riunita una sola volta, all’inizio, ha preso la decisione e poi ha lasciato ad ognuno degli associati la libertà di usare il tipo di scopa più adatto.

La decisione era questa: spazzare ogni tipo di confezionamento dell’Assoluto. Mi spiego. Il primo influenzatore ha proposto un Dio bell’e confezionato al 2° influenzatore che, senza nemmeno darsi la pena di sconfezionare, l’ha passato al 3°, e così via. Ora, siccome siamo tutti pensionati con un sacco di tempo a dispo­sizione e amanti della libertà assoluta e del divertimento lecito, ci siamo divisa la città in settori ed ognuna si diverte nella “sua” zona. Devi anche sapere che quelle scopa lì è un simbolo, quello dell’incessante pulizia interiore che siamo costretti a fare. E’ come avere un arco nel cuore e mille arcieri., anziché uno solo, i quali tendono la corde ciascuno nella sua direzione. Noi siamo uno, ma loro sono mille e siccome non possiamo spezzettarci, occorre prima farli tacere e poi convincerli che sono solo pezzetti di creta ani­mati da una nostra parte di energia. Spazzare significa ridurre il tutto a creta, per poi fare un unico arciere. Ovviamente, l’ultimo arcierino è lo spazzatore, anche quello dovrà incretarsi e poi vi sarà un silenzio: la casa sarà pulita, e forse, allora, nascerà l’Atteso. Sai, nessuno te lo può confezionare: o nasce dentro op­pure è qualcos’altro. Se qualcuno ti “assale” per passarti il divino, diffida: hai mai visto una madre svegliare il proprio bambino a scos­soni? Noi siamo della gente straordinariamente ordinaria, abbiamo so­lo il buon senso di cercare la torta seguendo l’odore delle pastic­ceria, piuttosto che quello dell’ammoniaca della smacchiatoria. Beh?

 

Infl.:               Mi fai accendere per favore.

 

Lucien:          T’ho già detto che non fumo, e se ancora non l’avessi capita, l’unica cosa che ti posso dare è quella scopa lì.

 

Infl.:               Ma… io che ci faccio qui?

 

Lucien:          E io che ne so, mi ci hai costretto tu a venire.

 

Infl.:               Dimmi, come hai smesso di fumare?

 

Lucien:          Semplice: non ho mai cominciato, dopo avere smesso.

 

Infl.:               E se tu fossi me e volessi smettere?

 

Lucien:          Semplice: prima deciderei, poi smetterei, quindi…. Spazzerei.

 

Infl.:               Spazzeresti che cosa?

 

Lucien:          Le velleità di quel piccolo arciere che vorrebbero costringere 100 Kg. d’uomo sapiens e tendere l’arco verso... un po’ di fumo.

 

 (Infl. guarda Lucien, guarda la scopa, riguarda Lucien)

 

Influenzatore: Beh, credo proprio che la terrò. (va)

 

 

Fine