Gli Arcani Maggiori 
di
F.Vascellari 

 

                                               

I 

RACCONTI

dei

TAROCCHI

 

Introduzione

 

Alla domanda del come dai commenti esoterico-cabalistici di Testi Sacri quali l’Apocalisse, la Genesi, la Sapienza, il Tao-tê-Ching, l’I-Ching, i Vangeli ecc. siamo giunti alla stesura di questi “strani” Racconti dei Tarocchi e di quale scopo ci siamo prefissi nel pubblicarli, cercheremo di rispondere esponendo alcuni concetti maturati in noi durante questi anni di studio e che potranno utilmente servire da premessa a questa opera.
Riteniamo, infatti, che sia doveroso rendere gradevolmente accessibili a tutti i ricercatori i significati esoterici dei Testi Sacri, le uniche vere guide alla Reintegrazione, che è la sola meta concepibile dell’incarnazione, contrapposta alla disintegrazione, l’altra meta altrettanto e forse più facilmente raggiungibile dall’umanità di oggi.
I Tarocchi sono uno dei Testi Sacri occidentali più profondi e “praticamente” validi per la realizzazione dell’Opera.
Lo studio comparato e la sovrapponibilità dell’I-Ching con i Tarocchi ci ha facilitato grandemente il passaggio dall’Immagine alla sua animazione e per questo abbiamo voluto sperimentare una tecnica inversa a quella usata nei nostri precedenti commenti ai Testi Sacri. Lì avevamo sempre ricercato (e ritrovato) il glifo cabalistico nel racconto, nell’avventura, nella lezione, nella parabola, nell’esagramma; qui, al contrario, abbiamo tentato di rivestire ogni lamina, simbolo cabalistico per eccellenza, di personaggi e vicende, per dimostrare a noi stessi la reversibilità del passaggio Simbolo-Storia e Storia-Simbolo e la realtà della loro reciproca imprescindibile fusione.
Infine: di commenti ai Tarocchi basati sul loro significato e sui loro simboli ne sono stati scritti a iosa e alcuni talmente validi e completi da rendere utopistica la speranza di poter scrivere qualcosa di nuovo al riguardo. Dati questi quattro punti, si trattava di organizzare la struttura del testo in qualche modo validamente significativo.
Normalmente i Tarocchi hanno una sequenza numerica data dalla successione dei Trionfi: Bagatto 1, Papessa 2, Imperatrice 3 ecc., sequenza che è un viaggio iniziatico in cui il Discepolo, partendo dalla possibilità di dominio sui quattro elementi (Bagatto, 1) giunge gradualmente alla loro definitiva dominazione (Mondo, 21), salvo poi a ricominciare il ciclo col n. 22, il Matto che è il Bagatto Folle.
Noi invece abbiamo “penetrato”, vivendole, non una successione di 20 (+ 1) tappe con un “arrivo”, ma ben “22 possibilità di arrivo”, partendo dal presupposto Zen che qui e ora è la realizzazione del Divino (Tao) per la perfezione assoluta insita in ogni attimo dell’Eterno Presente. Infatti abbiamo considerato ogni lamina come “Porta senza porta” del Regno dei Cieli e adoperato i simboli delle carte come sassi per bussare a questa non-porta. Sperimentando tale tecnica, che è la tecnica dei “Koan” Zen, si può produrre nello studente la mutazione che rende possibile vivere il Tarocco dall’interno, nell’esperienza assoluta del proprio Bagatto, del proprio Eremita, del proprio Diavolo ecc… In altre parole abbiamo tentato di far “collassare” la struttura cabalistica di ogni lamina, dopo averla animata, nel suo Kether.
Non ci siamo riusciti del tutto – altrimenti non staremmo qui a raccontarlo – ma ci abbiamo provato e ci siamo divertiti!
Pertanto, diciamo ai nostri quattro lettori: buona lettura, buon esercizio e… Buona Fortuna!

 

                                                                                                            F.V.

 

  1.  IL BAGATTO

 

C’era una volta… così cominciano le favole, le storie dei bambini, e poiché “Qualcuno” ha detto “… se non diverrete come bambini non entrerete nel Regno dei Cieli…”(*), noi cominciamo così: C’era una volta un ragazzo vivace e ambizioso, che non aveva una gran voglia di “lavorare” (cioè di vivere) nel senso comune della parola, perché gli piaceva giocare alle carte: giocare con i Denari, le Coppe, le Spade, i Bastoni. Qualche volta, per giocare meglio, cercava di entrare “dentro” le carte e, quando ci riusciva, si divertiva moltissimo.
I Denari erano piacevolmente attraenti, gli davano una gradevole sensazione di sicurezza terrestre.
Le Coppe erano più emozionanti, con la fluidità del loro contenuto plastico ed acquoso lo facevano sentire protagonista di chissà quali avventure.
Le Spade erano le più raffinate, con la loro penetrabilità decisa e sottile gli permettevano i voli aerei più temerari.
Infine c’erano i Bastoni; quelli erano i più difficili da manipolare. Perché? Perché, cari miei, quando si tratta di “bruciare”, sia pure per conoscenza, è sempre un affar serio!
Quel mattino di maggio la montagna era verde, l’acqua de lago era azzurra e trasparente, l’aria era pura e dolcemente profumata di lillà, con una brezzolina impercettibile; il sole, in alto, era tiepido e carezzevole.
Il Giovane Cercatore, in piedi in riva al lago, mescolò le carte a lungo, poi “guardò la Carta”: era l’Asso di Denari.
Si fece piccolo piccolo e, pronunciata l’esatta formula magica, si introdusse nell’Oro di Terra. Le solite domande turbinavano: “Perché? Dove? Chi?”. Le solite risposte lo attiravano. Lì, nel centro, era la Forza primordiale, abissale, di riproduzione, di conservazione, di Pietrificazione.
Quando quel vortice cessò di roteare, ci fu un attimo di sospensione: Egli si trovò sull’orlo di un immenso Calice; Egli era l’Asso di Coppe.
Cominciò a nuotare nel liquido lì contenuto come in un mare, un mare di tutti i colori, dal rosso aranciato al blu-violetto non c’era altro che il godimento di quel fluire e rifluire di onde… Ma era un vortice anche quello, e cessò di roteare quando Egli fu proprio al centro della Coppa.
Ora aveva in mano la Spada; Egli era l’Asso di spade.
Si fece leggerissimo, si librò nell’aria; non c’era un gruppo di nuvole che non volesse essere penetrato, non c’era vento che non richiedesse d’esser cavalcato… e tutto era di una tale chiarità da poter esser conosciuto in verità.
Ma era un vortice anche quello, e cessò di roteare quando Egli giunse al centro. Lì la Voce, l’ultima udibile prima del Grande Silenzio, scandì il Verbo Creativo e dal profondo abisso del primo vortice fu tutta un’eco di risposte: “Eccomi!”.
Egli era l’Asso di Bastoni.
Il Bastone cominciò ad ardere e la sua mano destra divenne di fuoco.
Fiamme di tutti i colori dovevano da Lui essere evocate, suscitate, domate. Egli le fece strisciare, danzare, divampare, esplodere!
Ma era un vortice anche quello, e cessò di roteare quando Egli giunse al Centro. Al Centro dei centri c’era lo Specchio di Atomica Luce Pluridimensionale. Attraverso di Quello doveva passare.
Aveva tre possibilità: Non riuscire. Allora sarebbe stato ricoverato al Celeste Ospedale del S. Spirito per “Sacre Ustioni” guaribili in 10 ee. (= eoni, naturalmente del tempo senza tempo) e immediatamente rispedito sulla terra “a carte scoperte”: qui avrebbe dovuto ricominciare a “lavorare” normalmente. A volte accade.
Riuscire a metà. Allora l’avrebbero nominato Maestro nel Regno dei Cieli ma, prima di permettergli di creare qualche pianetino di periferia (naturalmente sotto la guida di un Anziano), l’avrebbero inviato ancora una volta su “una delle terre da redimere” perché fosse onoratamente “Croce-fisso”. Raramente accade.
Oppure RIUSCIRE.

                   UNA VOLTA DEVE ACCADERE.

Quella mattina di maggio, a Mezzogiorno, la Montagna era più verde. L’Acqua del Lago era più azzurra e trasparente. L’Aria era più pura e più dolcemente profumata di lillà con una brezzolina impercettibile. Il Sole, in alto, era più tiepido e più carezzevole.
La riva del Lago era deserta.
… E gli astronomi, se avessero saputo farlo, in un non troppo lontano Universo avrebbero contato una Stella in più.

 

2.  LA PAPESSA

 

Raccontano gli Antichi Saggi, che esiste, non si sa dove, su un’isola meravigliosa, un giardino stupendo, detto il Giardino dei Melograni.
Essi dicono che proprio nel centro del giardino c’è un Tempio, e che sulla soglia del Tempio, su un trono d’oro e d’argento, siede sempre una Donna bellissima, Velata. Sul suo capo è posta una tiara sormontata da un quarto di luna. Ella indossa una tunica blu e un mantello rosso-porpora; nella mano destra tiene il Libro con il sigillo del Tao, nella sinistra le due chiavi, quella d’oro e quella d’argento; il suo sguardo è misterioso e magnetico, attira ed allontana insieme; ai suoi piedi dormono due sfingi, una bianca, una nera.
Era l’ora del crepuscolo, in quel giorno di primavera inoltrata, quando “Qualcuno” approdò all’isola meravigliosa ed entrò nel giardino. Egli sapeva di essere nel Giardino dei Melograni, ma entrandovi non ne riusciva a scorgere alcuno: era quello un parco bellissimo, con tutte le specie di alberi, tutte le sfumature di verde, i fiori di tutti i colori, i profumi più delicati e più intensi.
“Forse i Melograni sono nascosti”, pensò quel “Qualcuno”, il cui corpo era completamente avvolto da una calzamaglia blu-viola scurissimo (forse per mimetizzarsi nella notte ormai prossima).
I suoi movimenti erano rapidi e furtivi. Cercava i Melograni.
Cominciò a percorrere il primo tratto del parco e, passando tra gli alberi, li guardava uno per uno, attentamente, per accertarsi che non fossero quello che cercava; non si fermava mai a lungo, non si faceva sedurre dai colori e dai profumi.
Finalmente giunse al centro del giardino; lì, sotto l’albero del Fico e della Mimosa, i cui rami si intrecciavano, era l’ingresso del Tempio e davanti, seduta sul Trono, la Donna Velata.
“Voglio entrare”, disse l’Intruso. “Bisogna presentarsi 33 volte”, si degnò di rispondere la Sacerdotessa.“Questa è la trentatreesima”.
“Allora saprai anche le altre regole, entra!”.
Lo strano Personaggio, infatti, pareva saperla lunga. Non entrò.
Aveva adocchiato le due sfingi, la bianca a destra, la nera a sinistra del Trono della Sacerdotessa.
Egli, ponendosi a uguale distanza dai due mostri, cominciò una strana danza, gli occhi delle due sfingi lo seguivano attentamente e al termine del balletto si abbassarono: Egli aveva composto con le varie figurazioni della danza le lettere della Parola di Potenza che gli permetteva l’accesso.
…Ed ecco, la Papessa non c’era più, il trono era scomparso e così le due sfingi.
Ora Egli sapeva di poter entrare e nel contempo sentiva avvenire una mutazione in se stesso, guardandosi vide che ora aveva indosso la tunica blu, il mantello rosso-porpora, in testa la tiara con in cima la luna, nella mano destra il libro con il sigillo del Tao, nella sinistra le due chiavi d’oro e d’argento.
Con passo elastico si diresse verso la Porta del Tempio, ma un velo molto fitto univa le due colonne e ne nascondeva l’ingresso, Egli stava per togliere il velo, ma qualcosa lo trattenne. Se l’avesse lacerato sicuramente un qualche equilibrio sarebbe stato turbato. Doveva passarvi attraverso, doveva penetrarlo, non violentarlo, altrimenti ne avrebbe subito il contraccolpo. Lo pensò intensamente dietro alle sue spalle, ostacolo già superato, già conosciuto, e così fu. Era dentro. Nel “suo” Tempio. Ora doveva visitarlo. Con la chiave d’argento aprì la porta della prima stanza: era piena di immagini fluttuanti con strani esseri acquatici da comandare ed organizzare… non era facile perché guizzavano da tutte le parti, ma alla fine li ebbe sotto controllo; la prima stanza era come un anello intorno ad una stanza più interna. Con la chiave d’oro aprì la porta della seconda stanza. Qui volavano in cerchi vorticosi uccelli colorati di tutte le dimensioni ed i loro canti si mescolavano confusamente. Egli doveva coordinare i voli e, armonizzati i canti, creare una melodia unica; eseguì anche questo compito, poi proseguì.
Anche la seconda stanza correva come un anello intorno ad una stanza più interna. Per poter aprire quest’ultima dovette mostrare il sigillo del Libro. Entrò. Qui tutto era Silenzio. Al centro sotto una Luce Folgorante Autogenerantesi cresceva l’Albero dei Melograni.
La nuova Sacerdotessa si avvicinò con grande riverenza: avrebbe potuto cogliere il frutto, assaggiarlo, distribuirne i grani color rubino agli uccelli ed ai pesci delle due stanze e poi riuscire dalla Porta del Tempio; allora avrebbe dovuto pazientemente sedersi sul trono con le due sfingi ai suoi piedi e lì pazientemente aspettare che un altro “Folletto” (= piccolo folle) in calzamaglia blu-viola venisse a prendere il suo posto, liberandola.
Oppure avrebbe potuto prendere in mano la Luce Folgorante Autogenerantesi e “bruciare” l’Albero dei Melograni.
In una frazione di secondo non ci sarebbe stata più né Sacerdotessa, né Tempio, né giardino, né isola.
È per questo che i Saggi non sanno mai dire dove si trova l’isola del Giardino dei Melograni, perché talvolta ritorna al Gran Nulla con la sua Custode e allora la si deve ricreare dal Nulla. E non è facile.

 

3.  L'IMPERATRICE

 

 

C’era una volta una regina, anzi un’Imperatrice molto bella che governava 12 Nazioni; allorché sedeva sul trono non c’era Donna più bella di Lei.
Ogni mese, alla luna nuova, riceveva i rappresentanti dei suoi 12 Stati e dava ad esse le disposizioni più particolareggiate per il governo di ogni singola Nazione.
Nella parte più bassa dell’Impero c’erano gli Stati dei Pesci, dell’Ariete, del Toro, dei Gemelli che lavoravano in primavera-estate ed erano legati ai 4 elementi terrestri; al centro c’erano gli Stati del Cancro, del Leone, della Vergine, della Bilancia che lavoravano in estate-autunno ed erano legati ai 4 elementi di acqua; infine, nella parte più alta c’erano gli Stati dello Scorpione, del Sagittario, del Capricorno e dell’Acquario che lavoravano in autunno-inverno ed erano legati ai 4 elementi di aria.
In quel giorno di udienza estiva si notava una certa confusione: i 12 delegati erano in subbuglio perché nelle 12 Nazioni, in tutte, si stava verificando un fenomeno davvero insolito: i serpenti di tutte le razze si riproducevano in modo impressionante ed erano serpenti sapienti e parlanti, non strisciavano solo, ma si ergevano e davano consigli cosicché la gente sempre più frequentemente li teneva in casa arrotolati negli angoli dei soggiorni, li nutriva di latte e miele e permetteva loro di sorvegliare i bambini piccoli.
Qualcosa stava cambiando in tutto il paese e gli abitanti acquistavano a poco a poco una civiltà “serpentina”.
L’Imperatrice chiese ai delegati di tornare entro le 24 ore con il serpente più sapiente che ognuno di loro avesse trovato nel territorio di sua competenza e, entro le 24 ore prescritte, 12 serpenti sapienti e parlanti si arrotolarono ai piedi della Sovrana. Impugnando lo scettro d’oro di fronte al quale la menzogna non esiste, l’Imperatrice domandò ai serpenti di esporre le loro intenzioni e soprattutto di giustificare il loro intervento straordinario sui suoi sudditi.
Il serpente dello Stato del Toro (terra di terra) e quello dello Stato del Sagittario (fuoco di aria), con le code intrecciate fra loro si presentarono quali esponenti di tutti i 12 serpenti:
“Abbiamo deciso di completare l’opera iniziata dal nostro Grande Avo nel giardino dell’Eden. Ora gli abitanti di questo impero sono pronti, e se seguiranno ancora per un po’ i nostri consigli diverranno davvero (finalmente!) simili a Dio”.
“E che cosa consigliate loro?…non sarà mica ancora la storia della mela, con tutti i guai che ha provocato! Sarebbero ben sciocchi a darvi retta”.
“No, no”, risposero all’unisono i due serpenti, “stavolta i consigli non presentano pericoli di sorta, gli insegniamo solo la pulizia, l’ordine, la collaborazione”.
L’Imperatrice in effetti non si fidava troppo della tanto ostentata onestà dei due serpenti, ma credeva nel potere del suo scettro e li ascoltò fino in fondo. Quelli chiacchierarono e chiacchierarono di ristrutturazione pianificata della natura, di liberazione collettiva dai complessi e dalle costrizioni psichiche secolari, di uguaglianza di funzioni e di diritti e non la finivano più di portare dati e statistiche a convalida delle loro asserzioni.
Alla fine, come Dio volle, tacquero.
“Orbene”, disse l’Imperatrice, “vi do il tempo di 12 lune nuove per portare qui anche un solo esemplare di uomo-Dio; se mi dimostrerete di averlo divinizzato con i vostri sistemi, potrete continuare la vostra opera, altrimenti tornerete allo stato di serpenti striscianti e muti”.
12 lune nuove più tardi i delegati delle 12 Nazioni non si presentarono, e nemmeno i serpenti. Allo scadere del tempo stabilito l’Imperatrice dovette aprire le sue immense ali e volare sul suo territorio per rendersi conto personalmente della situazione.
I serpenti erano diventati i signori delle 12 Nazioni e su tutti regnavano in connubio il serpente dello Stato del Toro e quello dello Stato del Sagittario. Insieme agli altri 10 serpenti essi formavano il Dragone alato a 12 teste.
L’Imperatrice, sdegnata della loro impudenza, se ne tornò sul suo Trono e immediatamente chiamò l’Arcangelo Michele. Con l’autorità conferitagli dallo scettro e dall’aquila del suo blasone gli ordinò di catturare il dragone a 12 teste. L’Arcangelo Michele che non aspettava altro da millenni si precipitò con le sue schiere e ci fu battaglia in cielo e in terra.
Il dragone fu incatenato e portato ai piedi dell’Imperatrice la quale pose il piede destro sul suo capo.
In quello stesso momento l’Impero tutto si trasformò, le stelle della corona dell’Imperatrice cominciarono a ruotare, l’aquila del blasone prese il volo e lo scettro rifulse nello splendore della Parola di Potenza tracciata dalla mano dell’Imperatrice e l’Adamo che costituiva l’insieme delle Nazioni divenne Dio.
È per questo che ogni volta (da sempre) il serpente può alzare la testa e dar consigli.

 

4.  L'IMPERATORE

 

 E’ questa la storia dell’Imperatore, e quando si dice dell’Imperatore si intende dire piuttosto del “Messaggio per l’Imperatore”; il fatto è che, se si riuscisse a portare il famoso messaggio, tutti i problemi sarebbero risolti; infatti Lui, l’Imperatore, è l’unico che, tutto potendo, può esaudire le richieste del Messaggero.
Ma l’Imperatore è sempre troppo in alto, il suo Trono cubico troppo perfetto, la sua corazza troppo impenetrabile, il suo scettro troppo potente; come giungere fino a Lui? Come fargli avere il Messaggio?
Quella mattina di agosto, nonostante il caldo afoso, il Messaggero indossò l’abito da cerimonia e, fattosi coraggio, bussò all’imponente Castello dell’Imperatore. Dove si trova il Castello? Ma lo sanno tutti dov’è il Castello dell’Imperatore, solo che i più non lo vedono perché è avvolto dalla nebbia e gli passano accanto senza accorgersene!
Dunque il Messaggero bussò ed una voce che veniva da tutte le parti e da nessuna in particolare gli chiese che cosa volesse.
“Parlare con l’Imperatore”.
Gli fu detto di aspettare nell’atrio, ma Egli, memore dell’inutile attesa di tanti altri messaggeri, pensò che non era il caso di aspettare in eterno che “nessuno” lo chiamasse; allora valicò il portone ed entrò.
“Devo mostrare di essere pratico del posto”, si disse, “aver l’aria tranquilla e l’atteggiamento di quello che non vuole essere disturbato perché ha fretta e non ha tempo da perdere”.
Nessuno gli chiese nulla, nessuno gli sbarrò il passo e si trovò così nella sala base, detta la Sala del Fondamento. Il soffitto era come un vasto cielo e la luna vi appariva in tutte le sue fasi; il paesaggio era quello del deserto con dune di sabbia e palme in lontananza, a sinistra e a destra due corridoi larghi e addobbati sontuosamente; al centro una piccola scala ripida che portava al piano di sopra.
Dagli studi fatti in precedenza sulla topografia del Castello sapeva che il corridoio di sinistra portava alla Sala detta dello Splendore, la Sala degli ambasciatori, dei commerci con l’estero, mentre il corridoio di destra portava alla Sala detta della Vittoria, la Sala delle ricchezze minerali e della produzione agricola del paese, della cura e della riproduzione degli animali e delle piante.
Con grande sforzo riuscì a vincere l’attrazione che esercitavano su di Lui i due corridoi laterali e con somma circospezione mise il piede sulla scaletta stretta che dava di sopra.
Un immenso salone lo accolse al termine della salita, un salone tutto solare; guardando nelle diverse direzioni si riceveva il calore del Sole, come nelle diverse ore del giorno ed a seconda della posizione il Sole era primaverile o estivo, autunnale o invernale. In realtà quello non era un salone, ma un vero giardino con le piante più svariate, i fiori più splendenti.
Era quella la Sala detta della Bellezza.
Anche qui c’erano due larghi corridoi ai lati, uno che dava sulla Sala detta della Forza, in cui si amministrava la difesa dell’Impero, a sinistra; l’altro, a destra, dava sulla Sala detta della Giustizia, dove si facevano le leggi e le si facevano rispettare. Avrebbe dovuto esserci un’altra scaletta per andare ancora al piano superiore, ma non c’era.
“Eppure deve esserci”, si disse il Messaggero, perché vedeva il piano di sopra come si vede una terrazza dal basso.
“Dovrò saltare” pensò, ed era tutto preoccupato, perché conosceva le sue scarse qualità di “saltatore”.
Inoltre i sentieri di sinistra e di destra lo invitavano con musiche e canti melodiosi… come resistere?
Eppure Egli sapeva che l’Imperatore era proprio al piano di sopra… bastava forse chiamarlo, ma “come” si chiama un Imperatore?
Gridare: “Ehi, Imperatore, sono qui!” non gli sembrava dignitoso, e se si fosse offeso? Ci sarebbero volute le ali per salire di sopra senza scale e senza ascensore.
“Bisognerà che ne cerchi un paio!”. Ma qualcosa, proprio al centro dietro le spalle, gli stava procurando un piacevole fastidio, qualcosa che voleva mettersi in movimento… l’assecondò e due alucce, prima piccine, poi sempre più grandi cominciarono a vibrare…
“Allora posso volare!”.
La terza sala al piano superiore era indescrivibile; la luce era insieme lunare, solare, stellare; l’ambiente avrebbe potuto essere in qualunque modo lo si fosse desiderato, sarebbe bastato “pensarlo” e sarebbe stato sempre perfetto e reale. Al centro della sala era un enorme Trono cubico tutto d’oro.
Il Messaggero avanzò fino ai piedi del Trono e poi ancora, spinto da una forza interna che lo guidava. Sedette sul Trono. Una Corona scese dall’alto e gli si posò sul Capo, lo Scettro comparve nella sua mano Destra, la Corazza con i simboli solari e lunari gli rivestì il petto.
L’Imperatore era Lui. In fondo l’aveva sempre saputo.
E ora, che doveva fare?
Aspettare seduto sul Trono che qualcuno venisse a portargli il Messaggio era altrettanto noioso quanto aspettare seduto nell’atrio di poter recare il Messaggio. Bisognava trovare la soluzione che trascendesse il recare e il ricevere il Messaggio.
Guardò in su, oltre la Luna, oltre il Sole, oltre le Stelle.
E non ci fu più Castello, né Sala del Trono, né Trono.
Né Messaggeri, né Messaggi, né Imperatori.
Solo l’Infinito.

 

5.  IL PAPA

 

 Aveva cominciato assai presto ad interessarsi “delle cose dello Spirito”; quando gli altri giovani della sua età scherzavano e ridevano fra loro, lui viveva sempre un po’ appartato, come se appartenesse ad un altro mondo, diverso da quello comune… poi, un bel giorno, sentì proprio la vocazione: “Mi faccio prete”, disse ed entrò nell’Ordine. Studiando etica, religione, filosofia e teologia, prese i sette gradi e fu sacerdote.
Poi fu consacrato vescovo, poi cardinale e, quando morì il Pontefice, fu eletto e divenne Papa. Per i primi tre anni tutto andò bene; ogni giorno Sua Santità riceveva i rappresentanti dei suoi fedeli: quelli attivi e quelli passivi, quelli razionali e quelli mistici, quelli progressisti e quelli conservatori e a tutti dava direttive, consigli, disposizioni; calmava gli uni, sollecitava gli altri, visitava diocesi, riceveva capi di stato con somma diligenza; ma all’inizio del quarto anno cominciò ad accusare il peso delle eccessive preoccupazioni e responsabilità.
Gli stava bene il potere del Pastorale, bene la forza dell’Anello, ma la Tiara col Triregno oltre a “pesargli” sul capo, gli “stringeva” anche la testa come quei sudditi-fedeli che non erano mai contenti, che lo volevano, lo toccavano e non lo lasciavano mai in pace. Si sentiva soffocare.
Una mattina annunciò di aver bisogno di una settimana di vacanza e prese residenza in un bel monastero ai piedi di una montagna con un piccolissimo seguito. “Il Papa è ammalato” si bisbigliava nella curia, ma che bisbigliassero pure, Lui non ne poteva più e non voleva vedere nessuno.
Digiunò per tre giorni, al quarto giorno, all’alba, riuscì ad eludere la sorveglianza dei suoi due segretari privatissimi e s’incamminò, tutto solo, per una passeggiata su per la Montagna.
Era ancora distante dalla cima, quando si sentì chiamare col suo nome di battesimo (ormai nessuno lo chiamava più così). “Chi mi chiama?”, chiese. “Sono Io, il tuo Dio; finora hai fatto un buon lavoro e perciò ti ho permesso di diventare Papa, il mio Vicario in terra, ma per essere veramente tale devi offrirmi tuo Figlio. È per questo che ti ho chiamato, voglio che tu faccia come Abrahamo, che tu prenda la legna ed Isacco e che sulla cima della Montagna lo sacrifichi a Me.
“E chi è il mio Isacco?”.
“Non lo sai?, sei il ”Padre” della cristianità e non sai chi è il tuo Isacco? Ma è il tuo pontificato! Già… vedo che non l’hai con te e che lo hai lasciato ai piedi del monte non per non sacrificarlo, ma perché ti pesava portarlo su… Non era questo che intendevo quando ti ho concesso di diventare Papa.
“Scendi subito giù e prenditi a cuore tuo Figlio e torna quando sarai pronto a sacrificarlo”.
Fare un bel falò dei suoi opprimenti fedeli non era in fondo una cattiva idea. Il difficile era portarli lassù. Il difficile era quello. Tornò a valle e ricominciò il suo lavoro di tira e molla, di stringere dove era largo e allargare dove era stretto, togliere dove era troppo e aggiungere dove era poco e al termine del 7° anno del suo pontificato credette di essersi occupato abbastanza dei suoi fedeli da poterli portare “su” e sacrificare.
Tornò allo stesso monastero e all’alba del giorno seguente tentò per la seconda volta la scalata della Montagna. Ora portava il pontificato nel cuore.
Ancora la Voce lo chiamò per nome ed egli rispose: “Sono pronto a sacrificare mio Figlio, lo vuoi?”.
“Tu credi di essere pronto, ma non lo sei ancora. Non devi avere tuo Figlio allo stomaco, come l’altra volta, né nel cuore, lo devi portare in mezzo agli occhi. È allora che lo voglio sacrificato”.
Tornò da suo popolo. Gli si dedicò completamente e quando gli fu diventato più caro delle sue pupille, sentì di poter tornare alla Montagna.
“Ora voglio che me Lo sacrifichi”, disse finalmente la Voce, quando egli raggiunse la cima.
“Ora Lo devi ardere sulla legna dell’olocausto”.
“Ma io non ho legna con me”.
“La tua legna sono i tuoi pensieri. Quando li avrai bruciati sotto tuo Figlio, allora sarai il vero erede di Abrahamo”.
Non ci fu angelo a fermare la mano che recideva la gola del Figlio. Non ci fu capretto a sostituire il Figlio. E neppure più il Figlio.
Nessun Papa. Nessuno.

 

6.  IL BIVIO

 

 Era tanto tempo che aveva cominciato il viaggio. La strada era lunga, spesso con ostacoli ma, a volte con maggior fatica, a volte con minore, era sempre riuscito ad andare avanti. Il suo aspetto era quello di un giovane viandante senza grandi problemi. Andava e pensava spesso ad una zuppa di minestra e ad una accogliente locanda dove riposare. Andava e spesso ricordava il passato; c’erano state due donne nella sua vita: tutt’e due belle, tutt’e due desiderabili, tutt’e due amorevoli. Una era estroversa, sempre allegra, espansiva, l’altra introversa, malinconica, misteriosa. Egli era stato affascinato in tempi diversi dalle due fanciulle ed ora le serbava entrambe nel cuore, consapevole di dover decidere prima o poi la scelta della bionda o della bruna.
Ma rimandava la decisione.
Quel giorno di autunno non si sarebbe mai aspettato di incontrarle tutt’e due; erano lì, davanti a lui, su due viottoli diversi, proprio al termine del sentiero che stava percorrendo: una a destra, una a sinistra, una allegra e sorridente, l’altra tutta seria e compunta.
Il primo impulso fu quello di fare dietro-front e di darsela a gambe, ma sentì di non poterlo fare, prima di tutto perché le avrebbe perse entrambe e poi perché, voltandosi e alzando gli occhi, aveva visto in cielo sopra le sue spalle un angioletto tutto nudo librarsi in aria con l’arco teso e la freccia pronta.
Lo riconobbe subito. Non aveva scampo. Avrebbe dovuto decidere.
Intanto le ragazze lo avevano riconosciuto. Quella di destra, bionda, sorridente, gli rivolse la parola per prima: “Ciao! Come stai? Quanto tempo è che non ti vedo! Vuoi venire con me? Tu sai che io porto con me il Sole, la Gloria, la Giustizia, la Saggezza”.
Allora la bruna, la ragazza tutta seria, subito lo apostrofò: “Come, non sei già mio? Sai bene che in me hai sempre trovato la Luna, lo Splendore, la Forza, la Comprensione! Non andare con lei, ma vieni con me e sarai felice!”.
Le gambe gli tremavano quando giunse proprio al bivio. Sentì venir meno le sue forze, perché tutte e due lo attiravano con le loro seduzioni e non sapeva che fare.
Intanto le due fanciulle si erano voltate le spalle e parlavano con lui senza guardarsi, facendogli notare i difetti l’una dell’altra.
Quella di destra diceva che la rivale era sempre immusonita, sempre con le lacrime in tasca, sempre talmente chiusa in se stessa che egli non avrebbe mai saputo di preciso cosa aspettarsi da lei.
Quella di sinistra invece diceva dell’altra che era sempre troppo allegra e vivace, che parlava troppo, che non avrebbe mai saputo mantenere un segreto.
Il povero giovane si sentiva tagliare a metà e, quel che era peggio, sentiva che la sua parte destra andava con la ragazza di sinistra e la sua parte sinistra andava con la ragazza di destra.
Questo taglio incrociato gli procurava una sofferenza terribile perché in effetti le amava tutte e due, anzi era pazzamente innamorato di entrambe.
Se non voleva diventare un burattino in balìa delle due donne ed essere vivisezionato, doveva reagire e prendere in mano la situazione.
Prima di tutto farle star zitte. Quella era la prima cosa da fare e, lanciando un urlo ben calibrato tale da soverchiare le risa e i lamenti delle due, ci riuscì.
“Sentite, ragazze”, disse loro, “state calme, prima di tutto è bene che io vi presenti; forse voi avete sentito parlare l’una dell’altra, ma se dobbiamo stare insieme è giusto che vi conosciate un po’ meglio ed impariate i vostri pregi reciproci e non i vostri difetti. Per andare d’accordo bisogna tener presente solo le buone qualità (e non le cattive) della persona che ci sta vicino. Vedi, Nera (così si chiamava la bruna), Bianca (così si chiamava la bionda) è così affettuosa, sempre pronta a dare, sempre pronta a espandersi, sempre pronta a illuminare. E tu, Bianca, ascolta: anche Nera è impagabile nelle sue qualità; è sempre pronta ad accogliere, sempre pronta a conservare, sempre pronta a nascondere nella sua oscurità riposante; io vi amo tutt’e due e se voi riuscirete ad andare d’accordo, potremo vivere tutti e tre in armonia, altrimenti saremo infelici tutti e tre.
Nera era tutta corrucciata, ma Bianca le sorrise e così cominciarono a parlare fra loro.
L’Innamorato le prese tutte e due per mano e proseguì nella stessa direzione da cui era venuto oltrepassando il Bivio. Lì la strada non c’era, ma il Sentiero lo tracciavano loro tre, camminando insieme.
In lontananza si vedeva la Città con le cupole tutte d’oro. Laggiù era la vera Casa del Viandante ed egli ci sarebbe arrivato solo se avesse continuato a tenere per (= in) mano le due Donne, guidandole fino alla Meta.

 

7.  IL CARRO

 

Il guerriero vittorioso, reduce dalle ultime battaglie, mentre riposava sotto la tenda, aveva ricevuto il messaggio dalle più alte autorità del reame: “Nel giorno dedicato ai festeggiamenti per la Vittoria, tra 7 gg., sarai acclamato dalla folla ed avrai il ringraziamento del Re. Dovrai presentarti sul Carro trainato dalle due Sfingi e, impugnato lo scettro, guidarlo fin sotto il trono del Re che ti cingerà il capo con la corona d’alloro”.
Che al vincitore di numerose battaglie spettasse il trionfo sul carro, lo sapeva; quando era semplice soldato aveva egli stesso acclamato altri guerrieri, ma gli sembrava che si trattasse di guerrieri che salivano su carri normalmente trainati da cavalli, più o meno adorni e con dietro legati i prigionieri. Questa storia delle due Sfingi lo rendeva perplesso.
Eppure sul messaggio era proprio scritto: “Dovrai presentarti sul Carro trainato dalle due Sfingi…”.
Come erano le Sfingi? Ne aveva mai viste? Come si controllavano? Cercò di tornare indietro con la memoria ai suoi viaggi per terra e per mare o alle visite che aveva fatte a Palazzo prima di partire per la guerra e non ricordava di aver visto Sfingi né in terra, né in mare, né nelle stalle, né nei giardini reali. Dunque?
Mancavano ancora 7 gg., alla data fatidica. Pensò: “Sarà bene che mi informi da qualcuno su dove si possono trovare le Sfingi e come conoscerne la natura. Ma da Chi farmi consigliare?”.
Gli avevano detto che in un bosco non lontano viveva un vecchio saggio, che tutti reputavano Santo. “Andrò da lui”, disse. Lasciò tutte le armi, prese con sé solo la spada ed una buona provvista di pane ed olio da offrire al vecchio. Entrò nel bosco. Dopo 12 ore di cammino giunse ad una capanna costruita presso un ruscello di acqua sorgiva. Chiamò il vecchio, ma nessuno rispose. Bussò più volte inutilmente alla porta della capanna, poi spinse l’uscio che era socchiuso ed entrò.
“L’aspetterò qui”, decise. Mise i doni sulla tavola, si accostò al focolare, dove ancora ardevano alcune braci e, sdraiatosi su una pelle che era in terra, si addormentò. Qualche ora più tardi, doveva aver dormito 3 o 4 ore, sentì entrare qualcuno e vide un vecchio con la barba lunga. Si alzò, lo salutò molto rispettosamente e gli spiegò il motivo della visita.
Il vecchio lo ringraziò dei doni e lo invitò a fare le domande, avrebbe avuto le risposte giuste, nei limiti delle sue conoscenze.
Ed ecco le domande: Perché avrebbe dovuto guidare un carro trainato da Sfingi e non da cavalli? Dove avrebbe trovato le due Sfingi? Come avrebbe potuto renderle docili?
Il vecchio spiegò subito che un guerriero comune guida un carro trainato da cavalli, ma “il Guerriero” guida un Carro trainato da Sfingi. Se lui dunque era un Guerriero (e l’invito del Re lo faceva supporre) doveva prima di tutto costruirsi il Carro, poi “vedere” le Sfingi e infine imparare a conoscerle. Gli poteva dire solo che le Sfingi erano una bianca e una nera; quella bianca andava legata a destra del Carro, era la Sfinge che aveva la tendenza ad andare troppo avanti; quella nera andava legata alla sinistra del Carro, era la Sfinge che aveva la tendenza a rimanere indietro; erano insieme docili e ribelli, mansuete e feroci, ma una volta “viste” e legate, non era poi impossibile governarle. La cosa più difficile era “vederle”.
“Il Carro, l’hai preparato? Hai tempo 3 gg., per costruirlo e 3 gg., per “vedere” e addomesticare le Sfingi. Non perdere tempo. Una lastra di pietra quadrata sarà la base del Carro. Il parapetto tutt’attorno, delle stesse misure lo otterrai con il legno del fico che è a destra della capanna, le quattro ruote con il legno della mimosa che è a sinistra, dopo averlo bagnato nell’acqua del ruscello che scorre qui fuori. Il baldacchino lo farai di foglie e ci dipingerai sopra le stelle, quelle che ti guidano nel tuo destino, sul davanti del Carro porrai il Fuoco a indicare l’ardore con cui porti avanti la tua missione”.
Il giovane Guerriero costruì il Carro come gli era stato consigliato, nei 3 gg. previsti. Ora doveva “vedere” le Sfingi. Ci mise un giorno intero, ma al termine del 4° giorno, le aveva “viste”; con la testa di donna, il corpo di leone, la coda di serpente, le ali dell’aquila.
Il 5° e 6° giorno furono dedicati alla “domazione”: mano di ferro in guanto di velluto, la stessa tecnica che aveva con i suoi soldati per vincere le battaglie. Quello che richiedeva più impegno con la Sfinge bianca era farla guardare al centro, ma quando ci riusciva, diventava docile; doveva trattenerla e tirarla verso sinistra. Il contrario con la nera, doveva sollecitarla e tirarla a destra.
Due giorni di esercitazioni l’avevano esaurito, ma prima di partire il vecchio gli offrì una tazza di latte e miele e subito le forze gli tornarono.
Era l’alba del 7° giorno. Doveva affrettarsi se voleva arrivare in tempo per la cerimonia. Giunse davanti al trono del Re a Mezzogiorno. Le due Sfingi si inginocchiarono, egli scese e si avvicinò al trono; il Re si alzò in piedi, gli cinse il capo con la corona degli eroi, lo abbracciò e gli sussurrò all’orecchio: “Ora sei davvero il Guerriero. Solo a chi riesce a “vedere” le due Sfingi e a dominarle è degno di Governare il Mondo. Ti darò mia Figlia in isposa e ti farò mio erede”.
E così fu.
Dicono che poi, molti anni dopo, Egli abbia trovato lo Sposo per Sua Figlia nella stessa maniera.
A noi pare strano… ma sapete come sono ingenue le favole!…

 

8.  LA GIUSTIZIA

 

Quando, all’inizio dei tempi, erano state assegnate le parti, la Dea aveva accettato di buon grado di interpretare “la Giustizia”. Un comodo trono, una corona a otto punte molto lucente, anche se non d’oro, una spada diritta e sfolgorante ed una bilancia molto precisa… già, la bilancia! Lì aveva commesso un errore di valutazione; non aveva calcolato quanto fosse precisa quella bilancia e quanto impegnativo doverla tenere in equilibrio in continuazione. Ma finché le variazioni dei costumi e delle abitudini erano state lente, millennio dopo millennio, le piccole correzioni avevano richiesto naturalmente la massima accuratezza e attenzione, ma le avevano sempre permesso di trovare il tempo per rilassarsi tra un ritocco e l’altro dei piatti; invece, da quando le variazioni avevano cominciato a prendere il ritmo più vorticoso, in continua accelerazione, dall’inizio del secolo in poi, per intenderci, non riusciva più a stare dietro al suo compito con serenità.
Certo, il principio era sempre quello: “Unicuique suum tribuere”, attribuire a ciascuno il suo, ma quale era il “suo” da attribuire se il criterio di “suo” variava in continuazione?
La mano che teneva la bilancia ormai, per la continua tensione, non stava quasi più ferma. L’occhio sempre vigile e attento, cominciava  lacrimare per il troppo fissare. Il braccio che teneva la spada si stava irrigidendo per lo sforzo di tenere su la lama che tendeva continuamente a scendere. Insomma, a farla breve, stava rischiando un quanto mai “ingiusto” esaurimento nervoso!
Già altre due volte, sempre nel corso dell’ultimo secolo, aveva richiesto alle Autorità Superiori di essere dispensata da quel suo lavoro divenuto troppo faticoso, almeno per un piccolo periodo di tempo, ma tutte e due le volte le era stato risposto laconicamente che, avendo accettato la parte all’inizio della Rappresentazione, doveva portarla avanti fino in fondo. Certo non poteva prendersi la responsabilità di far fallire tutto lo Spettacolo solo per la sua, diciamo così, “salute delicata”. Dunque stringeva i denti e tirava avanti. Fino a quando avrebbe resistito? Non lo sapeva neppure lei!
Quella mattina di dicembre faceva freddo, il tempo era piovigginoso ed umido ed ella era stanchissima, aveva assoluto bisogno di riposo: mandò alle Autorità Supreme la terza richiesta di temporanea sostituzione.
A metà mattinata, una mattinata uggiosa che pareva non finisse mai, a palazzo di Giustizia si presentò una Colomba tutta bianca, bellissima, che chiese di parlare direttamente con la Dea.
Data la stranezza della richiesta, anche la procedura divenne insolita, furono aperte immediatamente le porte dell’Aula Magna e la Colomba volò fino al trono della Giustizia e si appollaiò sulla sua spalliera, in cima, a destra.
La Dea stette un attimo perplessa: già in precedenza un Altissimo Personaggio era apparso in Forma di Colomba e con il Suo intervento aveva mutato il corso della Storia, tuttavia essa, senza scomporsi in apparenza, anche se in cuor suo si era già quasi pentita di aver inoltrato la richiesta di licenza, domandò alla Colomba in che modo potesse “renderle Giustizia”.
Pensava: “Potrebbe anche essere una banale questione di una colomba a cui un falco qualsiasi ha mangiato il compagno. In tal caso spiegherò pazientemente, come al solito, a questi ingenui animali come funziona il ”giuoco”: ogni essere vivente mangia qualcosa ed è mangiato da qualche altra cosa, fino all’essere più alto nella scala della creazione, l’uomo, che mangia di tutto ed è mangiato alla fine dai vermi, chiudendo così il ciclo in Giustizia…”.
Ma no, quella non era una colomba a cui bisognava spiegare la giustizia elementare, Quella era una Colomba Speciale, come aveva intuito all’inizio. Non chiedeva giustizia per sé, purtroppo, le chiedeva conto del suo operato: “Hai fatto domanda di un periodo di riposo, come mai?”
“Sono stanchissima, non ce la faccio proprio più: ho cercato di fare del mio meglio, ma non posso proprio più continuare!”, si giustificò la Giustizia.
“Ci deve essere qualcosa che non va nel tuo modo di fare, perché quando abbiamo allestito lo Spettacolo, all’inizio, tutto era perfetto. Se non ti riesce di recitare bene la tua parte, vuol dire che hai cambiato qualcosa nel corso dei millenni. Fammi vedere come fai a bilanciare i due piatti”.
“Quando uno va giù, azionando l’asta centrale, porto il peso sull’altro”.
“Ecco l’errore! Così non finisci mai! Non devi passare il peso da un piatto all’altro, devi ammortizzare il peso in eccesso nel braccio. Questa è la Legge del Perdono. La Giustizia senza la Grazia provoca reazioni all’infinito, con la Grazia invece dà Equilibrio. Devi diventare la Dea dalla Grazia e della Giustizia, se vuoi essere rilassata, serena e in Pace. Io te lo posso dire, perché sono la Colomba della Pace”, così detto, volò via.
La Giustizia comprese; modificò il suo modo di azionare il braccio e divenne la Dea della Grazia e della Giustizia. E cominciò a sorridere.
Fu così che cessarono tutte le guerre ed ebbe inizio la cosiddetta Età dell’Oro.

 

9.  L'EREMITA

 

Una grande distesa di mare… mare dappertutto; un’infinita distesa di acqua plumbea, autunnale… un isolotto con una capanna di paglia e nella capanna un eremita.
I gabbiani lanciavano i loro gridolini striduli pescando rapidissimi ora sulla riva dell’isolotto, ora più al largo, soli o a gruppi.
L’Eremita ogni tanto lasciava le sue meditazioni e usciva sulla porta a guardare. I gabbiani si erano ormai abituati a lui e non fuggivano più.
Anzi, si aspettavano quasi di essere invitati ad un colloquio o, più probabilmente, ad un banchetto meno faticoso di quello che si procuravano da se stessi ogni giorno.
L’Eremita li guardava con affetto, quasi con tenerezza, avrebbe voluto offrire a briciole quel poco pane ed olio che gli restava delle sue provviste, le ultime di quelle che gli avevano lasciato i suoi compagni 40 giorni prima, quando la loro barca si era staccata per l’ultima volta dall’isolotto. Ma più guardava quegli uccelli e più si rendeva conto di quanto fosse pazzo quel suo desiderio di nutrirli.
Tra lui e i gabbiani si svolgeva ora un sottile gioco di comunicazione, sembrava che essi lo chiamassero o che rispondessero a una “sua” chiamata. Erano piccoli e indifesi, di forma elegantissima nell’aria, piccoli e tozzi a terra; e quel loro stridio pareva a tratti un lamento, una supplica, una richiesta di aiuto, o solo forse un grido di guerra.
Finalmente il gabbiano più coraggioso guardò l’Eremita negli occhi e gli chiese: “Allora vuoi deciderti a darci da mangiare? Siamo affamati!”.
L’Eremita, che ormai parlava anche il loro linguaggio, gli rispose: “Ho tanto sperato di comunicare con voi in questi quaranta giorni, e di darvi il mio cibo, ma ormai ne è rimasto talmente poco… e voi siete tanti. E poi, poco fa ho sentito la voce di mia Madre che mi diceva di stare attento a voi. Siete piccoli e indifesi, ma siete anche crudeli ed avidi. Io credo che, se vi permettessi di entrare nella mia capanna, qualora non avessi più cibo da darvi, spolpereste anche le mie ossa”.
“Certo”, rispose il gabbiano con una luce di desiderio negli occhi. “E se tu fossi diventato il Vero Eremita, ce lo lasceresti fare volentieri, lieto di essere cibo per noi. Tutti i Maestri si sono lasciati spolpare dai loro discepoli, è il nostro grande amore di Te che deve consumarti. Come potresti arrivare dove Tu vuoi se non ti lasciassi assorbire da noi?”.
Intanto il sole, uscito da dietro la coltre di nubi, calava lentamente all’orizzonte, sul mare divenuto d’argento.
L’Eremita lottava ancora con se stesso, non riusciva a decidersi a far entrare i gabbiani, a tratti udiva la voce di suo Padre che gli diceva di “aprire la porta”, ma ancora risuonava l’eco della voce di sua Madre che gli diceva di tenerla chiusa.
Il sole calava sempre di più all’orizzonte, e si era immerso a metà nel mare, e il mare nel frattempo aveva mutato i suoi riflessi d’argento in oro.
L’Eremita spalancò la porta ed i gabbiani si precipitarono dentro, mangiarono tutto quello che c’era, poi quando non ci fu più nulla presero a divorare il corpo dell’Eremita che si era sdraiato sull’altare.
Il sole era tramontato e all’orizzonte si profilava la barca che avrebbe portato il nuovo eremita.
Nella capanna finalmente non c’era più nessuno, nemmeno i gabbiani, solo il Grande Silenzio.

 

10. LA RUOTA DELLA FORTUNA

 

Era una mattina tiepida di settembre inoltrato ed il Navigatore Solitario, che aveva visitato tutti i porti della costa e sostenuto l’impeto di numerose bufere, si trovava in mezzo al mare tempestoso, senza vedere all’orizzonte alcuna possibilità di asilo per il suo modesto battello; egli era ormai dal giorno prima quasi senza più acqua e cominciava ad impensierirsi.
Certamente navigare gli era sempre piaciuto, anche se spesso si domandava perché mai non si fosse fermato definitivamente in qualche porto, come aveva visto fare a tanti suoi compagni. In fondo non era più un ragazzo ed un po’ di tranquillità gli sarebbe stata anche bene; il fatto era che, dopo essere stato i 3-4 mesi d’inverno a terra, insieme alla gente normale, gli tornava quella smania folle di solitudine e di spazi, di rischi e di sfide… riprendeva quindi la sua navicella e andava.
Questa navicella era una barchetta a due colori, bianca e nera, molto maneggevole, che si era costruito da solo quando aveva capito che gli piaceva navigare in acque alte senza che qualcuno gli dicesse “come e dove” andare. Aveva un piccolo motore che si era costruito sempre da solo ed un bel timone con una ruota a due cerchi e otto raggi, proprio come i timoni delle grandi navi, intagliato nel legno con arte, di cui era orgogliosissimo.
Mentre cercava di mantenere la rotta che aveva calcolato sulle sue carte per poter imboccare il canale, risalirlo e raggiungere il porticciolo più vicino, sentiva che la forza dell’acqua lo trascinava lontano e, pur mettendo in atto tutta la potenza del suo piccolo motore, non riusciva a portarsi in posizione tale da “vedere terra”.
Se almeno avesse piovuto un po’ avrebbe almeno risolto il problema della sete, invece il cielo, pur essendo coperto, non pareva disposto a “piangere” per lui!
Solo al tramonto il mare sembrò calmarsi, ma ormai il motore, spinto al massimo per tanto tempo, aveva bisogno di raffreddarsi e lo dovette spegnere.
Decise allora di gettare l’ancora: la prima volta non fece presa e nemmeno la seconda; l’ancora arava il fondo che era sabbioso e non dava appiglio; finalmente al terzo lancio riuscì. Aveva contato i metri di cima calati: erano 33.
Allora si rilassò. Bevve dalla borraccia le ultime gocce di acqua e gli parve di avere più sete di prima. Si stese sul fondo della barca ripromettendosi di tornare a terra non appena spuntata l’alba e chiuse gli occhi.
Dopo qualche tempo, forse pochi minuti, avendo udito un fruscio insolito, aperse gli occhi e guardò il timone: lo vide stranamente ingrandito (probabilmente a causa della sete e della luce ormai crepuscolare) e con sopra due strani animali; quello a sinistra aveva la testa di capra, il corpo di rana ed un forcone nella mano destra, era più un diavolo che un pesce, con la testa in giù, sembrava tirare la ruota del timone in basso e trattenerla. A destra della ruota c’era un altro strano essere col muso di cane ed il corpo quasi umano; nella mano destra teneva il caduceo ermetico, anch’esso sembrava un demone, ma favorevole e positivo quanto l’altro pareva contrario e negativo; questo infatti spingeva in su la ruota del timone e aveva la testa in alto. Che cosa avrebbero fatto i due bestioni, sarebbero scesi dal timone?
Il forcone del demone di sinistra era molto poco rassicurante! Il caduceo poi, sembrava mandar scintille e sicuramente era ancora più pericoloso.
Come se non bastasse, dal fondo della barca, quella che era sempre stata un pezzo di corda legata alla gaffa, si innalzava lungo l’asse del timone, formando due serpenti che si incrociavano tra loro; uno bianco, uno nero.
Alzò gli occhi e, al di sopra del timone, vide una sfinge impenetrabile, ieratica, con la spada sguainata in mano.
“Che vuol dire tutto ciò?”, ebbe il coraggio di chiedere il Navigatore Solitario, “Che cosa volete da me?”.
“Perché ti meravigli di ciò che vedi?”, gli domandò in risposta la Sfinge, “questo è l’aspetto più vero della tua navicella, quello che non vedi mai! Pensi davvero di guidare tu il Timone? In realtà, quando non ti riesce di governare la barca, come oggi, è perché il demone di sinistra ti ostacola, e allora dici che ”la fortuna ti è contro”; quando invece ti pare che tutto vada bene, allora è il demone di destra che ti favorisce, e allora tu dici che ”la fortuna è con te”. Sono invece io, in verità, che stabilisco l’andar su o giù della ruota a seconda della forza dei due serpenti che salgono dal fondo”.
“E allora io che faccio?”, chiese il Navigatore, “sono sbattuto qua e là dalla sorte e da te come una foglia al vento, senza meta e senza scopo?”.
“No, non esattamente. Prima di tutto la navicella l’hai costruita tu. Navigare l’hai deciso tu e poi le forze dei due serpenti, quello bianco e quello nero, sono le tue forze ed infine solo tua è la possibilità di vedere la fortuna nella disgrazia (e così facilitarne la salita) o la disgrazia nella fortuna (e così non ostacolarne la discesa). Io sono il Guardiano della Soglia, sorveglio tutto e soprattutto sono qui in attesa di questo momento, il momento in cui ti ”svegli” addormentandoti, come oggi. Allora io me ne vado, volo via e tu, se vuoi, puoi prendere in mano la piccola manovella che si trova sul mozzo, al centro della ruota.
Ti avverto solo che così, quando navighi, la possibilità di errore è decuplicata, perché i due demoni rimangono e non ci sono più io ad equilibrarli automaticamente”.
Il Navigatore sentì una grossa goccia d’acqua cadergli sulla fronte in mezzo agli occhi. Pioveva, finalmente! Si guardò intorno. Albeggiava. La sua barchetta aveva di nuovo l’aspetto normale, di tutti i giorni. Solo, di diverso, al centro del timone, una piccola manovella che prima non c’era.
Si scosse dal torpore di quel sonno così strano. Raccolse l’ancora con i 33 metri di corda, accese il motore e si diresse verso terra per i rifornimenti.
Ancora 40 giorni di mare, poi avrebbe passato l’inverno nel solito porticciolo, come tutti gli altri anni. Ora guidava con infinita precauzione.
Non era mai stato così attento al Timone.

 

11.  LA FORZA

 

Leo, re fiero ed orgoglioso della foresta, governava autorevolmente il suo reame già da sette anni. Era molto soddisfatto della sua posizione di sovrano di tutti gli animali: gli bastava emettere un ruggito ben modulato con la sua voce cavernosa perché tutti, eccetto la gazzella o il cerbiatto che aveva prescelto per il suo pasto, scomparissero dalla sua vista terrorizzati, in un attimo.
Tuttavia, da un po’ di tempo a quella parte, a cercar ben bene nel fondo del suo animo fiero e orgoglioso, sentiva uno strano senso di inquietudine: sì, una stranissima sensazione, annidata nell’angolino più riposto del suo intimo essere, una cosa vaga, a cui non riusciva a dare una definizione precisa.
Quella mattinata di aprile Leo aveva fatto una discreta colazione, avrebbe potuto sdraiarsi all’ombra dalla solita sequoia a schiacciare il solito pisolino ristoratore se non ci fosse stata quella strana irrequietezza. Esaminandola attentamente aveva scoperto, almeno così gli parve, che dipendeva da un profumo particolarmente appetitoso che sentiva lì in giro e di cui non conosceva la provenienza; così, invece di riposare, aveva deciso di passeggiare… ma era tanto per far qualcosa. Camminava senza impegno seguendo quella traccia di profumo, la criniera fulva al sole, gli zamponi elastici mollemente alternatisi sull’erba folta, la coda col pennacchio all’insù, in atteggiamento di baldanzosa avventura. Mentre pensava che forse avrebbe potuto assaggiare una pietanzina nuova di carne tenerella, quasi senza avvedersene si era allontanato dal folto della boscaglia e, in breve, ne aveva raggiunto i limiti.
Fu così che si ritrovò in una larga vallata con un lago al centro.
Lì sulla riva, mollemente adagiata al robusto tronco di un albero, gli apparve una visione incantevole: un essere sconosciuto, delizioso. Forse era una Cerbiatta.
Ma doveva essere una Cerbiatta straordinaria! Stava eretta sulle due sole gambe di dietro e al posto del pelo aveva una strana copertura, come i petali dei fiori, blu e viola; una criniera quasi come la sua, ma tutta d’oro e, sopra questa, una guarnizione lucente a forma di
¥, in continuo movimento, come l’acqua del ruscello quando scorre in discesa.
Ma non aveva mai cacciato cerbiatte di quel genere… che altro poteva essere? Ma ecco… sì! Poteva essere uno di quegli esseri sconosciuti di cui gli anziani, quando era piccolo e viveva nel branco, gli avevano narrato le storie… li chiamavano gli Umani, gli esseri più intelligenti della terra, quasi con il potere degli dèi, ma dai quali gli avevano raccomandato di star lontano perché avevano la brutta abitudine di distruggere tutto al loro passaggio e quando, raramente, ricostruivano, creavano ambienti assolutamente inadatti alla vita degli animali della foresta. Circa quegli Umani si ricordava pure che avanzavano in gruppo, spesso sul dorso di elefanti e attaccavano con bastoni appuntiti che sputavano fuoco.
Da lontano quella creatura non sembrava aver bastoni e neppure armi, pareva proprio una cerbiatta appetibile e indifesa. In ogni modo era più prudente avvicinarsi ancora un po’ e studiarla meglio.
L’essere non si era mosso, pareva aspettarlo e Leo ne sentì lo sguardo fisso, vellutato e magnetico.
“Perché non fugge come tutte le altre bestiole della foresta?”. Questo fatto lo seccava terribilmente. Non aveva neanche fame e avrebbe dovuto attaccarla solo per non fare brutta figura con se stesso. Lui, il Forte per eccellenza, il Leone, non incuteva dunque nessuna paura alla Cerbiatta?
Mentre si avvicinava, pensava: “Forse si tufferà nel lago all’ultimo momento e mi sfuggirà, perché certo non ho intenzione di bagnarmi il pelo per prenderla… poi, però, io aspetterò: dovrà pur uscire, e allora… ma no, non si tuffa, forse non sa nuotare. Ancora 40 passi e sarò sopra di lei… ancora 13 e sarà mia… 4 passi: adesso spicco il balzo finale…”
Ma che gli succedeva? Proprio mentre stava per lanciarsi… ecco non avvertiva più alcuna aggressività verso la Cerbiatta, anzi sentiva le zampe davanti piegarsi e la coda agitarsi festosamente… che vergogna, si stava rammollendo tutto! Arrivò quasi strisciando ai piedi della visione: era proprio una fanciulla bellissima, un sogno. Cominciò a lambirle la veste, sollecitando con la testona riccioluta le carezze delle sue mani.
Altro che feroce Leone, era ridotto a un docile cagnolone!
“Ti aspettavo da tanto tempo”, gli disse la fanciulla dolcemente.
Allora il cuore gli balzò in petto, perché il tono amorevole della voce di Lei aveva spezzato l’ultima resistenza; ora egli era completamente soggiogato dal potere sottile, irresistibile, che emanava quella Presenza.
Si era innamorato della Cerbiatta improvvisamente, inaspettatamente, miracolosamente ed era felice come non lo era mai stato prima!
La fanciulla gli accarezzava spesso la testa, lo coccolava dolcemente, dicendogli le parole più dolci, quelle che non aveva mai sentito nella sua vita, gli tirava la coda per farlo voltare all’improvviso, oppure gli tirava i sassi lontano perché glieli riportasse. Lo nutriva con cibo che aveva sempre pronto nelle sue tasche e lui, felice e obbediente, si abbandonava alla nuova vita di docile sottomissione.
Poi così, sempre per gioco, una volta Lei gli prese il muso tra le mani, con la mano destra gli afferrò la mascella superiore, con la sinistra la mandibola e, tenendogli le fauci spalancate, assorbì il fuoco dell’energia che lo aveva sempre animato, che lo aveva reso libero, indipendente e sovrano degli animali della foresta.
E poi – mi domanderete – poi, che avvenne?
Ma è semplice immaginarlo!
Quando il Leone viene assorbito dalla sua controparte sottile, muore come Leone e rinasce come Drago… ma questo lo vedremo un’altra volta!

 

12.  L'APPESO

 

 

Sua madre gli aveva sempre raccomandato di non frequentare cattive compagnie.
“Finirai male!”, lo avvertiva quando rincasava tardi con la testa piena di discorsi assurdi, il colletto della camicia sbottonato, la cravatta di traverso, i capelli in disordine e la giacchetta tutta sformata dai troppi libri che si ficcava nelle tasche. Ma non le aveva mai dato retta perché il suo concetto di “cattivi compagni” differiva molto da quello della madre.
Il padre non se lo ricordava molto, era morto quando lui era ancora piccolo, ma doveva essere stato un idealista, proprio come lui, senza mai un soldo in tasca e con tanti progetti in testa; sempre pronto a parlare ed agire per la Fratellanza, la Libertà e l’Uguaglianza; ribelle e indipendente… un vero rivoluzionario, insomma!
Quella mattina di dicembre inoltrato egli aveva avuto il messaggio da uno dei Fratelli per la Riunione Segreta.
Aveva bruciato il biglietto, come al solito. Aveva svolto il suo lavoro, come al solito; poi all’ora stabilita, invece di tornare a casa, si era recato al luogo dell’appuntamento.
Ma, purtroppo, uno di loro aveva tradito. (Uno su tredici).
A metà riunione c’era stata l’irruzione delle autorità costituite, e poiché la parola nell’Assemblea in quel momento toccava a lui, era stato incolpato di essere il capo. In verità nella loro Associazione un Vero Capo non c’era mai stato o, almeno, lui non l’aveva mai visto… ma ecco, forse ora lui lo era diventato perché lo avevano accusato di esserlo! Proprio così, improvvisamente era diventato il Capo dei Rivoluzionari!
Preso, processato in fretta per alto tradimento, era stato condannato a morte. Naturalmente non aveva potuto far nulla per opporsi e, d’altronde, nella sua condizione, che cosa avrebbe potuto fare? Che cosa avrebbe potuto dire? Quando era entrato nell’Associazione, gli avevano detto: “Quando vi consegneranno nelle loro mani non preoccupatevi di come e di che cosa dovrete dire, perché vi sarà suggerito in quel momento ciò che dovrete dire…” (*), frase bellissima, che aveva fatto sua, che gli aveva dato molta sicurezza al momento dell’arresto… ma non c’era stato niente da dire perché non gli avevano chiesto niente. Non era stato interpellato affatto.
Dopo la condanna l’avevano tenuto per tre giorni e mezzo in prigione, poi di nuovo preso, portato nel bosco, legato mani e piedi ed Appeso ad un albero con la testa all’ingiù. Sarebbe stata una morte lenta se non si fossero decisi a “trafiggergli il costato”.
Veramente non era Crocifisso nel senso stretto della parola, ma era lui stesso la Croce.
Malgrado la posizione per così dire “insolita”, era perfettamente lucido. “Sapeva” di dover fare qualche cosa di importante, ma ancora non sapeva “che cosa” dovesse fare.
Il bosco, tutto coperto di neve, gli appariva da un’angolazione completamente nuova: la terra era cielo ed il cielo terra. Avvertiva la solidità del primo e l’evanescenza della seconda. La sua testa sfiorava il suolo, i suoi capelli si erano come allungati e sembravano radici.
La luce dei suoi chakra più alti illuminava il terreno, ne sentiva crescere la potenza a poco a poco e, più cresceva, più penetrava nella profondità del sottosuolo; a loro volta i chakra più bassi irradiavano nel cielo il loro splendore, anch’esso in continua crescita. Questo nuovo modo di “stare in piedi” gli procurava uno sconvolgimento di tutte le correnti interne e si sentiva bruciare tutto. Ma, ad ascoltarsi bene, ecco, il centro del cuore era sempre lì, come prima vorticosamente immobile… e fu proprio nel prendere coscienza di questa sua “non alterazione” che gli fu possibile “udire” le Due Voci Unite: “Siamo il Cielo e la Terra; finalmente per mezzo tuo possiamo unirci in matrimonio!
“Avevamo assolutamente bisogno di te. La nostra unione deve avvenire almeno una volta ogni 33 anni e non poteva più essere procrastinata. Per mezzo tuo il Cielo scende, la Terra sale e si rinnova il miracolo della Redenzione!
“Ora noi dobbiamo consumarti tutto, ma, quando avremo finito, tu sarai ”Immortale”.
La mattina del giorno dopo era il 25 dicembre e i figli di coloro che l’avevano condannato andarono a giocare nel bosco.
In mezzo alla neve trovarono un albero grandissimo, che prima non c’era. Intorno ad esso tutto era fiorito; era carico di frutti d’oro e d’argento che cadevano a profusione, in continuazione.
Dicono gli “Anziani” che sia nata così una delle “Leggende dell’Albero di Natale”.

 

13. LA MORTE

 

Quando si pensa alla morte un mucchi di domande si affollano nella mente, poi ecco, una di loro si fa largo (magari a spinte, chissà!), e si presenta: “Quando è nata la morte?”.
E la risposta si fa udire subito, risonante, come un’eco proveniente da tempi immemorabili: “Quando? Ma quando quella coppia di ingenui presuntuosi, con tutta quella buona frutta che c’era nel Giardino del Signore, decise di mangiare la famosa mela!”.
Si racconta che le uova fossero proprio nel torsolo di quella “particolare mela”.
Quelle uova immediatamente dopo il fatidico “morso” si schiusero, liberando tante piccole gialle farfalline “mortali” che sciamarono prima per il Giardino e poi per tutta la terra.
Da allora ogni cosa viva, nasce e cresce insieme alla sua piccola farfallina di morte, ma la farfalla, la morte, cresce assai più lentamente perché si nutre solo dell’essenza vitale rubata alla cosa viva; quando alla fine ne raggiunge la stessa dimensione, l’assorbe tutta e vola via e va a deporre le sue uova su qualche altra cosa che sta per nascere.
L’aspetto di questa farfalla è quello tipico: uno scheletro giallo con la falce e il ghigno beffardo, il tutto ricoperto dalle grandi membranose ali gialle. Non la può vedere nessuno, se non chi sta per morire, tuttavia, se qualcuno lo desidera, dicono che possa anche riuscire a “sentirla” e a “parlarle”.
In un giorno di mezza estate, un giovane principe che aveva sentito narrare questa storia, passeggiava per la campagna pensando a quel misterioso Personaggio: non aveva paura; ma, più ci pensava e più si convinceva che VOLEVA NON AVER PAURA DELLA MORTE. “Sentirla”, forse l’aveva sempre un po’ sentita, perché “quel pensiero” l’aveva sempre affascinato, fin da bambino, ma “parlarle”… finora non gli era mai riuscito! Certo, se le avesse potuto parlare, sarebbe stato tutto diverso!
In passato, spesso spinto dal desiderio di avventura (o da qualche demone interno) aveva scalato montagne impervie, navigato per mari burrascosi, volato su aquiloni temerari… e più volte gli era parso di sentire proprio il battito silenzioso delle grandi ali sfiorargli i capelli, ma non gli era mai stata concessa l’occasione di un colloquio. Forse, pensava, avrebbe dovuto passare attraverso il fuoco per poterle parlare!
Quel giorno, finalmente, giungendo al villaggio, venne a sapere che, poco lontano, nel bosco, era scoppiato un incendio; vi si recò immediatamente e assai grande divenne la sua apprensione quando vide che il fuoco aveva circondato proprio il palazzo della fanciulla che suo Padre gli aveva destinato come sposa. Incurante del calore insopportabile e del fumo soffocante salvò lui stesso la sua bella in pericolo, rischiando così la sua vita. Ma, anche questa volta, riuscì solo a “sentire” la presenza di quella terribile Signora e niente altro.
Quella sera, stanchissimo come non lo era mai stato, cadde in un sonno strano, una specie di torpore magico e sognò.
Vide se stesso lottare con una enorme farfalla gialla tutta chiusa nelle sue ali; egli tentava di aprirgliele a forza, a fatica ci riusciva, scoprendo così uno scheletro tutto giallo con una falce in mano, il cui teschio aveva un orribile ghigno beffardo: era la Morte, ovviamente.
“Perché ridi?”, le chiese.
“Perché mi sto prendendo la tua vita, ah, ah!”, rispose lei ridendo.
“Ma io non sono affatto disposto a cedertela, anzi, sono io che voglio la tua!”.
Allora la Morte sussultò e si richiuse nelle grandi ali gialle.
Questa scena si ripeté sette volte, ma alla settima, prima che la Morte richiudesse le sue ali gialle per la settima volta, egli avanzò coraggiosamente verso di lei e, mettendo il pollice e il medio nelle due orbite vuote del teschio e spingendo con l’indice nel centro dell’osso frontale, proprio alla radice del naso, strappò alla Morte la sua “apparenza scheletrica”, come se fosse una maschera e, dietro, fece apparire un Volto bellissimo, di uomo e di donna insieme e un Corpo di Luce; al posto della falce, nella mano destra dell’Essere Meraviglioso era una Mela tutta d’oro. Poi egli udì una Voce che diceva: “Smascherando la tua Morte puoi vedere il Vero Volto della Coppia Originale, la Coppia che offre la Mela della Resurrezione. Ora devi solo prenderla e rimetterla in cima all’Albero. È l’unico modo per far morire la Morte e riportare tutto all’Ordine per sempre. Provaci!”.
E si svegliò.
Da quel giorno il principe, che nel frattempo era diventato Re, non andò più in cerca di avventure; sua unica occupazione era la cura del Regno, coltivava gli Alberi del suo territorio e non desiderava più “sentire” la Morte o “parlare” con Lei, ma non ne aveva più paura.

 

14. LA TEMPERANZA

 

Era la quarta delle sorelle, bionda, alata, gran lavoratrice. Che toccasse sempre a lei mettere freno agli eccessi delle sorelle era certo, e per questo veniva per ultima, ma non se ne crucciava; anzi, era piuttosto soddisfatta del suo compito e le cose sarebbero andate avanti fino alla fine senza problemi se non ci fosse stato quel noioso, fastidioso racconta-storie per adulti-bambini che la voleva a tutti i costi protagonista di una storiella.
Fu solo per questo motivo che la Temperanza smise di travasare liquido vitale da un’anfora all’altra, scese dalla carta e parlò: “Eccomi, che cosa vuoi da me? Che cosa vuoi sapere?”.
Per la verità era imbarazzante rispondere a una domanda così diretta, tuttavia il noioso, fastidioso racconta-storie subito subito pose le sue domande, senza farselo ripetere due volte: “E’ vero che travasi continuamente il liquido dall’anfora d’argento a quella d’oro e poi da quella d’oro a quella d’argento? Quando è cominciato questo lavoro e perché? A che cosa serve? Quando finirà?”.
“Piano, piano, una domanda per volta!”, protestò la Temperanza posando le due anfore in terra. Poi, accomodandosi nella poltrona di velluto viola si aggiustò accuratamente le pieghe del grembiule da fatica, azzurro cupo, con le grandi mani quadrate, mentre le robuste ali, ben chiuse, si rilassavano dietro le spalle e il volto sereno e materno si apriva in un largo sorriso accondiscendente.
“Dunque, cominciamo: ma non ti posso rispondere esaurientemente se prima non ti spiego che cosa c’è nelle anfore. Tu sai che io ho tre sorelle tutte e tre assai importanti per l’esecuzione dell’opera creativa, ma la qualità di ciascuna di loro, per esuberanza, porterebbe a continui eccessi se non ci fossi io a ”temperarla”.
“Prudenza è sempre troppo prudente e rimarrebbe sempre troppo indietro, Fortezza è sempre troppo forte e andrebbe sempre avanti, infine Giustizia le terrebbe talmente in equilibrio da farle fermare completamente, io ”stempero” i loro ardori e col continuo movimento provoco l’universale mutamento, senza mai esagerare né a destra, né a sinistra, né al centro.
“Attività costante, io rappresento il divenire delle mie sorelle e della trinità Amore (forza centrifuga), Saggezza (giustizia) e Potere (prudenza centripeta), la cui triplice fiamma continuamente arde, io sono la base su cui essa poggia. Il liquido vitale che si trova nelle anfore è la mescolanza di queste tre qualità e le anfore sono la ”forma” che ogni volta la Vita prende al preponderare dell’una o dell’altra qualità; l’anfora d’oro quando prevale l’Amore, l’anfora d’argento quando prevale il Potere e il cambiamento da un’anfora all’altra quando prevale la Sapienza. Ora da te stesso puoi capire perché non posso mai fermarmi, a che cosa serve il mio lavoro, quando è cominciato e quando finirà”.
Aveva appena finito di parlare che si udì un coro di voci provenire dall’infinito:  

“… Temperanza, presto, torna la tuo lavoro…”.

“… Temperanza, abbiamo bisogno di te…”.

“… Temperanza, dove ti sei cacciata… ricordati del tuo dovere…!!”.
Ma Temperanza stava talmente bene seduta nella comoda poltrona di velluto viola che pensò bene di… rimanervi ancora un po’ ignorando le voci delle sorelle.
“Ecco”, diceva piano, “dopotutto una volta deve finire… e perché non ora? Se dipende da me…”.
I due centri sopra la testa, che le si riflettevano negli occhi, cominciarono a vibrare, poi a ruotare… sempre più in fretta, uno in un verso, uno nell’altro, sempre più in fretta, poi di due se ne fece uno solo, al centro e in quell’immensa, abissale rotazione si videro vorticare le tre sorelle.
Temperanza sorrideva e piano piano scoloriva…
Ma la Voce, quella a cui tutto deve obbedienza, si fece udire: “NO!!”.
Allora Temperanza, divenuta tutta seria, facendo cenno di si col capo, si alzò dalla poltrona, riprese le anfore e rientrò nella carta.

 

15.  IL DIAVOLO

 

Contro. Contrario. Contrasto. Scontro.
Formare una frase di senso compiuto con le parole date, poi tradurla in Ebraico e in Sanscrito.
Il diavolino si agitò nervosamente nel banco di scuola e sferrò piano con lo zoccolo sinistro un calcetto alla sua vicina di banco, che era poi anche la sua diavolina girl-friend per quell’anno scolastico.
Per tutta risposta ottenne una strizzatine d’occhi (che erano molto belli perché avevano le ciglia molto lunghe) e il delicato strappo di un pelo della coda (la sua, naturalmente).
“Ahi, vacci piano! Volevo solo sapere come te la sei cavata col compito di oggi. Senti il mio: sono contrario a tutto, perciò contrasto quello che posso e vado contro la Legge per procurarmi il piacere dello scontro. Che te ne pare?
Non capisco però perché debba tradurlo in Ebraico ed in Sanscrito. Una volta forse questo aveva un senso in quanto noi diavoli dovevamo dissacrare le lingue sacre, ma da quando gli uomini, per merito nostro, hanno dissacrato tutto a che serve farci perdere tempo a studiare queste lingue barbose?”.
“Umh, niente male la frase. Se non ti va di fare le traduzioni, non le fare!”. Gli suggerì la diavolina.
“Brava, così mi prendo una bella punzecchiata di forcone sul di dietro… bel consiglio il tuo!”.
“Silenzio voi laggiù!”, intervenne il diavolo-maestro, “e tu”, disse, indicando proprio la nostra diavolina, “leggi subito la tua frase a voce alta”.
La diavolina si alzò, spavalda e civettuola con la codina arricciata all’insù, e lesse: “Il contrario non è contrasto così come contro non vuol dire scontro”.
E subito tradusse la frase correttamente in Ebraico e Sanscrito antico.
“Bravissima! Diavolini e diavoline, prendete esempio! Questa sì che è una bella frase ben tradotta! E inoltre indica anche il modo migliore per svolgere il nostro lavoro sulla terra. Bisogna essere astuti e diplomatici ma logici. Noi rappresentiamo il Contrario, la Ribellione per eccellenza e il nostro lavoro, per essere efficace, deve essere sottile e penetrante. Sappiate che noi svolgiamo una parte assai importante nella meccanica della Manifestazione e presto ne avrete la prova. Stasera faremo un esercizio pratico e voi due”, disse, indicando la nostra coppia di diavolini, “verrete con me a mezzanotte nell’aula degli esperimenti. Gli altri osserveranno da fuori”.
La campanella suonò, era l’una. Così per quella notte erano terminate le lezioni. Di lì a poco sarebbe spuntata l’alba e i genitori diavoli non permettevano ai loro ragazzi di star fuori di giorno, perché era pericoloso, dicevano.
Diavolino e diavolina tornarono ognuno alla propria bolgia, abitavano nello stesso girone dello stesso inferno; erano un po’ preoccupati per l’esperimento della mezzanotte. Tornarono a casa per mano, parlando fitto fitto tra di loro.
Quella sera ebbero lezione di Zoologia, cioè di Vampirologia, di Oratoria ingannevole e di Tentazion-abilità; infine, proprio per ultimo, ci fu l’Esperimento. Il tempo nelle prime tre ore non era passato mai. Ogni tanto i due ragazzi sotto al banco si erano stretti la mano per farsi coraggio; poi, come Di…diavolo volle, si fece l’ora.
Entrarono nella sala: prima il diavolo maestro, poi il diavolino, poi la diavolina. Chiusero accuratamente la porta alle loro spalle. La porta era di vetro e tutti gli altri allievi rimasero di fuori a guardare.
Il diavolo maestro legò il diavolino alla destra della cattedra e la diavolina alla sinistra (forse temeva che fuggissero), poi salì lui stesso sulla cattedra, tenendo nella mano destra un bastone, nella sinistra una fiaccola. Col bastone toccava il corno sinistro del diavolino, con lo zoccolo sinistro la mano destra della diavolina. Aprì poi al massimo le grandi ali membranose e soffiò dalle nari come un caprone, gonfiando i seni prosperosi.
Si produsse un gran boato e i tre diavoli, divenuti una cosa sola, un lungo e sottile serpente a tre teste, furono proiettati sulla terra. In mezzo a un gran fumo, accompagnato da una gran puzza di zolfo, gli allievi diavoli seguivano lo svolgersi dell’esperimento.
Il programma era semplice: il triplice serpente doveva accostare un uomo, meglio un ragazzo (sarebbe stato più facile per i due diavolini), poi introdursi nel suo corpo e succhiargli la volontà Pro-Piano Divino (per questo a scuola studiavano Vampirologia) quindi tramutarla in volontà Contro-Piano Divino, infine rendergliela affinché operasse nel mondo al nero. Ma il Contro doveva apparire molto vantaggioso (per questo studiavano Oratoria ingannevole e Tentazion-abilità).
Il diavolo maestro era abilissimo nell’arte sua, non per niente era stato fatto maestro!
Per prima cosa si guardò intorno: sotto un albero lì vicino si trovava seduto proprio quello che sembrava un giovane adatto, un bel giovane biondo.
“Ecco la nostra cavia”, disse.
Il serpente tricefalo si introdusse nella spina dorsale dell’uomo dal basso.
Il diavolo maestro si sarebbe accoccolato nel primo chakra e avrebbe mandato i due allievi, uno per volta, ad occupare (in modo diabolico, naturalmente) gli altri centri, fino ad arrivare, se fosse stato possibile, al centro in mezzo alla gola. Se i due giovani avessero fatto un lavoretto preciso ed accurato avrebbero guadagnato il diploma scolastico e per lui ci sarebbe stata una cospicua gratifica.
Intanto, però, era meglio non perdere tempo e dare gli ordini: “Tu, diavolina, vai all’attacco, occupa il primo chakra a destra e…”.
Ma qualcosa non funzionava secondo i programmi. Il giovane biondo non era un “giovane”, ma un Anziano col volto da giovane.
Uno che aveva subito molti assalti di “serpente tricefalo”, uno che sapeva “che cosa fare” in quella occasione. Uno che forse, l’aveva addirittura chiamato!
Il giovane-Anziano, appena sentì il serpente occupargli il centro alla base della colonna, prima che questo avesse il tempo di organizzarsi, cominciò a farlo girare (tanto era già inanellato) sempre più in fretta, poi lo obbligò a salire così come era (uno e trino) nel canale centrale della colonna, su dritto dritto; ad ogni centro, ce ne erano altri tre, aumentava la velocità di rotazione e lo scioglieva tutto, poi, per farlo risalire, lo ricoagulava. Al quarto centro, quello in mezzo agli occhi, lo dissolse definitivamente.
Fu così che il supplente della scuola dei diavoli divenne maestro di ruolo e i genitori dei ragazzi quell’anno poterono comperarsi una bolgia più grande.
Come? Avevano avuto una forte somma di denaro quale compenso per la perdita dei rampolli nel malaugurato incidente.
Quella volta la Diavolassicurazioni aveva pagato assai bene, perché fino ad allora disgrazie di quel tipo erano capitate molto di rado. Da quella notte però, prevedendo un notevole aumento della percentuale degli incidenti, ha più che raddoppiato il premio annuale della polizza e i genitori sono costretti a pagarlo se vogliono mandare i figli a scuola.

 

16.  LA TORRE   

 

“…Aaaaah!”, urlò il principe mentre precipitava dalla Torre.
“Maledetto ingegnere, è stata tutta colpa tua!”. E fu l’ultima frase che pronunciò, perché poi toccò terra e lì giacque, esanime. L’ingegnere da parte sua non avrebbe potuto rispondergli, perché il suo cadavere si trovava già tutto sfracellato per terra e stava per essere ricoperto dalle macerie.
La Torre aveva cominciato a sgretolarsi al piano più alto, al terzo, e stava ora crollando tutta. Era rimasto in piedi solo il grande portone che, spalancato, sembrava gridare anch’esso il suo orrore per il disastro.
Ma come erano andate le cose? Perché quella rovina? Quali erano stati gli errori commessi?
Per trovare le cause di tanta disgrazia bisogna risalire ad un anno, dieci mesi e un giorno prima, quando il giovane principe, avendo ricevuto dal Re, suo Padre, una vasta e bella estensione di terreno in regalo, aveva deciso di farci una Torre; proprio così, una torre alta per dominare il suo territorio.
Voi mi direte: ma che male c’è a voler costruire una torre? Beh, nell’idea in sé non c’è nulla di male, ma c’è modo e modo di farlo. Prima di tutto il principe avrebbe dovuto chiedere il permesso a suo Padre e poi, qualora glielo avesse concesso, farsi anche consigliare da Lui sulla scelta di un ingegnere scrupoloso.
Il nostro principe invece che dal Padre si era fatto consigliare da amici poco raccomandabili e, alla fine, aveva dato l’incarico ad un ingegnere di pochi scrupoli e, diciamolo pure, piuttosto disonesto e imbroglione.
Si dava il caso che il principe fosse ambizioso: con la torre così progettata, tutta sua, si sentiva già re, perciò la voleva subito e senza indugi.
L’ingegnere aveva disegnato il progetto, il principe l’aveva approvato, l’ingegnere aveva ordinato il materiale e il materiale era stato consegnato; ma che cosa aveva ordinato questo ingegnere malaccorto per costruire la torre? Mattoni invece di pietre e bitume invece di calce! Questo era stato l’errore di base. Poi i lavori erano cominciati: scavate le fondamenta, un giro di mattoni dopo l’altro, la torre era venuta su assai celermente: il primo piano, il secondo e il terzo, poi la terrazza con i merli. Quando le scale furono ricoperte di marmo, i tramezzi tinteggiati, le porte e le finestre rifinite e l’arredamento completato, l’ingegnere chiamò il principe per fargli visitare la sua nuova proprietà. 666 giorni erano passati in tutto da quando il principe aveva ricevuto in regalo l’appezzamento di terreno e in quel 666° giorno egli, varcando il portone della sua Torre, aveva pensato: “In cima alla Torre sarò come mio Padre, sovrano assoluto di tutto ciò che vedono i miei occhi e di lì potrò governare a mio piacimento i miei possedimenti, senza dover rendere conto delle mie azioni a nessuno”.
La disposizione delle sale all’interno della Torre imitava quelle del Palazzo Reale: nell’atrio, appena entrati, si trovava la sala della Luna, che il principe aveva destinato agli ozi suoi e dei suoi amici. Lì avrebbe potuto con molto impegno dedicarsi al dolce far niente, senza essere disturbato, fino a che ne avesse avuto voglia.
Al piano di sopra erano tre sale: una a destra, detta di Mercurio, lì progettava di accumulare tutte le ricchezze in oro e argento che fosse riuscito a sottrarre alle casse Paterne; una a sinistra, la cosiddetta sala di Venere, dove avrebbe ricevuto le damigelle di corte disposte a fargli compagnia quando si sarebbe sentito solo; una al centro, questa era chiamata la sala del Sole, ne avrebbe fatto il suo studio, vi avrebbe raccolto i registri che tenevano conto di ciò che il Padre regalava agli altri principi suoi fratelli, in modo da essere sicuro di possedere sempre più degli altri.
Poi al piano di sopra erano ancora due sale: la sala detta di Marte, a destra, dei duelli, dove con gli amici avrebbe assistito alle gare di sport più o meno cruente dei suoi campioni preferiti, e la sala dei banchetti a sinistra, detta sala di Giove: lì secondo i suoi progetti, la tavola avrebbe dovuto essere talmente ricca da far apparire a suo confronto i pasti più pantagruelici, semplici spuntini rompidigiuno.
Sopra ancora era la terrazza.
L’ingegnere faceva strada: visitarono sala per sala molto minuziosamente e decisero insieme piccoli ritocchi e perfezionamenti, alcuni per la funzionalità, altri per l’estetica. Il principe volle alla fine salire sulla terrazza per esaminare anche i merli della Torre e l’ingegnere pregò Sua Altezza di precederlo perché aveva notato una crepa nella parete e non voleva che il principe la vedesse; malauguratamente, si appoggiò con tutto il peso al muro e un mattone non ben cementato venne via; egli, imprecando, cercò di tappare il buco, ma i mattoni gli si staccavano in mano uno dopo l’altro, come le perle di una collana a cui si è rotto il filo.
Intanto si era levato un gran vento e, benché il sole splendesse in cielo, lampeggiava e tuonava; all’improvviso una raffica di vento terribile penetrò nella breccia, afferrò l’ingegnere e lo scaraventò giù.
Il principe intanto, salendo l’ultima scala, era quasi arrivato alla terrazza, quando udì quel gran fracasso; allora si rese conto della fine che aveva fatto il suo ingegnere, ma era troppo tardi perché, mentre cercava di aggrapparsi disperatamente a qualcosa, il pavimento gli mancò sotto i piedi ed egli pure precipitò giù.
Così era successa la disgrazia!
Poi, la luttuosa notizia giunse a Palazzo Reale. Il Re in persona, in carrozza, si recò sul posto a vedere che cosa fosse successo a suo figlio.
Il principe, con le braccia e le gambe spezzate, giaceva ancora a terra, ma stava riprendendo conoscenza. Aprì gli occhi e vide suo Padre chino su di lui, ebbe timore e vergogna della sua superbia e mormorò: “Padre, perdono!”.
Allora il Padre lo fece portare nell’infermeria del Palazzo e lì curare amorosamente. Il principe stette 40 giorni in pericolo di vita, poi guarì.
Dicono che il Re, suo Padre, al termine della sua convalescenza desse un banchetto sontuoso in suo onore e facesse ammazzare il vitello più grasso dicendo: “Mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”

 

17.  LE STELLE

 

“Per me ancora un po’ di liquido dell’anfora d’oro!”, disse la Stella a destra in basso.
“E per me un po’ dell’anfora d’argento”. Era la voce della Stella piccolina a sinistra.
“Invece per me un po’ da tutte e due, ma piano piano, che non si alterino le dovute reazioni alchemiche!”, disse a sua volta la Stella centrale, la penultima dal basso.
“Anche per me un po’ da tutte e due, ma versa svelta, perché debbono mescolarsi come dico io!”, terminò energicamente l’ultima Stella centrale, proprio quella in fondo.
“Molto bene, penso che sia tutto perfetto. Grazie, Eva, ora puoi riposare”, concluse la Stella Grande, centrale, quella in alto.
Eva si alzò dalla sua posizione (che in verità era alquanto scomoda) e guardò nelle anfore: erano di nuovo vuote. Allora issò l’anfora d’oro sulla spalla destra, prese l’anfora d’argento con la mano sinistra e si avviò verso il Paradiso, per andare a riempire di nuovo le due anfore ed averle così pronte per le successive annaffiature.
“Per me ancora un po’ di liquido dall’anfora d’oro”, “per me un po’ dall’anfora d’argento”, “ per me versa piano”, “per me versa svelta…”, le voci delle Stelle risonavano nelle orecchie di Eva che intanto pensava: “Certo che il loro è un lavoro importantissimo… sbagliare le dosi vuol dire far venir fuori tutta un’altra cosa! Però, secondo me, a volte si tratta proprio di pignoleria, perché una goccia in più o in meno di liquido, che differenza vuoi che faccia! E intanto tocca a me stare lì inginocchiata a misurare il millimetro cubo. Inoltre, c’è anche il fatto che quando a comandare sono in due o tre, come succede di solito, oppure in quattro, cinque o sei, come avviene qualche volta, è ancora possibile ubbidire; ma se diventano sette o otto o addirittura nove o dieci (per fortuna succede assai di rado) accontentarle tutte è davvero un miracolo! E poi… andassero sempre d’accordo, almeno non si dovrebbe correggere e ricorreggere il lavoro… invece certe volte!… Oh, per l’amor del cielo, non dico che litighino, no, questo non lo posso proprio dire, se litigassero non sarebbero Stelle, e litigare qui è impossibile, siamo nel Regno della Perfezione… ma insomma, specialmente le coppie di Stelle opposte, prima di decidere fra loro definitivamente il quantitativo di liquido che vogliono che io versi ci mettono sempre un bel po’!”
E brontolando (ma sempre con molto controllo perché ormai era vicina al Paradiso) Eva continuò la sua strada in salita. Arrivò finalmente alla duplice fonte, che era esattamente alla porta del Paradiso; riempì le anfore e poi tornò indietro, preparandosi ancora una volta a versare il liquido dell’anfora d’oro nell’acqua (l’elemento positivo), e il liquido dell’anfora d’argento sulla terra (l’elemento negativo) a comando delle loro Altezze Reali, le Stelle.
Ma sento le vostre voci che mi domandano: “A che cosa serve tutto questo traffico? Perché tanto lavoro?”.
Già, perché non ve l’ho ancora detto: è così che gli Astri preparano le ricette quando devono far nascere i bambini. Tenendo presente i meriti delle vite precedenti, preparano per loro il bagaglio personale di buone qualità, ogni Stella il suo: a volte piccolo piccolo, a volte medio, raramente grande.
Eva, la natura umana, è la loro valletta, l’hanno adibita a quel lavoro per farle scontare il peccato originale, ma il lavoro non è poi faticosissimo perché, una volta riempite le anfore, Eva normalmente versa per giorni e giorni; quello di cui più si lamenta infatti è salire alla fonte e portare giù le anfore piene… ma si sa, ogni lavoro richiede sempre una certa fatica; però così può rimanere vicino al Paradiso anche se, ovviamente, non può mai entrarci.
“Eva, preparati”. Questa volta era la voce della 1ª Grande Stella a destra. “Comincia a versare il liquido dall’anfora d’oro”.
Eva a sentire la voce della 1ª Grande Stella rabbrividì. Se cominciava Lei ad ordinare la ricetta, allora era proprio una giornata di grazia.
La voce della 1ª e della 2ª Grande Stella non si udivano che una volta ogni millennio o quasi. Quando parlavano loro voleva dire lavoro durissimo.
La 1ª Grande Stella dette i suoi ordini e il risultato fu “Sapienza”. Ma quante volte la povera Eva dovette aggiungere gocce infinitesimali di liquido dall’anfora d’oro!
La 2ª Grande Stella diede anch’Essa la sua ricetta, dopo un gran discutere con la 1ª Stella. Il risultato fu “Comprensione”, ottenuto naturalmente con il liquido dell’anfora d’argento.
La 3ª Grande Stella, come al solito, avrebbe parlato per ultima, perciò diede la precedenza alla 4ª Stella che decretò il quantitativo della sua annaffiatura dell’acqua con il liquido dell’anfora d’oro. Il risultato fu “Giustizia”, ma ci vollero ore, prima che avesse terminato.
Poi toccò alla 5ª Stella, quella che decretava la “Forza”; questa sarebbe stata di per sé la più sbrigativa nel decidere quello che voleva, se non ci fosse stata la 4ª a farle continuamente modificare la misura del liquido dell’anfora d’argento che Eva doveva versare sulla terra per Lei.
La 6ª Stella era di quelle centrali, quelle che preparano la loro ricetta con i due liquidi mescolati. Per lei fu composta “Bellezza” e fu opera di cesello!
La 7ª Stella diede la “Vittoria”, regolando ovviamente il liquido dell’anfora d’oro, ma poiché era sempre un po’ troppo esuberante, fu necessario ritogliere il liquido in eccesso.
L’8ª Stella compose il suo “Splendore” determinato dal liquido dell’anfora d’argento e, come al solito, ebbe a che dire con la 7ª Stella a causa della reciprocità delle loro competenze.
La 9ª Stella, che stabiliva il “Fondamento” e la 10ª, che regolava il “Regno”, le quali lavoravano tutte e due con entrambi i liquidi, come la 6ª Stella, ma dovevano continuamente consultare la 3ª per le proporzioni, finalmente diedero il loro responso.
Alla fine, dopo un giorno di lavoro continuo, la 3ª Grande Stella Centrale, quella che organizzava la “Coscienza”, parlò: “Anche questa volta è tutto, Eva. Grazie, ora puoi riposare!”.
Eva guardò nelle due anfore: non c’era più nemmeno una goccia di liquido, né in quella d’oro, né in quella d’argento. Sarebbe di nuovo dovuta andare su, fino al Paradiso. La nascita di un solo bambino aveva richiesto tutti i liquidi vitali di un suo viaggio.
E tutto questo perché?
Perché era un minuto dopo la Mezzanotte del giorno 25 del mese X dell’anno 0 ed era nato un Maestro!

 

18.  LA LUNA   

 

“Agente FZ 17, pronto. Agente FZ 17, pronto. Rispondi”.
L’agente FZ 17 automaticamente premette il pulsante della video-radio incorporata nella sua tuta spaziale, che lo teneva in contatto continuo con la Base e rispose: “Pronto, agente FZ 17 in linea”.
La voce impersonale dell’A.I. (sigla che voleva significare probabilmente Agente Intermediario) comunicò all’agente FZ 17 gli ordini: “Dal G. D. D. (non si sapeva con esattezza quale nome celasse la sigla, ma quasi sicuramente stava per Grande Direttore Distrettuale) è stata decisa la meta del tuo prossimo viaggio, missione n. 18. Dovrai esplorare il Satellite detto Luna del 3° Pianeta del Sole, quello chiamato Terra. Verrai proiettato direttamente sul Pianeta e di lì dovrai procedere da solo con la navicella spaziale modello F standard, potenza 17, classe 42. L’A. C. (anche su questa sigla il mistero era fitto, ma probabilmente voleva solo dire Agente di Controllo) ti raccomanda di attenerti alle regole e di essere prudente. Buon viaggio e buona fortuna!”.
Il messaggio-ordine non era neanche terminato che l’agente FZ 17 si trovò immediatamente, con tutta la sua navicella, proiettato sulla riva di uno stagno, ovviamente del Pianeta Terra, in una meravigliosa notte di plenilunio autunnale.
Era il suo 18° viaggio, per questo si chiamava FZ 17. Il 17 significava che aveva già compiuto 17 missioni, delle quali portava con sé il ricordo e l’esperienza. Ancora 5 viaggi portati a termine con successo e avrebbe aggiunto una X al suo nome: sarebbe diventato XFZ… un sogno!
Ma ora non doveva sognare, doveva affrontare i pericoli del viaggio e superarli; doveva concentrare tutte le sue energie sulla sua missione. Sapeva che non sarebbe stato facile raggiungere la Luna con le sue sole forze, ma era quello che si pretendeva da lui. La navicella standard classe 42 era assai modesta, ma lì stava la sua bravura, riuscire a fare l’impossibile con quasi niente!
Per prima cosa guardò con l’apparato visivo della sua navicella nello stagno.
Se ci fosse stato il riflesso della Luna, avrebbe forse potuto scoprirne qualche segreto e magari imparare qualcosa su come conquistarla… invece lo stagno in superficie era tutto coperto di erbe e foglie in decomposizione; quello che però attrasse la sua attenzione fu un enorme gambero rosso che stava affiorando pian piano dal fondo. Era il 1° ostacolo. Doveva ucciderlo? No, doveva indovinarne la funzione. Ci pensò un po’ e poi decise che doveva solo convincere la bestiola a tenere pulito lo stagno. Azionò il suo personale meccanismo telepatico (regolato su onde-crostaceo) e dopo aver superato una leggera resistenza, riuscì ad ottenere che le chele del gambero, diventate docili, cominciassero una meticolosa e sistematica pulizia dell’acqua. Quando lo stagno ebbe preso l’aspetto di un laghetto limpido di montagna, il gambero si immerse e tornò sul fondo.
FZ 17 pensò: “Molto bene, l’inizio è stato molto favorevole, ora debbo prepararmi al resto”. Cominciò ad osservare la Luna riflessa nello specchio dell’acqua e la visione di una navicella spaziale come la sua, modello M standard, gli apparve.
Come era gradevole! E si protendeva verso di lui con le appendici superiori tese in avanti… FZ 17 ebbe un attimo di smarrimento e sarebbe finito con tutto il suo veicolo nell’acqua se non avesse ascoltato la Voce interna che gli diceva: “No, attento! Questo è il 2° ostacolo”. Per fortuna si riscosse prontamente.
Distolse l’apparato visivo dalla visone affascinante e, per distrarsi, prese ad avanzare sulla riva dello stagno, verso due torri che vedeva in lontananza.
Oltrepassò lo stagno e un nuovo paesaggio gli si presentò dinanzi: una vasta pianura dai colori argentei, dominata da quelle torri severe, immersa in un silenzio attonito. Stette un po’ in contemplazione, poi, inaspettatamente, due mostri si misero a latrare, sembravano essersi materializzati dal nulla. Gli vennero incontro: erano un cane bianco e uno nero, grandi e assai feroci. Era il 3° ostacolo. Già nei viaggi precedenti più volte si era trovato di fronte a mostri di doppia natura, questi in fondo erano solo cani e abbaiavano solamente.
Pensò che la cosa migliore fosse passare in mezzo a loro tenendosi a uguale distanza sia dall’uno che dall’altro. Così fece e, come fu passato, si quietarono.
Rimanevano le torri: come conquistarle? Occupare prima l’una e poi l’altra?
Ma cosa aveva a che vedere tutto questo con l’esplorazione della Luna? Certo, all’interno avrebbero potuto esserci nemici, entità o mostri. Ma decise in cuor suo che era meglio rischiare. Si comportò con le due torri come si era comportato con i cani: passò nel mezzo, senza assolutamente occuparsi dei loro eventuali abitanti, indifferente, e tutto concentrato sulla Luna. E come ebbe oltrepassato le due torri (il 4° ostacolo), scorse la rampa di lancio della sua navicella spaziale.
Ecco, finalmente avrebbe potuto utilizzare tutta la potenza del suo piccolo veicolo modello F standard, classe 42 e partire davvero alla conquista del Satellite, completando così il suo viaggio che costituiva la 18ª Prova.
Accese i motori, calcolò la rotta più breve, regolò il pilota automatico sulla direzione voluta, e diede il via.
Lieve come una farfalla la piccola astronave si posò sulla superficie lunare.
E finalmente FZ 17 poté conoscere la sua Luna. C’era di tutto: paesaggi di fantasie mai realizzate; suoni di musiche sotterranee dolci e romantiche mai udite; ruscelli di lacrime composti di pianti solitari ancora da piangere; ombre di misteri tenebrosi ancora tutti da scoprire; valli di rimpianti e montagne di visioni intraviste per un attimo e poi scomparse e boscaglie di desideri teneri e violenti insieme e foreste vergini di ansie e timori avviluppati tra loro e…
FZ 17 guardò sbalordito quello spettacolo fantasmagorico e mentre si chiedeva che cosa mai dovesse fare, ad un tratto ebbe un’ispirazione: rimise in moto i motori della sua navicella, si allontanò un poco, quanto bastava per vedere la sua Luna come un pallone rotondo… e quando fu proprio di misura giusta, ridendo, prese la mira e con una delle appendici inferiori della navicella, esattamente con quella destra, chiamata gamba e terminante con la protuberanza chiamata piede… diede un bel calcio al pallone-Luna, gli fece fare un bel volo e poi lo riprese con l’appendice sinistra chiamata mano…
Immediatamente udì la voce della video-radio collegata alla Base: “Agente FZ 17, pronto. Agente FZ 17, pronto, rientrare. L’A. C. ha dato il suo giudizio sul tuo comportamento: Prova Valida. Lo scopo del G. D. D. era di farti conoscere la tua vera Luna, ma per poterla vedere come l’hai vista tu, dovevi superare prima i 4 ostacoli terrestri. La tua missione è compiuta. Hai una settimana di licenza e sei stato nominato FZ 18. Buone vacanze!”.

 

19.  IL SOLE

   

Heliopoli era una meravigliosa città dell’antica Atlantide. Il colore predominante era il giallo, in tutte le sue sfumature. La terra, il cielo, le pietre di cui erano costruiti gli stupendi edifici che sembravano templi, la pelle degli abitanti, i loro vestiti ed i loro capelli, tutto durante il giorno assumeva il colore caldo dell’oro aranciato per tramutarsi poi in ocra mattone dopo il tramonto, in attesa di ridiventare giallo chiaro all’alba.
Quella mattina di giugno ad Heliopoli si sarebbe riunito il Consiglio dei Grandi Sacerdoti. Tutti gli anni  il giorno del Solstizio si celebrava la Grande Cerimonia e le famiglie nobili della città ogni anno si preparavano con ansia alla Grande Festa. Il Consiglio si riuniva tre giorni prima del Solstizio, in esso si decidevano i nomi dei due fanciulli, un maschio e una femmina di nobili natali, destinati al Trionfo della Festa. Era un onore senza uguali per le famiglie dei fanciulli prescelti.
I ragazzi, per partecipare alla gara, dovevano avere 14 anni e se non erano scelti non potevano più concorrere, essendo l’anno dopo fuori età; dovevano essere i più belli e i più intelligenti e dimostrare di armonizzare perfettamente tra loro. I concorrenti venivano esaminati uno per uno molto attentamente. Al fanciullo per vincere si richiedeva la “Grazia”, egli doveva avere in sé innate Sapienza, Giustizia e Vittoria. Alla fanciulla si richiedeva invece la “Severità”, ella doveva avere in sé innate Comprensione, Forza, Splendore. Naturalmente queste qualità venivano coltivate in tutti i fanciulli della città, sin dalla più tenera infanzia, ma la coppia prescelta doveva eccellere in esse e, quanto più i fanciulli erano corrispondenti ai canoni di perfezione richiesti dalla Legge, tanto più era dimostrata la bontà della Legge e l’abilità e la saggezza dei Governanti della Città, cioè dei Sacerdoti.
Shine quella mattina si era alzata tutta felice; era una bellissima giovinetta di 14 anni e, per l’appunto, avrebbe partecipato alla gara. Aiutata dalle schiave, sotto la sorveglianza della madre, dopo il bagno profumato all’essenza di mirra, si era abbigliata per l’esame-cerimonia. Aveva indossato la tunica corta giallo-rosato di regolamento, aveva ornato i lunghi capelli castano dorato con topazi, calzati i sandali preziosi e, salutata la madre, si era avviata al luogo di raduno delle fanciulle. Di lì avrebbe proseguito con tutte le altre ragazze della sua età, in fila per tre, fino al palazzo del Consiglio.
Ogni fanciulla recava in mano un girasole.
Stranamente la madre, al momento dei saluti, doveva aver avuto un attimo di commozione nel vedere la figlia così bella, perché gli occhi le erano diventati lucidi lucidi; ma Shine era talmente eccitata per tutto quello che l’aspettava quel giorno, che appena le aveva dato un bacio in tutta fretta.
Sun era un giovinetto biondo anch’egli di 14 anni e quindi partecipante alla gara. Era molto alto, bello e proporzionato per la sua età. Ad Heliopoli l’educazione dei maschi nobili era affidata al padre e ovviamente agli schiavi maestri, i bambini vedevano solo di sfuggita a qualche cerimonia la madre e le sorelle. Ma dopo i 14 anni, dopo la grande festa del Solstizio, entravano nella vita comunitaria e diventavano adulti, come del resto le femmine, che erano affidate alla cura della madre e conoscevano altrettanto poco il padre e i fratelli.
Sun, era terribilmente emozionato quella mattina. Anch’egli si era lavato, profumato e vestito con la tunica giallo-rosato, aveva calzato i sandali dorati, messo al dito l’anello col topazio regalatogli dal padre quella mattina stessa, poi aveva abbracciato il genitore, il quale, come la madre di Shine, stranamente, aveva dimostrato di essere alquanto turbato, infine si era avviato al luogo di raduno dei ragazzi. Anche lì si era formata la fila, i giovani dovevano procedere a tre a tre ed arrivare al palazzo del Consiglio recando in mano ciascuno una spada d’oro. I due cortei arrivarono al Palazzo nello stesso momento.
Il Consiglio era composto di sette Sacerdoti e di sette Sacerdotesse. Le Sacerdotesse dovevano esaminare i fanciulli, i Sacerdoti le fanciulle.
Gli esami cominciarono alle nove di mattina e terminarono al tramonto, come tutti gli altri anni. Quell’anno il responso fu che Sun aveva vinto al gara tra tutti i giovanetti e Shine aveva vinto fra tutte le giovanette.
Cominciarono allora i festeggiamenti: i due ragazzi vennero ricoperti di doni, portati in trionfo, lodati e acclamati da tutti, incoronati Re e Regina della Festa tra musiche, canti, balli e banchetti.
Stranamente tra tanta gente Sun e Shine non riuscivano a vedere né lui il padre, né lei la madre. Quando ne chiesero il motivo ai Sacerdoti che li accompagnavano dappertutto, fu loro risposto che era sempre così, ogni anno, che loro ormai erano adulti e non avevano più bisogno dei genitori.
Finalmente venne il giorno del Solstizio. Tutti i festeggiamenti di quei tre giorni precedenti non erano altro che la preparazione a quella che era la Grande Cerimonia. Si doveva compiere a mezzogiorno, e non era pubblica. I ragazzi dovevano essere introdotti separatamente nel Tempio, Sun preparato dai Sacerdoti, Shine dalle Sacerdotesse. Vestiti entrambi con la tunica lunga, bianca, ornati di diamanti e platino, profumati d’incenso, lui dalla porta di destra, lei dalla porta di sinistra, furono spinti delicatamente nel Tempio.
E poi le due porte furono chiuse alle loro spalle.
Il Tempio, circolare, era tutto vuoto. Solo al centro un altare rotondo.
Non c’era tetto. L’altare e tutto l’interno era esposto ai raggi infuocati del sole tropicale.
Sun e Shine si guardarono negli occhi e, immediatamente, compresero tutto: loro, i festeggiati, erano sacrificati al Dio Sole. Li avrebbero lasciati lì, senza alcuna protezione, fino a che il Sole li avesse prosciugati tutti, nutrendosi delle loro giovani vite, cosicché poi, soddisfatto, avrebbe, per tutto il resto dell’anno, elargito doni alla popolazione di Heliopoli.
Non c’era scampo. Erano chiusi come in un cilindro le cui pareti lisce, alte più di cinque metri erano metallizzate e forse rivestite d’oro bianco.
Non c’era un filo d’ombra per ripararsi, né un appiglio per tentare di fuggire.
Avrebbero potuto urlare e disperarsi, ma a che cosa sarebbe servito?
Si tolsero le lunghe vesti bianche, le stesero sull’altare, poi vi si sdraiarono sopra, nudi.
L’Amore fu l’unica esperienza concessa ai due giovanetti vergini prima della Morte.
Il Dio Sole gradì in modo particolare il loro Sacrificio, infatti da quel giorno uno dei suoi nomi preferiti divenne SUN-SHINE.

 

20.  IL GIUDIZIO
 

“Michele!”. La voce del Signore si fece udire, tonante, appena fuori della Sala del Paradiso, la Sala detta del Grande Silenzio.
“Michele! Ma quante volte debbo chiamarti? Che sei diventato sordo?”.
Michele arrivo’ a volo radente; si ricompose la tunica; chiuse le ali e si inginocchio’ davanti al Signore e disse: “Scusami, Signore, ma ero impegnato a tenere sotto il piede la testa del Dragone. Era il comando che mi avevi dato l’altra settimana. Ora ho lasciato al mio posto un angelo di 2
° ordine, ma avevo capito che quello doveva essere un compito personale. Eccomi! Ordina e sarai ubbidito!”.
“Devi prendere la tromba per svegliare i morti. E’ vicina l’ora del Giudizio!
“E fai esercizi di respirazione, perche’ dovrai suonare molto forte. Ti dovranno sentire dappertutto e fin dai secoli piu’ remoti”. Cosi’ detto il Signore se ne torno’ nella Sala del Silenzio, dove naturalmente non poteva essere disturbato per nessunissimo motivo.
Michele si diresse verso la Sala degli Strumenti Musicali, che era proprio li’ di fronte e, mentre sorvolava il pavimento di nuvole ceramicate, composto a mosaico di tipo bizantino in cui abbondavano gli smalti azzurro e oro pensava: “Ma proprio a me doveva dare un compito simile? Io, l’Angelo guerriero per eccellenza, dovrei suonare la tromba? Ma non era un incarico piu’ adatto a Gabriele che e’ abituato a fare gli annunci? Uh, ma che sto facendo? Sto borbottando?
“Vuoi vedere che il contatto, sia pure per una settimana, con Lucifero mi ha contaminato? E, a proposito, a che pro tenerlo sotto il piede? Eliminarlo bisognerebbe, quel demonio!
“No, devo smetterla con questi pensieri autonomi, tanto qui non si puo’ piu’ discutere, percio’ e’ meglio che mi eserciti con questa benedetta tromba!”.
Michele tolse il lungo strumento dalla sua custodia rivestita di velluto viola, lo ispeziono’ ben bene per vedere che fosse tutto in ordine, l’ultima volta che era stato usato era circa un eone prima (millennio piu’, millennio meno) e si sa, anche le trombe piu’ perfette col passare del tempo possono subire piccole alterazioni e… provo’ uno squillo: Ta-tarata’-tata’!
…Subito, da niente, gli si presentarono dinanzi tre personaggi: un uomo alla sua destra, una donna alla sua sinistra e un ragazzetto al centro; tutti nudi e con le mani giunte.
“E voi che volete, ora?”, chiese Michele, “non siamo ancora pronti per chiamarvi in Giudizio; il via lo deve dare il Signore, io ho solamente provato la tromba”.
Il ragazzetto al centro che, uscendo dalla tomba si era subito adeguato al motto “i giovani innanzi tutto” perché aveva respirato l’aria del 20° secolo dell’era cristiana, disse subito: “Lui (indicando a destra) e’ mio padre, si chiama Adamo, lei (indicando a sinistra) e’ mia madre, si chiama Eva. Io sono Abele. Il primo squillo di tromba ha chiamato noi che siamo stati i primi a nascere e i primi a morire. Ora che ci hai destati vorremmo essere giudicati in fretta per poter ascendere in cielo”.
Michele si gratto’ pensosamente la fronte con la parte terminale, stretta, della tromba: era in un bel pasticcio. Ora che si ricordava bene, il Signore gli aveva detto di far respirazione, non di suonare per prova, e non poteva neanche chiamarLo e sbrigare i tre con un Giudizio alla svelta perché Egli era nella Sala del Silenzio e non Lo si poteva disturbare.
“Non potreste riaddormentarvi ancora per un pochino, per favore?”. Michele cercava di convincere il ragazzo.
“No, ormai non abbiamo piu’ sonno. Possiamo pero’ aspettare”, concilio’ il ragazzo, sempre parlando anche per i genitori.
E i tre si sedettero pazientemente sulle nuvole, li’ proprio nella sala della Musica, che era poi davanti la Sala del Silenzio.
Passo’ del tempo, forse un giorno o due, poi il Signore si ricordo’ di aver predisposto tutto per il Giudizio Finale, usci’ dalla Sala del Silenzio e guardando dinanzi a Se’ vide, seduti sulle nuvole, tutti nudi, i tre che aspettavano.
“E questi chi sono?”.
Michele che era rimasto anche lui ad aspettare, subito si fece avanti per perorare la causa dei tre; spiego’ come erano andate le cose, si scuso’ per quello squillo di tromba che gli era sfuggito distrattamente e prego’ il Signore di dare il Giudizio Finale ai tre in anteprima. Inizio’ quindi a narrare le loro storie: Adamo aveva peccato proprio all’inizio, ma poi aveva anche scontato tutta la sua pena “con dolore aveva tratto il cibo dal suolo per tutti i giorni della sua vita e col sudore del suo volto aveva mangiato il pane e poi, essendo polvere in polvere era ritornato(
*). Eva, che aveva spinto Adamo a peccare e peccato lei stessa, “aveva partorito con dolore ed era stata dominata dal marito”(**), come prescritto dalla punizione. Abele infine, essendo loro figlio e fratello di Caino, era da questo stato ucciso.
Alla fine del racconto ognuno di loro si mise a pregare e a implorare di essere assunto in cielo: non avrebbero avuto l’elemosina di una piccola ascensione in cielo dopo quasi un eone di tempo?
Il Signore guardo’ Michele: “ Non saranno mica tutte cosi’ le storie di quelli che dobbiamo rigiudicare per farli entrare in Paradiso con tutta la carne, spero! Questi ormai falli entrare, prima pero’ da’ loro una tunica decente, qui non abbiamo mai avuto un campo di nudisti! E poi rimetti a posto subito quella tromba! Non mi pare proprio il caso di sentire miliardi di storie lacrimevoli tutte insieme. Quando sara` l’ora, dovrò studiare il sistema, faremo una cosa sbrigativa, senza un vero e proprio giudizio da parte Nostra…”.
In quel momento arrivo’ tutto trafelato un angelo di 3
° ordine con  un messaggio da parte dell’angelo di 2° ordine lasciato da Michele con il piede sulla testa del Dragone: chiedeva urgenti rinforzi, perché il Dragone dava evidenti segni di irrequietezza e lui non voleva correre il rischio di farselo sfuggire.
Fu cosi’ che il Signore ordino’ a Michele di prendere le chiavi dell’abisso e la catena e di imprigionare il Dragone per 1.000 anni. Era il tempo che Gli ci voleva per fare organizzare ai suoi angeli un sistema di Giudizio finale autorealizzantesi.
Dopo quei 1.000 anni, Michele, in premio della sua fedeltà, avrebbe avuta la Grande Battaglia finale ad Armagedon (una soddisfazione bisognava pur dargliela) e poi… uno squillo di tromba, uno solo e si sarebbe innescato un processo di reazione a catena: fuga di cielo e terra… i morti tutti davanti al trono, il libri aperti. Il Libro aperto (che e’ quello della vita) e chi non si fosse trovato scritto nel Libro della Vita… giù, nello stagno di fuoco (
*). Ma senza storie, senza suppliche, senza lamentele inutili. Quelle cose non le sopportava proprio.
Cosi’ stabili’ il Signore quel giorno e poi se ne torno’ nella Sala del Grande Silenzio, come al solito.

 

21.  IL MONDO 

   

“Che cosa e’ la Verità?”, chiese una volta al Budda un suo discepolo. Dicono che Budda a quella domanda per tutta risposta guardasse lontano e sorridesse.
Aveva forse intravisto dietro le spalle del suo seguace la fanciulla nuda, premio ultimo dell’iniziato che ha percorso tutto il Sentiero? O non volle rispondere perché non c’e’ risposta alla domanda?
Non lo sappiamo. Fatto sta che per quella volta Budda se la cavo’ con poco, ma quel discepolo non si accontento’ della non-risposta e il giorno dopo gli pose di nuovo la stessa domanda e ancora il giorno dopo e continuo’ ad aspettare giorni e mesi che il Maestro gli desse soddisfazione.
Fu cosi’ che il Budda cedette alle insistenze del suo discepolo e un giorno gli racconto’ la seguente favoletta: “C’era una volta un contadino che coltivava la terra; egli possedeva un toro molto intelligente che l’aiutava in tutti i suoi lavori e col quale parlava alla sera quando era stanco, al ritorno dai campi. Un giorno il toro si ammalo’ e confido’ al suo padrone che sarebbe presto morto se non avesse mangiato di un’erba particolare che cresceva in una lontana foresta. Il contadino che amava molto il suo umile compagno si rese conto delle sue esigenze e decise di portarlo a pascolare dove avrebbe trovato l’erba miracolosa. Camminarono per giorni e giorni, ma dell’erba che cercava il toro, nessuna traccia. E un giorno arrivarono al mare.
Il contadino che non aveva mai visto quella immensa distesa di acqua si fermo’ stupefatto e confesso’ al suo amato toro di non saper proseguire; stavano per rinunciare all’impresa quando apparve loro un essere un po’ strano, pareva un viandante, con un grande mantello, tutto circondato da vapori. Il contadino spiego’ al viandante che era in cerca dell’erba miracolosa e che il mare costituiva per lui un ostacolo insormontabile. Allora il viandante gli insegno’ a costruire una barca e gli confido’ a sua volta di essere malato e alla ricerca della stessa erba magica.
Insieme il contadino, il toro, il viandante salirono sulla piccola imbarcazione e, dopo giorni e giorni di navigazione più o meno avventurosa, approdarono ad una spiaggia. Sulla riva della spiaggia, appollaiata proprio in cima ad un albero, videro un’aquila reale, bellissima, tutta azzurra e con le ali d’oro.
“Per poter trovare l’erba che cercate, dovrete seguire me”, disse l’aquila, “anche io, da anni la desidero per ringiovanire, so dov’e’, ma da sola non posso prenderla”.
“Ma tu voli!”, dissero i tre, “come facciamo a seguirti?”.
“Volate anche voi!”, fu la risposta.
Con i vapori che sapeva modellare il viandante, fecero un carro, vi salirono dentro e, guidati dall’aquila, sorvolarono tutti e quattro la foresta.
Arrivati sopra una radura l’aquila scese ed il carro atterro’.
Davanti a loro c’era una grotta e all’imbocco della grotta un leone, il quale li accolse con gran ruggiti di giubilo. Anch’esso era malato e aspettava il loro arrivo per potersi nutrire dell’erba miracolosa che gli avrebbe reso le forze, sapeva che l’erba era nella grotta, ma da solo non era in grado di riconoscerla.
Allora finalmente tutti e cinque entrarono nella caverna e, proprio sul fondo, scoprirono una specie di apertura che dava su una valletta tutta fiorita.
Il toro si diresse sicuro verso un cespuglio e ne mangio’ e dietro di lui mangiarono l’amico viandante, l’aquila e il leone.
Il contadino invece prese alcuni rami dell’erba magica, il cui profumo l’aveva subito attirato, l’intreccio’ a corona e se li mise sul capo.
Allora il toro, il viandante, l’aquila e il leone scomparvero dalla sua vista e, al loro posto, apparve una fanciulla nuda, bellissima, con un velo in una mano due bacchette nell’altra: era la Verità, e cosi’ gli parlo’: “Tu, cogliendo l’alloro della Vittoria sui quattro elementi che sei riuscito ad armonizzare in te, hai conquistato il Mondo, il tuo Mondo. Per questo ora puoi conoscermi. Sappi pero’ che io non sono un raggiungimento definitivo, perché ogni volta che io vengo svelata, debbo ri-velarmi”. Cosi’ detto gli regalo’ le due bacchette e scomparve.
Il contadino torno’ a coltivare il suo campo. Ora portava in se’ i suoi quattro amici ed era più solo di prima, ma quando voleva vedere la Verità della realtà, gli bastava prendere in mano le due bacchette e unirne le punte, pero’ non poteva svelare a nessuno il suo segreto, perché tutte le volte che ci provava la Verità gli si nascondeva”.
Il Budda termino’ cosi’ la sua storia e pianse.
Allora il suo discepolo smise di far domande, medito’ per 21 giorni di seguito sulla Verità regalatagli dal suo Maestro e ricevette l’Illuminazione.
E il suo nome divenne Mouna, che vuol dire Silenzio.

 

22.  IL MATTO   

C’era una volta un vagabondo che non aveva nessuna voglia di lavorare, tanto e’ vero che lo consideravano tutti un fannullone buono a nulla; quando entrava nei villaggi per chiedere in elemosina qualche tozzo di pane, a volte ne riceveva, raramente riusciva ad avere anche una scodella di minestra, molto spesso tutto quello che raggranellava erano insulti e minacce o canzonature da parte dei ragazzi, i quali, poi magari, gli aizzavano contro anche i cani.
In quel giorno di novembre il nostro vagabondo era appena uscito in tutta fretta da un paesotto in cui più del solito lo avevano maltrattato e deriso; era dovuto andar via di corsa perché tre o quattro cani gli erano corsi dietro abbaiando e uno di loro aveva addentato e strappato i suoi calzoni. Era proprio malridotto a vedersi! Col vestito tutto un arlecchino, la barba lunga e incolta, il cappello largo tutto sformato e scolorito e adesso anche con i pantaloni a brandelli…
Ma in fondo che c’era da meravigliarsi? Tanto lo consideravano tutti matto!
Peggio (o meglio?) di cosi’…! E in che cosa consisteva la sua pazzia? Nel non avere una dimora fissa, ne’ possedimenti di nessun genere (non aveva neanche la reputazione, che e’ un possedimento anche quello). Non aveva affetti, ne’ legami, il che vuol dire nessun problema. E per questo, per cosi’ poco era Matto? O non era piuttosto troppo savio, tanto da essere considerato pericoloso e perciò da tener lontano? E quando era cominciata questa sua follia? Anni addietro.
Oh, allora aveva famiglia, ricchezze, lavoro, il che significa affetti, legami, preoccupazioni, soddisfazioni e dispiaceri e continui alti e bassi di umore che a lungo andare gli avevano resa la vita un inferno. Una volta stanco di tutta quella girandola di azioni, sentimenti e pensieri, arrivato alla domanda fatale: “Chi sono io?”, si era risposto: “Un burattino!”. Allora aveva rotto il burattino: aveva lasciato la famiglia, la casa, il lavoro ed aveva iniziato il suo pellegrinaggio. Verso che cosa? Verso chi? Verso Se Stesso. Ed era diventato Matto per tutti gli altri.
Eppure, a dir la verità, ci si divertiva tanto a fare il buffone! Quando gli chiedevano qualche cosa, rispondeva a caso la prima sciocchezza che gli veniva in mente e gli piaceva vedere e suoi interlocutori stralunare gli occhi e cercare una logica in un discorso del tutto sconclusionato.
Poi a volte citava frasi e versi di libri importanti, testi sacri o opere famose che aveva letto nei primi anni della sua giovinezza, con un’aria cosi’ “compresa” da far credere a tutti di essere in preda a qualche fantastica visione astrale.
Poi, quando aveva ottenuto il pezzo di pane che gli serviva per sopravvivere, se ne andava tutto solo per la campagna, in cerca della Pace e di Dio.
Se vedeva qualcuno da lontano si faceva gran risate da solo e cosi’ lo evitavano e non era disturbato. Matto lui o matti tutti gli altri? E se la parola “matto” deriva da “mattatore”, cioè uccisore, allora chi era che uccideva? Matto lui, l’uccisore era lui, che cosa uccideva se non la stupidita’ dei “savi”, cioè di coloro che lo credevano pazzo? Matti gli altri, gli uccisori erano gli altri, che uccidevano lo Spirito in se stessi.
Tuttavia c’era un problema che ancora lo assillava: di essere Folle era ben felice, ma voleva essere sicuro di essere il “Puro Folle”, cioè colui che può sedersi sulla 13ª sedia della Tavola Rotonda e non essere fulminato. Non voleva recitare solo la parte del “Puro Folle” (ammesso che ci fosse stata una qualche differenza tra le due cose). In ogni modo da qualche tempo quello era diventato il suo problema e, si sa, i problemi hanno sempre una soluzione, l’unico guaio e’ che la soluzione costa sempre il prezzo doppio del valore del problema.
E quella mattina di novembre il vagabondo andava verso la soluzione del suo ultimo dilemma: di fronte a lui c’era l’abisso e il coccodrillo (o il dragone) in agguato, a guardia del Mistero. Egli sarebbe andato avanti. Se era il Vero Puro Folle, sarebbe passato indenne oltre il baratro, se non lo era vi sarebbe precipitato dentro e sarebbe stato finito poi dal mostro.
Non c’erano ragionamenti da fare, ne’ soluzioni da prendere. Solo andare, solo provare. E, passo dopo passo, lasciati il bastone a cui si appoggiava e il mucchietto di stracci che portava appeso sulle spalle, il vagabondo col cuore lacerato dal dubbio, continuo’ a camminare verso il precipizio… e oltre.
Non più “persona”, ma punto. Il Punto dell’universo in caduta libera, senza gravita’, senza attrazioni, senza destino.
Vagava per l’Infinito, era l’Infinito.
Vago’ cosi’ in beatitudine secoli e secoli… forse millenni o eoni…
Poi un giorno si ricordo’ di una valletta tra i monti con al centro un lago tutto azzurro, in cui l’aria era fresca e profumata di lilla’.
E il ricordo gli piacque.
Fu cosi’ che un giovane biondo, con uno strano cappello in testa a forma di 8 rivoltato (∞), con un vestito da giocoliere ed in mano un denaro, una coppa, una spada e un bastone, comincio’ a giocare.

 

Era nato un Bagatto.