I
RACCONTI
dei
TAROCCHI
Introduzione
Alla
domanda del come dai commenti esoterico-cabalistici di Testi Sacri quali
l’Apocalisse, la Genesi, la Sapienza, il Tao-tê-Ching, l’I-Ching, i
Vangeli ecc. siamo giunti alla stesura di questi “strani” Racconti dei
Tarocchi e di quale scopo ci siamo prefissi nel pubblicarli, cercheremo di
rispondere esponendo alcuni concetti maturati in noi durante questi anni
di studio e che potranno utilmente servire da premessa a questa opera.
Riteniamo,
infatti, che sia doveroso rendere gradevolmente accessibili a tutti i
ricercatori i significati esoterici dei Testi Sacri, le uniche vere guide
alla Reintegrazione, che è la sola meta concepibile dell’incarnazione,
contrapposta alla disintegrazione, l’altra meta altrettanto e forse più
facilmente raggiungibile dall’umanità di oggi.
I
Tarocchi sono uno dei Testi Sacri occidentali più profondi e
“praticamente” validi per la realizzazione dell’Opera.
Lo
studio comparato e la sovrapponibilità dell’I-Ching con i Tarocchi ci
ha facilitato grandemente il passaggio dall’Immagine alla sua animazione
e per questo abbiamo voluto sperimentare una tecnica inversa a quella
usata nei nostri precedenti commenti ai Testi Sacri. Lì avevamo sempre
ricercato (e ritrovato) il glifo cabalistico nel racconto,
nell’avventura, nella lezione, nella parabola, nell’esagramma; qui, al
contrario, abbiamo tentato di rivestire ogni lamina, simbolo cabalistico
per eccellenza, di personaggi e vicende, per dimostrare a noi stessi la
reversibilità del passaggio Simbolo-Storia e Storia-Simbolo e la realtà
della loro reciproca imprescindibile fusione.
Infine:
di commenti ai Tarocchi basati sul loro significato e sui loro simboli ne
sono stati scritti a iosa e alcuni talmente validi e completi da rendere
utopistica la speranza di poter scrivere qualcosa di nuovo al riguardo.
Dati questi quattro punti, si trattava di organizzare la struttura del
testo in qualche modo validamente significativo.
Normalmente
i Tarocchi hanno una sequenza numerica data dalla successione dei Trionfi:
Bagatto 1, Papessa 2, Imperatrice 3 ecc., sequenza che è un viaggio
iniziatico in cui il Discepolo, partendo dalla possibilità di dominio sui
quattro elementi (Bagatto, 1) giunge gradualmente alla loro definitiva
dominazione (Mondo, 21), salvo poi a ricominciare il ciclo col n. 22, il
Matto che è il Bagatto Folle.
Noi
invece abbiamo “penetrato”, vivendole, non una successione di 20 (+ 1)
tappe con un “arrivo”, ma ben “22 possibilità di arrivo”,
partendo dal presupposto Zen che qui e ora è la realizzazione del Divino
(Tao) per la perfezione assoluta insita in ogni attimo dell’Eterno
Presente. Infatti abbiamo considerato ogni lamina come “Porta senza
porta” del Regno dei Cieli e adoperato i simboli delle carte come sassi
per bussare a questa non-porta. Sperimentando tale tecnica, che è la
tecnica dei “Koan” Zen, si può produrre nello studente la mutazione
che rende possibile vivere il Tarocco dall’interno, nell’esperienza
assoluta del proprio Bagatto, del proprio Eremita, del proprio Diavolo
ecc… In altre parole abbiamo tentato di far “collassare” la
struttura cabalistica di ogni lamina, dopo averla animata, nel suo Kether.
Non
ci siamo riusciti del tutto – altrimenti non staremmo qui a raccontarlo
– ma ci abbiamo provato e ci siamo divertiti!
Pertanto,
diciamo ai nostri quattro lettori: buona lettura, buon esercizio e…
Buona Fortuna!
F.V.
1. IL
BAGATTO
C’era
una volta… così cominciano le favole, le storie dei bambini, e poiché
“Qualcuno” ha detto “… se non diverrete come bambini non entrerete
nel Regno dei Cieli…”,
noi cominciamo così: C’era
una volta un ragazzo vivace e ambizioso, che non aveva una gran voglia di
“lavorare” (cioè di vivere) nel senso comune della parola, perché
gli piaceva giocare alle carte: giocare con i Denari, le Coppe, le Spade,
i Bastoni. Qualche volta, per giocare meglio, cercava di entrare
“dentro” le carte e, quando ci riusciva, si divertiva moltissimo.
I
Denari erano piacevolmente attraenti, gli davano una gradevole sensazione
di sicurezza terrestre.
Le
Coppe erano più emozionanti, con la fluidità del loro contenuto plastico
ed acquoso lo facevano sentire protagonista di chissà quali avventure.
Le
Spade erano le più raffinate, con la loro penetrabilità decisa e sottile
gli permettevano i voli aerei più temerari.
Infine
c’erano i Bastoni; quelli erano i più difficili da manipolare. Perché?
Perché, cari miei, quando si tratta di “bruciare”, sia pure per
conoscenza, è sempre un affar serio!
Quel
mattino di maggio la montagna era verde, l’acqua de lago era azzurra e
trasparente, l’aria era pura e dolcemente profumata di lillà, con una
brezzolina impercettibile; il sole, in alto, era tiepido e carezzevole.
Il
Giovane Cercatore, in piedi in riva al lago, mescolò le carte a lungo,
poi “guardò la Carta”: era l’Asso di Denari.
Si
fece piccolo piccolo e, pronunciata l’esatta formula magica, si
introdusse nell’Oro di Terra.
Le
solite domande turbinavano: “Perché? Dove? Chi?”. Le solite risposte
lo attiravano. Lì, nel centro, era la Forza primordiale, abissale, di
riproduzione, di conservazione, di Pietrificazione.
Quando
quel vortice cessò di roteare, ci fu un attimo di sospensione: Egli si
trovò sull’orlo di un immenso Calice; Egli era l’Asso di Coppe.
Cominciò
a nuotare nel liquido lì contenuto come in un mare, un mare di tutti i
colori, dal rosso aranciato al blu-violetto non c’era altro che il
godimento di quel fluire e rifluire di onde… Ma era un vortice anche
quello, e cessò di roteare quando Egli fu proprio al centro della Coppa.
Ora
aveva in mano la Spada; Egli era l’Asso di spade.
Si
fece leggerissimo, si librò nell’aria; non c’era un gruppo di nuvole
che non volesse essere penetrato, non c’era vento che non richiedesse
d’esser cavalcato… e tutto era di una tale chiarità da poter esser
conosciuto in verità.
Ma
era un vortice anche quello, e cessò di roteare quando Egli giunse al
centro. Lì la Voce, l’ultima udibile prima del Grande Silenzio, scandì
il Verbo Creativo e dal profondo abisso del primo vortice fu tutta
un’eco di risposte: “Eccomi!”.
Egli
era l’Asso di Bastoni.
Il
Bastone cominciò ad ardere e la sua mano destra divenne di fuoco.
Fiamme
di tutti i colori dovevano da Lui essere evocate, suscitate, domate. Egli
le fece strisciare, danzare, divampare, esplodere!
Ma
era un vortice anche quello, e cessò di roteare quando Egli giunse al
Centro. Al Centro dei centri c’era lo Specchio di Atomica Luce
Pluridimensionale. Attraverso di Quello doveva passare.
Aveva
tre possibilità:
Non
riuscire. Allora sarebbe stato ricoverato al Celeste Ospedale del S.
Spirito per “Sacre Ustioni” guaribili in 10 ee. (= eoni, naturalmente
del tempo senza tempo) e immediatamente rispedito sulla terra “a carte
scoperte”: qui avrebbe dovuto ricominciare a “lavorare” normalmente.
A volte accade.
Riuscire
a metà. Allora l’avrebbero nominato Maestro nel Regno dei Cieli ma,
prima di permettergli di creare qualche pianetino di periferia
(naturalmente sotto la guida di un Anziano), l’avrebbero inviato ancora
una volta su “una delle terre da redimere” perché fosse onoratamente
“Croce-fisso”. Raramente accade.
Oppure
RIUSCIRE.
UNA VOLTA DEVE ACCADERE.
Quella
mattina di maggio, a Mezzogiorno, la Montagna era più verde. L’Acqua
del Lago era più azzurra e trasparente. L’Aria era più pura e più
dolcemente profumata di lillà con una brezzolina impercettibile. Il Sole,
in alto, era più tiepido e più carezzevole.
La
riva del Lago era deserta.
…
E gli astronomi, se avessero saputo farlo, in un non troppo lontano
Universo avrebbero contato una Stella in più.
2.
LA PAPESSA
Raccontano
gli Antichi Saggi, che esiste, non si sa dove, su un’isola meravigliosa,
un giardino stupendo, detto il Giardino dei Melograni.
Essi
dicono che proprio nel centro del giardino c’è un Tempio, e che sulla
soglia del Tempio, su un trono d’oro e d’argento, siede sempre una
Donna bellissima, Velata. Sul suo capo è posta una tiara sormontata da un
quarto di luna. Ella indossa una tunica blu e un mantello rosso-porpora;
nella mano destra tiene il Libro con il sigillo del Tao, nella sinistra le
due chiavi, quella d’oro e quella d’argento; il suo sguardo è
misterioso e magnetico, attira ed allontana insieme; ai suoi piedi dormono
due sfingi, una bianca, una nera.
Era
l’ora del crepuscolo, in quel giorno di primavera inoltrata, quando
“Qualcuno” approdò all’isola meravigliosa ed entrò nel giardino.
Egli sapeva di essere nel Giardino dei Melograni, ma entrandovi non ne
riusciva a scorgere alcuno: era quello un parco bellissimo, con tutte le
specie di alberi, tutte le sfumature di verde, i fiori di tutti i colori,
i profumi più delicati e più intensi.
“Forse
i Melograni sono nascosti”, pensò quel “Qualcuno”, il cui corpo era
completamente avvolto da una calzamaglia blu-viola scurissimo (forse per
mimetizzarsi nella notte ormai prossima).
I
suoi movimenti erano rapidi e furtivi. Cercava i Melograni.
Cominciò
a percorrere il primo tratto del parco e, passando tra gli alberi, li
guardava uno per uno, attentamente, per accertarsi che non fossero quello
che cercava; non si fermava mai a lungo, non si faceva sedurre dai colori
e dai profumi.
Finalmente
giunse al centro del giardino; lì, sotto l’albero del Fico e della
Mimosa, i cui rami si intrecciavano, era l’ingresso del Tempio e
davanti, seduta sul Trono, la Donna Velata.
“Voglio
entrare”, disse l’Intruso.
“Bisogna
presentarsi 33 volte”, si degnò di rispondere la Sacerdotessa.“Questa
è la trentatreesima”.
“Allora
saprai anche le altre regole, entra!”.
Lo
strano Personaggio, infatti, pareva saperla lunga. Non entrò.
Aveva
adocchiato le due sfingi, la bianca a destra, la nera a sinistra del Trono
della Sacerdotessa.
Egli,
ponendosi a uguale distanza dai due mostri, cominciò una strana danza,
gli occhi delle due sfingi lo seguivano attentamente e al termine del
balletto si abbassarono: Egli aveva composto con le varie figurazioni
della danza le lettere della Parola di Potenza che gli permetteva
l’accesso.
…Ed
ecco, la Papessa non c’era più, il trono era scomparso e così le due
sfingi.
Ora
Egli sapeva di poter entrare e nel contempo sentiva avvenire una mutazione
in se stesso, guardandosi vide che ora aveva indosso la tunica blu, il
mantello rosso-porpora, in testa la tiara con in cima la luna, nella mano
destra il libro con il sigillo del Tao, nella sinistra le due chiavi
d’oro e d’argento.
Con
passo elastico si diresse verso la Porta del Tempio, ma un velo molto
fitto univa le due colonne e ne nascondeva l’ingresso, Egli stava per
togliere il velo, ma qualcosa lo trattenne. Se l’avesse lacerato
sicuramente un qualche equilibrio sarebbe stato turbato. Doveva passarvi
attraverso, doveva penetrarlo, non violentarlo, altrimenti ne avrebbe
subito il contraccolpo. Lo pensò intensamente dietro alle sue spalle,
ostacolo già superato, già conosciuto, e così fu.
Era
dentro. Nel “suo” Tempio. Ora doveva visitarlo. Con la chiave
d’argento aprì la porta della prima stanza: era piena di immagini
fluttuanti con strani esseri acquatici da comandare ed organizzare… non
era facile perché guizzavano da tutte le parti, ma alla fine li ebbe
sotto controllo; la prima stanza era come un anello intorno ad una stanza
più interna. Con la chiave d’oro aprì la porta della seconda stanza.
Qui volavano in cerchi vorticosi uccelli colorati di tutte le dimensioni
ed i loro canti si mescolavano confusamente. Egli doveva coordinare i voli
e, armonizzati i canti, creare una melodia unica; eseguì anche questo
compito, poi proseguì.
Anche
la seconda stanza correva come un anello intorno ad una stanza più
interna. Per poter aprire quest’ultima dovette mostrare il sigillo del
Libro. Entrò. Qui tutto era Silenzio. Al centro sotto una Luce Folgorante
Autogenerantesi cresceva l’Albero dei Melograni.
La
nuova Sacerdotessa si avvicinò con grande riverenza: avrebbe potuto
cogliere il frutto, assaggiarlo, distribuirne i grani color rubino agli
uccelli ed ai pesci delle due stanze e poi riuscire dalla Porta del
Tempio; allora avrebbe dovuto pazientemente sedersi sul trono con le due
sfingi ai suoi piedi e lì pazientemente aspettare che un altro
“Folletto” (= piccolo folle) in calzamaglia blu-viola venisse a
prendere il suo posto, liberandola.
Oppure
avrebbe potuto prendere in mano la Luce Folgorante Autogenerantesi e
“bruciare” l’Albero dei Melograni.
In
una frazione di secondo non ci sarebbe stata più né Sacerdotessa, né
Tempio, né giardino, né isola.
È
per questo che i Saggi non sanno mai dire dove si trova l’isola del
Giardino dei Melograni, perché talvolta ritorna al Gran Nulla con la sua
Custode e allora la si deve ricreare dal Nulla. E non è facile.
3.
L'IMPERATRICE
C’era
una volta una regina, anzi un’Imperatrice molto bella che governava 12
Nazioni; allorché sedeva sul trono non c’era Donna più bella di Lei.
Ogni
mese, alla luna nuova, riceveva i rappresentanti dei suoi 12 Stati e dava
ad esse le disposizioni più particolareggiate per il governo di ogni
singola Nazione.
Nella
parte più bassa dell’Impero c’erano gli Stati dei Pesci,
dell’Ariete, del Toro, dei Gemelli che lavoravano in primavera-estate ed
erano legati ai 4 elementi terrestri; al centro c’erano gli Stati del
Cancro, del Leone, della Vergine, della Bilancia che lavoravano in
estate-autunno ed erano legati ai 4 elementi di acqua; infine, nella parte
più alta c’erano gli Stati dello Scorpione, del Sagittario, del
Capricorno e dell’Acquario che lavoravano in autunno-inverno ed erano
legati ai 4 elementi di aria.
In
quel giorno di udienza estiva si notava una certa confusione: i 12
delegati erano in subbuglio perché nelle 12 Nazioni, in tutte, si stava
verificando un fenomeno davvero insolito: i serpenti di tutte le razze si
riproducevano in modo impressionante ed erano serpenti sapienti e
parlanti, non strisciavano solo, ma si ergevano e davano consigli cosicché
la gente sempre più frequentemente li teneva in casa arrotolati negli
angoli dei soggiorni, li nutriva di latte e miele e permetteva loro di
sorvegliare i bambini piccoli.
Qualcosa
stava cambiando in tutto il paese e gli abitanti acquistavano a poco a
poco una civiltà “serpentina”.
L’Imperatrice
chiese ai delegati di tornare entro le 24 ore con il serpente più
sapiente che ognuno di loro avesse trovato nel territorio di sua
competenza e, entro le 24 ore prescritte, 12 serpenti sapienti e parlanti
si arrotolarono ai piedi della Sovrana. Impugnando lo scettro d’oro di
fronte al quale la menzogna non esiste, l’Imperatrice domandò ai
serpenti di esporre le loro intenzioni e soprattutto di giustificare il
loro intervento straordinario sui suoi sudditi.
Il
serpente dello Stato del Toro (terra di terra) e quello dello Stato del
Sagittario (fuoco di aria), con le code intrecciate fra loro si
presentarono quali esponenti di tutti i 12 serpenti:
“Abbiamo
deciso di completare l’opera iniziata dal nostro Grande Avo nel giardino
dell’Eden. Ora gli abitanti di questo impero sono pronti, e se
seguiranno ancora per un po’ i nostri consigli diverranno davvero
(finalmente!) simili a Dio”.
“E
che cosa consigliate loro?…non sarà mica ancora la storia della mela,
con tutti i guai che ha provocato! Sarebbero ben sciocchi a darvi
retta”.
“No,
no”, risposero all’unisono i due serpenti, “stavolta i consigli non
presentano pericoli di sorta, gli insegniamo solo la pulizia, l’ordine,
la collaborazione”.
L’Imperatrice
in effetti non si fidava troppo della tanto ostentata onestà dei due
serpenti, ma credeva nel potere del suo scettro e li ascoltò fino in
fondo. Quelli chiacchierarono e chiacchierarono di ristrutturazione
pianificata della natura, di liberazione collettiva dai complessi e dalle
costrizioni psichiche secolari, di uguaglianza di funzioni e di diritti e
non la finivano più di portare dati e statistiche a convalida delle loro
asserzioni.
Alla
fine, come Dio volle, tacquero.
“Orbene”,
disse l’Imperatrice, “vi do il tempo di 12 lune nuove per portare qui
anche un solo esemplare di uomo-Dio; se mi dimostrerete di averlo
divinizzato con i vostri sistemi, potrete continuare la vostra opera,
altrimenti tornerete allo stato di serpenti striscianti e muti”.
12
lune nuove più tardi i delegati delle 12 Nazioni non si presentarono, e
nemmeno i serpenti. Allo scadere del tempo stabilito l’Imperatrice
dovette aprire le sue immense ali e volare sul suo territorio per rendersi
conto personalmente della situazione.
I
serpenti erano diventati i signori delle 12 Nazioni e su tutti regnavano
in connubio il serpente dello Stato del Toro e quello dello Stato del
Sagittario. Insieme agli altri 10 serpenti essi formavano il Dragone alato
a 12 teste.
L’Imperatrice,
sdegnata della loro impudenza, se ne tornò sul suo Trono e immediatamente
chiamò l’Arcangelo Michele. Con l’autorità conferitagli dallo
scettro e dall’aquila del suo blasone gli ordinò di catturare il
dragone a 12 teste. L’Arcangelo Michele che non aspettava altro da
millenni si precipitò con le sue schiere e ci fu battaglia in cielo e in
terra.
Il
dragone fu incatenato e portato ai piedi dell’Imperatrice la quale pose
il piede destro sul suo capo.
In
quello stesso momento l’Impero tutto si trasformò, le stelle della
corona dell’Imperatrice cominciarono a ruotare, l’aquila del blasone
prese il volo e lo scettro rifulse nello splendore della Parola di Potenza
tracciata dalla mano dell’Imperatrice e l’Adamo che costituiva
l’insieme delle Nazioni divenne Dio.
È
per questo che ogni volta (da sempre) il serpente può alzare la testa e
dar consigli.
4.
L'IMPERATORE
E’
questa la storia dell’Imperatore, e quando si dice dell’Imperatore si
intende dire piuttosto del “Messaggio per l’Imperatore”; il fatto è
che, se si riuscisse a portare il famoso messaggio, tutti i problemi
sarebbero risolti; infatti Lui, l’Imperatore, è l’unico che, tutto
potendo, può esaudire le richieste del Messaggero.
Ma
l’Imperatore è sempre troppo in alto, il suo Trono cubico troppo
perfetto, la sua corazza troppo impenetrabile, il suo scettro troppo
potente; come giungere fino a Lui? Come fargli avere il Messaggio?
Quella
mattina di agosto, nonostante il caldo afoso, il Messaggero indossò
l’abito da cerimonia e, fattosi coraggio, bussò all’imponente
Castello dell’Imperatore. Dove si trova il Castello? Ma lo sanno tutti
dov’è il Castello dell’Imperatore, solo che i più non lo vedono
perché è avvolto dalla nebbia e gli passano accanto senza accorgersene!
Dunque
il Messaggero bussò ed una voce che veniva da tutte le parti e da nessuna
in particolare gli chiese che cosa volesse.
“Parlare
con l’Imperatore”.
Gli
fu detto di aspettare nell’atrio, ma Egli, memore dell’inutile attesa
di tanti altri messaggeri, pensò che non era il caso di aspettare in
eterno che “nessuno” lo chiamasse; allora valicò il portone ed entrò.
“Devo
mostrare di essere pratico del posto”, si disse, “aver l’aria
tranquilla e l’atteggiamento di quello che non vuole essere disturbato
perché ha fretta e non ha tempo da perdere”.
Nessuno
gli chiese nulla, nessuno gli sbarrò il passo e si trovò così nella
sala base, detta la Sala del Fondamento. Il soffitto era come un vasto
cielo e la luna vi appariva in tutte le sue fasi; il paesaggio era quello
del deserto con dune di sabbia e palme in lontananza, a sinistra e a
destra due corridoi larghi e addobbati sontuosamente; al centro una
piccola scala ripida che portava al piano di sopra.
Dagli
studi fatti in precedenza sulla topografia del Castello sapeva che il
corridoio di sinistra portava alla Sala detta dello Splendore, la Sala
degli ambasciatori, dei commerci con l’estero, mentre il corridoio di
destra portava alla Sala detta della Vittoria, la Sala delle ricchezze
minerali e della produzione agricola del paese, della cura e della
riproduzione degli animali e delle piante.
Con
grande sforzo riuscì a vincere l’attrazione che esercitavano su di Lui
i due corridoi laterali e con somma circospezione mise il piede sulla
scaletta stretta che dava di sopra.
Un
immenso salone lo accolse al termine della salita, un salone tutto solare;
guardando nelle diverse direzioni si riceveva il calore del Sole, come
nelle diverse ore del giorno ed a seconda della posizione il Sole era
primaverile o estivo, autunnale o invernale. In realtà quello non era un
salone, ma un vero giardino con le piante più svariate, i fiori più
splendenti.
Era
quella la Sala detta della Bellezza.
Anche
qui c’erano due larghi corridoi ai lati, uno che dava sulla Sala detta
della Forza, in cui si amministrava la difesa dell’Impero, a sinistra;
l’altro, a destra, dava sulla Sala detta della Giustizia, dove si
facevano le leggi e le si facevano rispettare. Avrebbe dovuto esserci
un’altra scaletta per andare ancora al piano superiore, ma non c’era.
“Eppure
deve esserci”, si disse il Messaggero, perché vedeva il piano di sopra
come si vede una terrazza dal basso.
“Dovrò
saltare” pensò, ed era tutto preoccupato, perché conosceva le sue
scarse qualità di “saltatore”.
Inoltre
i sentieri di sinistra e di destra lo invitavano con musiche e canti
melodiosi… come resistere?
Eppure
Egli sapeva che l’Imperatore era proprio al piano di sopra… bastava
forse chiamarlo, ma “come” si chiama un Imperatore?
Gridare:
“Ehi, Imperatore, sono qui!” non gli sembrava dignitoso, e se si fosse
offeso? Ci sarebbero volute le ali per salire di sopra senza scale e senza
ascensore.
“Bisognerà
che ne cerchi un paio!”. Ma qualcosa, proprio al centro dietro le
spalle, gli stava procurando un piacevole fastidio, qualcosa che voleva
mettersi in movimento… l’assecondò e due alucce, prima piccine, poi
sempre più grandi cominciarono a vibrare…
“Allora
posso volare!”.
La
terza sala al piano superiore era indescrivibile; la luce era insieme
lunare, solare, stellare; l’ambiente avrebbe potuto essere in qualunque
modo lo si fosse desiderato, sarebbe bastato “pensarlo” e sarebbe
stato sempre perfetto e reale. Al centro della sala era un enorme Trono
cubico tutto d’oro.
Il
Messaggero avanzò fino ai piedi del Trono e poi ancora, spinto da una
forza interna che lo guidava. Sedette sul Trono. Una Corona scese
dall’alto e gli si posò sul Capo, lo Scettro comparve nella sua mano
Destra, la Corazza con i simboli solari e lunari gli rivestì il petto.
L’Imperatore
era Lui. In fondo l’aveva sempre saputo.
E
ora, che doveva fare?
Aspettare
seduto sul Trono che qualcuno venisse a portargli il Messaggio era
altrettanto noioso quanto aspettare seduto nell’atrio di poter recare il
Messaggio. Bisognava trovare la soluzione che trascendesse il recare e il
ricevere il Messaggio.
Guardò
in su, oltre la Luna, oltre il Sole, oltre le Stelle.
E
non ci fu più Castello, né Sala del Trono, né Trono.
Né
Messaggeri, né Messaggi, né Imperatori.
Solo
l’Infinito.
5. IL PAPA
Aveva
cominciato assai presto ad interessarsi “delle cose dello Spirito”;
quando gli altri giovani della sua età scherzavano e ridevano fra loro,
lui viveva sempre un po’ appartato, come se appartenesse ad un altro
mondo, diverso da quello comune… poi, un bel giorno, sentì proprio la
vocazione: “Mi faccio prete”, disse ed entrò nell’Ordine. Studiando
etica, religione, filosofia e teologia, prese i sette gradi e fu sacerdote.
Poi
fu consacrato vescovo, poi cardinale e, quando morì il Pontefice, fu
eletto e divenne Papa. Per i primi tre anni tutto andò bene; ogni giorno
Sua Santità riceveva i rappresentanti dei suoi fedeli: quelli attivi e
quelli passivi, quelli razionali e quelli mistici, quelli progressisti e
quelli conservatori e a tutti dava direttive, consigli, disposizioni;
calmava gli uni, sollecitava gli altri, visitava diocesi, riceveva capi di
stato con somma diligenza; ma all’inizio del quarto anno cominciò ad
accusare il peso delle eccessive preoccupazioni e responsabilità.
Gli
stava bene il potere del Pastorale, bene la forza dell’Anello, ma la
Tiara col Triregno oltre a “pesargli” sul capo, gli “stringeva”
anche la testa come quei sudditi-fedeli che non erano mai contenti, che lo
volevano, lo toccavano e non lo lasciavano mai in pace. Si sentiva
soffocare.
Una
mattina annunciò di aver bisogno di una settimana di vacanza e prese
residenza in un bel monastero ai piedi di una montagna con un piccolissimo
seguito. “Il Papa è ammalato” si bisbigliava nella curia, ma che
bisbigliassero pure, Lui non ne poteva più e non voleva vedere nessuno.
Digiunò
per tre giorni, al quarto giorno, all’alba, riuscì ad eludere la
sorveglianza dei suoi due segretari privatissimi e s’incamminò, tutto
solo, per una passeggiata su per la Montagna.
Era
ancora distante dalla cima, quando si sentì chiamare col suo nome di
battesimo (ormai nessuno lo chiamava più così). “Chi mi chiama?”,
chiese. “Sono Io, il tuo Dio; finora hai fatto un buon lavoro e perciò
ti ho permesso di diventare Papa, il mio Vicario in terra, ma per essere
veramente tale devi offrirmi tuo Figlio. È per questo che ti ho chiamato,
voglio che tu faccia come Abrahamo, che tu prenda la legna ed Isacco e che
sulla cima della Montagna lo sacrifichi a Me.
“E
chi è il mio Isacco?”.
“Non
lo sai?, sei il ”Padre” della cristianità e non sai chi è il tuo
Isacco? Ma è il tuo pontificato! Già… vedo che non l’hai con te e
che lo hai lasciato ai piedi del monte non per non sacrificarlo, ma perché
ti pesava portarlo su… Non era questo che intendevo quando ti ho
concesso di diventare Papa.
“Scendi
subito giù e prenditi a cuore tuo Figlio e torna quando sarai pronto a
sacrificarlo”.
Fare
un bel falò dei suoi opprimenti fedeli non era in fondo una cattiva idea.
Il difficile era portarli lassù. Il difficile era quello. Tornò a valle
e ricominciò il suo lavoro di tira e molla, di stringere dove era largo e
allargare dove era stretto, togliere dove era troppo e aggiungere dove era
poco e al termine del 7° anno del suo pontificato credette di essersi
occupato abbastanza dei suoi fedeli da poterli portare “su” e
sacrificare.
Tornò
allo stesso monastero e all’alba del giorno seguente tentò per la
seconda volta la scalata della Montagna. Ora portava il pontificato nel
cuore.
Ancora
la Voce lo chiamò per nome ed egli rispose:
“Sono
pronto a sacrificare mio Figlio, lo vuoi?”.
“Tu
credi di essere pronto, ma non lo sei ancora. Non devi avere tuo Figlio
allo stomaco, come l’altra volta, né nel cuore, lo devi portare in
mezzo agli occhi. È allora che lo voglio sacrificato”.
Tornò
da suo popolo. Gli si dedicò completamente e quando gli fu diventato più
caro delle sue pupille, sentì di poter tornare alla Montagna.
“Ora
voglio che me Lo sacrifichi”, disse finalmente la Voce, quando egli
raggiunse la cima.
“Ora
Lo devi ardere sulla legna dell’olocausto”.
“Ma
io non ho legna con me”.
“La
tua legna sono i tuoi pensieri. Quando li avrai bruciati sotto tuo Figlio,
allora sarai il vero erede di Abrahamo”.
Non
ci fu angelo a fermare la mano che recideva la gola del Figlio. Non ci fu
capretto a sostituire il Figlio. E neppure più il Figlio.
Nessun
Papa. Nessuno.
6. IL
BIVIO
Era
tanto tempo che aveva cominciato il viaggio. La strada era lunga, spesso
con ostacoli ma, a volte con maggior fatica, a volte con minore, era
sempre riuscito ad andare avanti. Il suo aspetto era quello di un giovane
viandante senza grandi problemi. Andava e pensava spesso ad una zuppa di
minestra e ad una accogliente locanda dove riposare. Andava e spesso
ricordava il passato; c’erano state due donne nella sua vita: tutt’e
due belle, tutt’e due desiderabili, tutt’e due amorevoli. Una era
estroversa, sempre allegra, espansiva, l’altra introversa, malinconica,
misteriosa. Egli era stato affascinato in tempi diversi dalle due
fanciulle ed ora le serbava entrambe nel cuore, consapevole di dover
decidere prima o poi la scelta della bionda o della bruna.
Ma
rimandava la decisione.
Quel
giorno di autunno non si sarebbe mai aspettato di incontrarle tutt’e
due; erano lì, davanti a lui, su due viottoli diversi, proprio al termine
del sentiero che stava percorrendo: una a destra, una a sinistra, una
allegra e sorridente, l’altra tutta seria e compunta.
Il
primo impulso fu quello di fare dietro-front e di darsela a gambe, ma sentì
di non poterlo fare, prima di tutto perché le avrebbe perse entrambe e
poi perché, voltandosi e alzando gli occhi, aveva visto in cielo sopra le
sue spalle un angioletto tutto nudo librarsi in aria con l’arco teso e
la freccia pronta.
Lo
riconobbe subito. Non aveva scampo. Avrebbe dovuto decidere.
Intanto
le ragazze lo avevano riconosciuto. Quella di destra, bionda, sorridente,
gli rivolse la parola per prima: “Ciao! Come stai? Quanto tempo è che
non ti vedo! Vuoi venire con me? Tu sai che io porto con me il Sole, la
Gloria, la Giustizia, la Saggezza”.
Allora
la bruna, la ragazza tutta seria, subito lo apostrofò: “Come, non sei
già mio? Sai bene che in me hai sempre trovato la Luna, lo Splendore, la
Forza, la Comprensione! Non andare con lei, ma vieni con me e sarai
felice!”.
Le
gambe gli tremavano quando giunse proprio al bivio. Sentì venir meno le
sue forze, perché tutte e due lo attiravano con le loro seduzioni e non
sapeva che fare.
Intanto
le due fanciulle si erano voltate le spalle e parlavano con lui senza
guardarsi, facendogli notare i difetti l’una dell’altra.
Quella
di destra diceva che la rivale era sempre immusonita, sempre con le
lacrime in tasca, sempre talmente chiusa in se stessa che egli non avrebbe
mai saputo di preciso cosa aspettarsi da lei.
Quella
di sinistra invece diceva dell’altra che era sempre troppo allegra e
vivace, che parlava troppo, che non avrebbe mai saputo mantenere un
segreto.
Il
povero giovane si sentiva tagliare a metà e, quel che era peggio, sentiva
che la sua parte destra andava con la ragazza di sinistra e la sua parte
sinistra andava con la ragazza di destra.
Questo
taglio incrociato gli procurava una sofferenza terribile perché in
effetti le amava tutte e due, anzi era pazzamente innamorato di entrambe.
Se
non voleva diventare un burattino in balìa delle due donne ed essere
vivisezionato, doveva reagire e prendere in mano la situazione.
Prima
di tutto farle star zitte. Quella era la prima cosa da fare e, lanciando
un urlo ben calibrato tale da soverchiare le risa e i lamenti delle due,
ci riuscì.
“Sentite,
ragazze”, disse loro, “state calme, prima di tutto è bene che io vi
presenti; forse voi avete sentito parlare l’una dell’altra, ma se
dobbiamo stare insieme è giusto che vi conosciate un po’ meglio ed
impariate i vostri pregi reciproci e non i vostri difetti. Per andare
d’accordo bisogna tener presente solo le buone qualità (e non le
cattive) della persona che ci sta vicino. Vedi, Nera (così si chiamava la
bruna), Bianca (così si chiamava la bionda) è così affettuosa, sempre
pronta a dare, sempre pronta a espandersi, sempre pronta a illuminare. E
tu, Bianca, ascolta: anche Nera è impagabile nelle sue qualità; è
sempre pronta ad accogliere, sempre pronta a conservare, sempre pronta a
nascondere nella sua oscurità riposante; io vi amo tutt’e due e se voi
riuscirete ad andare d’accordo, potremo vivere tutti e tre in armonia,
altrimenti saremo infelici tutti e tre.
Nera
era tutta corrucciata, ma Bianca le sorrise e così cominciarono a parlare
fra loro.
L’Innamorato
le prese tutte e due per mano e proseguì nella stessa direzione da cui
era venuto oltrepassando il Bivio. Lì la strada non c’era, ma il
Sentiero lo tracciavano loro tre, camminando insieme.
In
lontananza si vedeva la Città con le cupole tutte d’oro. Laggiù era la
vera Casa del Viandante ed egli ci sarebbe arrivato solo se avesse
continuato a tenere per (= in) mano le due Donne, guidandole fino alla
Meta.
7. IL
CARRO
Il
guerriero vittorioso, reduce dalle ultime battaglie, mentre riposava sotto
la tenda, aveva ricevuto il messaggio dalle più alte autorità del reame:
“Nel giorno dedicato ai festeggiamenti per la Vittoria, tra 7 gg., sarai
acclamato dalla folla ed avrai il ringraziamento del Re. Dovrai
presentarti sul Carro trainato dalle due Sfingi e, impugnato lo scettro,
guidarlo fin sotto il trono del Re che ti cingerà il capo con la corona
d’alloro”.
Che
al vincitore di numerose battaglie spettasse il trionfo sul carro, lo
sapeva; quando era semplice soldato aveva egli stesso acclamato altri
guerrieri, ma gli sembrava che si trattasse di guerrieri che salivano su
carri normalmente trainati da cavalli, più o meno adorni e con dietro
legati i prigionieri. Questa storia delle due Sfingi lo rendeva perplesso.
Eppure
sul messaggio era proprio scritto: “Dovrai presentarti sul Carro
trainato dalle due Sfingi…”.
Come
erano le Sfingi? Ne aveva mai viste? Come si controllavano? Cercò di
tornare indietro con la memoria ai suoi viaggi per terra e per mare o alle
visite che aveva fatte a Palazzo prima di partire per la guerra e non
ricordava di aver visto Sfingi né in terra, né in mare, né nelle
stalle, né nei giardini reali. Dunque?
Mancavano
ancora 7 gg., alla data fatidica. Pensò: “Sarà bene che mi informi da
qualcuno su dove si possono trovare le Sfingi e come conoscerne la natura.
Ma da Chi farmi consigliare?”.
Gli
avevano detto che in un bosco non lontano viveva un vecchio saggio, che
tutti reputavano Santo. “Andrò da lui”, disse. Lasciò tutte le armi,
prese con sé solo la spada ed una buona provvista di pane ed olio da
offrire al vecchio. Entrò nel bosco. Dopo 12 ore di cammino giunse ad una
capanna costruita presso un ruscello di acqua sorgiva. Chiamò il vecchio,
ma nessuno rispose. Bussò più volte inutilmente alla porta della
capanna, poi spinse l’uscio che era socchiuso ed entrò.
“L’aspetterò
qui”, decise. Mise i doni sulla tavola, si accostò al focolare, dove
ancora ardevano alcune braci e, sdraiatosi su una pelle che era in terra,
si addormentò. Qualche ora più tardi, doveva aver dormito 3 o 4 ore,
sentì entrare qualcuno e vide un vecchio con la barba lunga. Si alzò, lo
salutò molto rispettosamente e gli spiegò il motivo della visita.
Il
vecchio lo ringraziò dei doni e lo invitò a fare le domande, avrebbe
avuto le risposte giuste, nei limiti delle sue conoscenze.
Ed
ecco le domande: Perché avrebbe dovuto guidare un carro trainato da
Sfingi e non da cavalli? Dove avrebbe trovato le due Sfingi? Come avrebbe
potuto renderle docili?
Il
vecchio spiegò subito che un guerriero comune guida un carro trainato da
cavalli, ma “il Guerriero” guida un Carro trainato da Sfingi. Se lui
dunque era un Guerriero (e l’invito del Re lo faceva supporre) doveva
prima di tutto costruirsi il Carro, poi “vedere” le Sfingi e infine
imparare a conoscerle. Gli poteva dire solo che le Sfingi erano una bianca
e una nera; quella bianca andava legata a destra del Carro, era la Sfinge
che aveva la tendenza ad andare troppo avanti; quella nera andava legata
alla sinistra del Carro, era la Sfinge che aveva la tendenza a rimanere
indietro; erano insieme docili e ribelli, mansuete e feroci, ma una volta
“viste” e legate, non era poi impossibile governarle. La cosa più
difficile era “vederle”.
“Il
Carro, l’hai preparato? Hai tempo 3 gg., per costruirlo e 3 gg., per
“vedere” e addomesticare le Sfingi. Non perdere tempo. Una lastra di
pietra quadrata sarà la base del Carro. Il parapetto tutt’attorno,
delle stesse misure lo otterrai con il legno del fico che è a destra
della capanna, le quattro ruote con il legno della mimosa che è a
sinistra, dopo averlo bagnato nell’acqua del ruscello che scorre qui
fuori. Il baldacchino lo farai di foglie e ci dipingerai sopra le stelle,
quelle che ti guidano nel tuo destino, sul davanti del Carro porrai il
Fuoco a indicare l’ardore con cui porti avanti la tua missione”.
Il
giovane Guerriero costruì il Carro come gli era stato consigliato, nei 3
gg. previsti. Ora doveva “vedere” le Sfingi. Ci mise un giorno intero,
ma al termine del 4° giorno, le aveva “viste”; con la testa di donna,
il corpo di leone, la coda di serpente, le ali dell’aquila.
Il
5° e 6° giorno furono dedicati alla “domazione”: mano di ferro in
guanto di velluto, la stessa tecnica che aveva con i suoi soldati per
vincere le battaglie. Quello che richiedeva più impegno con la Sfinge
bianca era farla guardare al centro, ma quando ci riusciva, diventava
docile; doveva trattenerla e tirarla verso sinistra. Il contrario con la
nera, doveva sollecitarla e tirarla a destra.
Due
giorni di esercitazioni l’avevano esaurito, ma prima di partire il
vecchio gli offrì una tazza di latte e miele e subito le forze gli
tornarono.
Era
l’alba del 7° giorno. Doveva affrettarsi se voleva arrivare in tempo
per la cerimonia. Giunse davanti al trono del Re a Mezzogiorno. Le due
Sfingi si inginocchiarono, egli scese e si avvicinò al trono; il Re si
alzò in piedi, gli cinse il capo con la corona degli eroi, lo abbracciò
e gli sussurrò all’orecchio: “Ora sei davvero il Guerriero. Solo a
chi riesce a “vedere” le due Sfingi e a dominarle è degno di
Governare il Mondo. Ti darò mia Figlia in isposa e ti farò mio erede”.
E
così fu.
Dicono
che poi, molti anni dopo, Egli abbia trovato lo Sposo per Sua Figlia nella
stessa maniera.
A
noi pare strano… ma sapete come sono ingenue le favole!…
8.
LA GIUSTIZIA
Quando,
all’inizio dei tempi, erano state assegnate le parti, la Dea aveva
accettato di buon grado di interpretare “la Giustizia”. Un comodo
trono, una corona a otto punte molto lucente, anche se non d’oro, una
spada diritta e sfolgorante ed una bilancia molto precisa… già, la
bilancia! Lì aveva commesso un errore di valutazione; non aveva calcolato
quanto fosse precisa quella bilancia e quanto impegnativo doverla tenere
in equilibrio in continuazione. Ma finché le variazioni dei costumi e
delle abitudini erano state lente, millennio dopo millennio, le piccole
correzioni avevano richiesto naturalmente la massima accuratezza e
attenzione, ma le avevano sempre permesso di trovare il tempo per
rilassarsi tra un ritocco e l’altro dei piatti; invece, da quando le
variazioni avevano cominciato a prendere il ritmo più vorticoso, in
continua accelerazione, dall’inizio del secolo in poi, per intenderci,
non riusciva più a stare dietro al suo compito con serenità.
Certo,
il principio era sempre quello: “Unicuique suum tribuere”,
attribuire a ciascuno il suo, ma quale era il “suo” da attribuire se
il criterio di “suo” variava in continuazione?
La
mano che teneva la bilancia ormai, per la continua tensione, non stava
quasi più ferma. L’occhio sempre vigile e attento, cominciava
lacrimare per il troppo fissare. Il braccio che teneva la spada si
stava irrigidendo per lo sforzo di tenere su la lama che tendeva
continuamente a scendere. Insomma, a farla breve, stava rischiando un
quanto mai “ingiusto” esaurimento nervoso!
Già
altre due volte, sempre nel corso dell’ultimo secolo, aveva richiesto
alle Autorità Superiori di essere dispensata da quel suo lavoro divenuto
troppo faticoso, almeno per un piccolo periodo di tempo, ma tutte e due le
volte le era stato risposto laconicamente che, avendo accettato la parte
all’inizio della Rappresentazione, doveva portarla avanti fino in fondo.
Certo non poteva prendersi la responsabilità di far fallire tutto lo
Spettacolo solo per la sua, diciamo così, “salute delicata”. Dunque
stringeva i denti e tirava avanti. Fino a quando avrebbe resistito? Non lo
sapeva neppure lei!
Quella
mattina di dicembre faceva freddo, il tempo era piovigginoso ed umido ed
ella era stanchissima, aveva assoluto bisogno di riposo: mandò alle
Autorità Supreme la terza richiesta di temporanea sostituzione.
A
metà mattinata, una mattinata uggiosa che pareva non finisse mai, a
palazzo di Giustizia si presentò una Colomba tutta bianca, bellissima,
che chiese di parlare direttamente con la Dea.
Data
la stranezza della richiesta, anche la procedura divenne insolita, furono
aperte immediatamente le porte dell’Aula Magna e la Colomba volò fino
al trono della Giustizia e si appollaiò sulla sua spalliera, in cima, a
destra.
La
Dea stette un attimo perplessa: già in precedenza un Altissimo
Personaggio era apparso in Forma di Colomba e con il Suo intervento aveva
mutato il corso della Storia, tuttavia essa, senza scomporsi in apparenza,
anche se in cuor suo si era già quasi pentita di aver inoltrato la
richiesta di licenza, domandò alla Colomba in che modo potesse
“renderle Giustizia”.
Pensava:
“Potrebbe anche essere una banale questione di una colomba a cui un
falco qualsiasi ha mangiato il compagno. In tal caso spiegherò
pazientemente, come al solito, a questi ingenui animali come funziona il
”giuoco”: ogni essere vivente mangia qualcosa ed è mangiato da
qualche altra cosa, fino all’essere più alto nella scala della
creazione, l’uomo, che mangia di tutto ed è mangiato alla fine dai
vermi, chiudendo così il ciclo in Giustizia…”.
Ma
no, quella non era una colomba a cui bisognava spiegare la giustizia
elementare, Quella era una Colomba Speciale, come aveva intuito
all’inizio. Non chiedeva giustizia per sé, purtroppo, le chiedeva conto
del suo operato:
“Hai
fatto domanda di un periodo di riposo, come mai?”
“Sono
stanchissima, non ce la faccio proprio più: ho cercato di fare del mio
meglio, ma non posso proprio più continuare!”, si giustificò la
Giustizia.
“Ci
deve essere qualcosa che non va nel tuo modo di fare, perché quando
abbiamo allestito lo Spettacolo, all’inizio, tutto era perfetto. Se non
ti riesce di recitare bene la tua parte, vuol dire che hai cambiato
qualcosa nel corso dei millenni. Fammi vedere come fai a bilanciare i due
piatti”.
“Quando
uno va giù, azionando l’asta centrale, porto il peso sull’altro”.
“Ecco
l’errore! Così non finisci mai! Non devi passare il peso da un piatto
all’altro, devi ammortizzare il peso in eccesso nel braccio. Questa è
la Legge del Perdono. La Giustizia senza la Grazia provoca reazioni
all’infinito, con la Grazia invece dà Equilibrio. Devi diventare la Dea
dalla Grazia e della Giustizia, se vuoi essere rilassata, serena e in
Pace. Io te lo posso dire, perché sono la Colomba della Pace”, così
detto, volò via.
La
Giustizia comprese; modificò il suo modo di azionare il braccio e divenne
la Dea della Grazia e della Giustizia. E cominciò a sorridere.
Fu
così che cessarono tutte le guerre ed ebbe inizio la cosiddetta Età
dell’Oro.
9.
L'EREMITA
Una
grande distesa di mare… mare dappertutto; un’infinita distesa di acqua
plumbea, autunnale… un isolotto con una capanna di paglia e nella
capanna un eremita.
I
gabbiani lanciavano i loro gridolini striduli pescando rapidissimi ora
sulla riva dell’isolotto, ora più al largo, soli o a gruppi.
L’Eremita
ogni tanto lasciava le sue meditazioni e usciva sulla porta a guardare. I
gabbiani si erano ormai abituati a lui e non fuggivano più.
Anzi,
si aspettavano quasi di essere invitati ad un colloquio o, più
probabilmente, ad un banchetto meno faticoso di quello che si procuravano
da se stessi ogni giorno.
L’Eremita
li guardava con affetto, quasi con tenerezza, avrebbe voluto offrire a
briciole quel poco pane ed olio che gli restava delle sue provviste, le
ultime di quelle che gli avevano lasciato i suoi compagni 40 giorni prima,
quando la loro barca si era staccata per l’ultima volta dall’isolotto.
Ma più guardava quegli uccelli e più si rendeva conto di quanto fosse
pazzo quel suo desiderio di nutrirli.
Tra
lui e i gabbiani si svolgeva ora un sottile gioco di comunicazione,
sembrava che essi lo chiamassero o che rispondessero a una “sua”
chiamata. Erano piccoli e indifesi, di forma elegantissima nell’aria,
piccoli e tozzi a terra; e quel loro stridio pareva a tratti un lamento,
una supplica, una richiesta di aiuto, o solo forse un grido di guerra.
Finalmente
il gabbiano più coraggioso guardò l’Eremita negli occhi e gli chiese:
“Allora vuoi deciderti a darci da mangiare? Siamo affamati!”.
L’Eremita,
che ormai parlava anche il loro linguaggio, gli rispose: “Ho tanto
sperato di comunicare con voi in questi quaranta giorni, e di darvi il mio
cibo, ma ormai ne è rimasto talmente poco… e voi siete tanti. E poi,
poco fa ho sentito la voce di mia Madre che mi diceva di stare attento a
voi. Siete piccoli e indifesi, ma siete anche crudeli ed avidi. Io credo
che, se vi permettessi di entrare nella mia capanna, qualora non avessi più
cibo da darvi, spolpereste anche le mie ossa”.
“Certo”,
rispose il gabbiano con una luce di desiderio negli occhi. “E se tu
fossi diventato il Vero Eremita, ce lo lasceresti fare volentieri, lieto
di essere cibo per noi. Tutti i Maestri si sono lasciati spolpare dai loro
discepoli, è il nostro grande amore di Te che deve consumarti. Come
potresti arrivare dove Tu vuoi se non ti lasciassi assorbire da noi?”.
Intanto
il sole, uscito da dietro la coltre di nubi, calava lentamente
all’orizzonte, sul mare divenuto d’argento.
L’Eremita
lottava ancora con se stesso, non riusciva a decidersi a far entrare i
gabbiani, a tratti udiva la voce di suo Padre che gli diceva di “aprire
la porta”, ma ancora risuonava l’eco della voce di sua Madre che gli
diceva di tenerla chiusa.
Il
sole calava sempre di più all’orizzonte, e si era immerso a metà nel
mare, e il mare nel frattempo aveva mutato i suoi riflessi d’argento in
oro.
L’Eremita
spalancò la porta ed i gabbiani si precipitarono dentro, mangiarono tutto
quello che c’era, poi quando non ci fu più nulla presero a divorare il
corpo dell’Eremita che si era sdraiato sull’altare.
Il
sole era tramontato e all’orizzonte si profilava la barca che avrebbe
portato il nuovo eremita.
Nella
capanna finalmente non c’era più nessuno, nemmeno i gabbiani, solo il
Grande Silenzio.
10.
LA RUOTA DELLA FORTUNA
Era
una mattina tiepida di settembre inoltrato ed il Navigatore Solitario, che
aveva visitato tutti i porti della costa e sostenuto l’impeto di
numerose bufere, si trovava in mezzo al mare tempestoso, senza vedere
all’orizzonte alcuna possibilità di asilo per il suo modesto battello;
egli era ormai dal giorno prima quasi senza più acqua e cominciava ad
impensierirsi.
Certamente
navigare gli era sempre piaciuto, anche se spesso si domandava perché mai
non si fosse fermato definitivamente in qualche porto, come aveva visto
fare a tanti suoi compagni. In fondo non era più un ragazzo ed un po’
di tranquillità gli sarebbe stata anche bene; il fatto era che, dopo
essere stato i 3-4 mesi d’inverno a terra, insieme alla gente normale,
gli tornava quella smania folle di solitudine e di spazi, di rischi e di
sfide… riprendeva quindi la sua navicella e andava.
Questa
navicella era una barchetta a due colori, bianca e nera, molto
maneggevole, che si era costruito da solo quando aveva capito che gli
piaceva navigare in acque alte senza che qualcuno gli dicesse “come e
dove” andare. Aveva un piccolo motore che si era costruito sempre da
solo ed un bel timone con una ruota a due cerchi e otto raggi, proprio
come i timoni delle grandi navi, intagliato nel legno con arte, di cui era
orgogliosissimo.
Mentre
cercava di mantenere la rotta che aveva calcolato sulle sue carte per
poter imboccare il canale, risalirlo e raggiungere il porticciolo più
vicino, sentiva che la forza dell’acqua lo trascinava lontano e, pur
mettendo in atto tutta la potenza del suo piccolo motore, non riusciva a
portarsi in posizione tale da “vedere terra”.
Se
almeno avesse piovuto un po’ avrebbe almeno risolto il problema della
sete, invece il cielo, pur essendo coperto, non pareva disposto a
“piangere” per lui!
Solo
al tramonto il mare sembrò calmarsi, ma ormai il motore, spinto al
massimo per tanto tempo, aveva bisogno di raffreddarsi e lo dovette
spegnere.
Decise
allora di gettare l’ancora: la prima volta non fece presa e nemmeno la
seconda; l’ancora arava il fondo che era sabbioso e non dava appiglio;
finalmente al terzo lancio riuscì. Aveva contato i metri di cima calati:
erano 33.
Allora
si rilassò. Bevve dalla borraccia le ultime gocce di acqua e gli parve di
avere più sete di prima. Si stese sul fondo della barca ripromettendosi
di tornare a terra non appena spuntata l’alba e chiuse gli occhi.
Dopo
qualche tempo, forse pochi minuti, avendo udito un fruscio insolito,
aperse gli occhi e guardò il timone: lo vide stranamente ingrandito
(probabilmente a causa della sete e della luce ormai crepuscolare) e con
sopra due strani animali; quello a sinistra aveva la testa di capra, il
corpo di rana ed un forcone nella mano destra, era più un diavolo che un
pesce, con la testa in giù, sembrava tirare la ruota del timone in basso
e trattenerla. A destra della ruota c’era un altro strano essere col
muso di cane ed il corpo quasi umano; nella mano destra teneva il caduceo
ermetico, anch’esso sembrava un demone, ma favorevole e positivo quanto
l’altro pareva contrario e negativo; questo infatti spingeva in su la
ruota del timone e aveva la testa in alto. Che cosa avrebbero fatto i due
bestioni, sarebbero scesi dal timone?
Il
forcone del demone di sinistra era molto poco rassicurante! Il caduceo
poi, sembrava mandar scintille e sicuramente era ancora più pericoloso.
Come
se non bastasse, dal fondo della barca, quella che era sempre stata un
pezzo di corda legata alla gaffa, si innalzava lungo l’asse del timone,
formando due serpenti che si incrociavano tra loro; uno bianco, uno nero.
Alzò
gli occhi e, al di sopra del timone, vide una sfinge impenetrabile,
ieratica, con la spada sguainata in mano.
“Che
vuol dire tutto ciò?”, ebbe il coraggio di chiedere il Navigatore
Solitario, “Che cosa volete da me?”.
“Perché
ti meravigli di ciò che vedi?”, gli domandò in risposta la Sfinge,
“questo è l’aspetto più vero della tua navicella, quello che non
vedi mai! Pensi davvero di guidare tu il Timone? In realtà, quando non ti
riesce di governare la barca, come oggi, è perché il demone di sinistra
ti ostacola, e allora dici che ”la fortuna ti è contro”; quando
invece ti pare che tutto vada bene, allora è il demone di destra che ti
favorisce, e allora tu dici che ”la fortuna è con te”. Sono invece
io, in verità, che stabilisco l’andar su o giù della ruota a seconda
della forza dei due serpenti che salgono dal fondo”.
“E
allora io che faccio?”, chiese il Navigatore, “sono sbattuto qua e là
dalla sorte e da te come una foglia al vento, senza meta e senza
scopo?”.
“No,
non esattamente. Prima di tutto la navicella l’hai costruita tu.
Navigare l’hai deciso tu e poi le forze dei due serpenti, quello bianco
e quello nero, sono le tue forze ed infine solo tua è la possibilità di
vedere la fortuna nella disgrazia (e così facilitarne la salita) o la
disgrazia nella fortuna (e così non ostacolarne la discesa). Io sono il
Guardiano della Soglia, sorveglio tutto e soprattutto sono qui in attesa
di questo momento, il momento in cui ti ”svegli” addormentandoti, come
oggi. Allora io me ne vado, volo via e tu, se vuoi, puoi prendere in mano
la piccola manovella che si trova sul mozzo, al centro della ruota.
Ti
avverto solo che così, quando navighi, la possibilità di errore è
decuplicata, perché i due demoni rimangono e non ci sono più io ad
equilibrarli automaticamente”.
Il
Navigatore sentì una grossa goccia d’acqua cadergli sulla fronte in
mezzo agli occhi. Pioveva, finalmente! Si guardò intorno. Albeggiava. La
sua barchetta aveva di nuovo l’aspetto normale, di tutti i giorni. Solo,
di diverso, al centro del timone, una piccola manovella che prima non
c’era.
Si
scosse dal torpore di quel sonno così strano. Raccolse l’ancora con i
33 metri di corda, accese il motore e si diresse verso terra per i
rifornimenti.
Ancora
40 giorni di mare, poi avrebbe passato l’inverno nel solito porticciolo,
come tutti gli altri anni. Ora guidava con infinita precauzione.
Non
era mai stato così attento al Timone.
11.
LA FORZA
Leo,
re fiero ed orgoglioso della foresta, governava autorevolmente il suo
reame già da sette anni. Era molto soddisfatto della sua posizione di
sovrano di tutti gli animali: gli bastava emettere un ruggito ben modulato
con la sua voce cavernosa perché tutti, eccetto la gazzella o il
cerbiatto che aveva prescelto per il suo pasto, scomparissero dalla sua
vista terrorizzati, in un attimo.
Tuttavia,
da un po’ di tempo a quella parte, a cercar ben bene nel fondo del suo
animo fiero e orgoglioso, sentiva uno strano senso di inquietudine: sì,
una stranissima sensazione, annidata nell’angolino più riposto del suo
intimo essere, una cosa vaga, a cui non riusciva a dare una definizione
precisa.
Quella
mattinata di aprile Leo aveva fatto una discreta colazione, avrebbe potuto
sdraiarsi all’ombra dalla solita sequoia a schiacciare il solito
pisolino ristoratore se non ci fosse stata quella strana irrequietezza.
Esaminandola attentamente aveva scoperto, almeno così gli parve, che
dipendeva da un profumo particolarmente appetitoso che sentiva lì in giro
e di cui non conosceva la provenienza; così, invece di riposare, aveva
deciso di passeggiare… ma era tanto per far qualcosa. Camminava senza
impegno seguendo quella traccia di profumo, la criniera fulva al sole, gli
zamponi elastici mollemente alternatisi sull’erba folta, la coda col
pennacchio all’insù, in atteggiamento di baldanzosa avventura. Mentre
pensava che forse avrebbe potuto assaggiare una pietanzina nuova di carne
tenerella, quasi senza avvedersene si era allontanato dal folto della
boscaglia e, in breve, ne aveva raggiunto i limiti.
Fu
così che si ritrovò in una larga vallata con un lago al centro.
Lì
sulla riva, mollemente adagiata al robusto tronco di un albero, gli
apparve una visione incantevole: un essere sconosciuto, delizioso. Forse
era una Cerbiatta.
Ma
doveva essere una Cerbiatta straordinaria! Stava eretta sulle due sole
gambe di dietro e al posto del pelo aveva una strana copertura, come i
petali dei fiori, blu e viola; una criniera quasi come la sua, ma tutta
d’oro e, sopra questa, una guarnizione lucente a forma di ¥,
in continuo movimento, come l’acqua del ruscello quando scorre in
discesa.
Ma
non aveva mai cacciato cerbiatte di quel genere… che altro poteva
essere? Ma ecco… sì! Poteva essere uno di quegli esseri sconosciuti di
cui gli anziani, quando era piccolo e viveva nel branco, gli avevano
narrato le storie… li chiamavano gli Umani, gli esseri più intelligenti
della terra, quasi con il potere degli dèi, ma dai quali gli avevano
raccomandato di star lontano perché avevano la brutta abitudine di
distruggere tutto al loro passaggio e quando, raramente, ricostruivano,
creavano ambienti assolutamente inadatti alla vita degli animali della
foresta. Circa quegli Umani si ricordava pure che avanzavano in gruppo,
spesso sul dorso di elefanti e attaccavano con bastoni appuntiti che
sputavano fuoco.
Da
lontano quella creatura non sembrava aver bastoni e neppure armi, pareva
proprio una cerbiatta appetibile e indifesa. In ogni modo era più
prudente avvicinarsi ancora un po’ e studiarla meglio.
L’essere
non si era mosso, pareva aspettarlo e Leo ne sentì lo sguardo fisso,
vellutato e magnetico.
“Perché
non fugge come tutte le altre bestiole della foresta?”. Questo fatto lo
seccava terribilmente. Non aveva neanche fame e avrebbe dovuto attaccarla
solo per non fare brutta figura con se stesso. Lui, il Forte per
eccellenza, il Leone, non incuteva dunque nessuna paura alla Cerbiatta?
Mentre
si avvicinava, pensava: “Forse si tufferà nel lago all’ultimo momento
e mi sfuggirà, perché certo non ho intenzione di bagnarmi il pelo per
prenderla… poi, però, io aspetterò: dovrà pur uscire, e allora… ma
no, non si tuffa, forse non sa nuotare. Ancora 40 passi e sarò sopra di
lei… ancora 13 e sarà mia… 4 passi: adesso spicco il balzo
finale…”
Ma
che gli succedeva? Proprio mentre stava per lanciarsi… ecco non
avvertiva più alcuna aggressività verso la Cerbiatta, anzi sentiva le
zampe davanti piegarsi e la coda agitarsi festosamente… che vergogna, si
stava rammollendo tutto! Arrivò quasi strisciando ai piedi della visione:
era proprio una fanciulla bellissima, un sogno. Cominciò a lambirle la
veste, sollecitando con la testona riccioluta le carezze delle sue mani.
Altro
che feroce Leone, era ridotto a un docile cagnolone!
“Ti
aspettavo da tanto tempo”, gli disse la fanciulla dolcemente.
Allora
il cuore gli balzò in petto, perché il tono amorevole della voce di Lei
aveva spezzato l’ultima resistenza; ora egli era completamente
soggiogato dal potere sottile, irresistibile, che emanava quella Presenza.
Si
era innamorato della Cerbiatta improvvisamente, inaspettatamente,
miracolosamente ed era felice come non lo era mai stato prima!
La
fanciulla gli accarezzava spesso la testa, lo coccolava dolcemente,
dicendogli le parole più dolci, quelle che non aveva mai sentito nella
sua vita, gli tirava la coda per farlo voltare all’improvviso, oppure
gli tirava i sassi lontano perché glieli riportasse. Lo nutriva con cibo
che aveva sempre pronto nelle sue tasche e lui, felice e obbediente, si
abbandonava alla nuova vita di docile sottomissione.
Poi
così, sempre per gioco, una volta Lei gli prese il muso tra le mani, con
la mano destra gli afferrò la mascella superiore, con la sinistra la
mandibola e, tenendogli le fauci spalancate, assorbì il fuoco
dell’energia che lo aveva sempre animato, che lo aveva reso libero,
indipendente e sovrano degli animali della foresta.
E
poi – mi domanderete – poi, che avvenne?
Ma
è semplice immaginarlo!
Quando
il Leone viene assorbito dalla sua controparte sottile, muore come Leone e
rinasce come Drago… ma questo lo vedremo un’altra volta!
12.
L'APPESO
Sua
madre gli aveva sempre raccomandato di non frequentare cattive compagnie.
“Finirai
male!”, lo avvertiva quando rincasava tardi con la testa piena di
discorsi assurdi, il colletto della camicia sbottonato, la cravatta di
traverso, i capelli in disordine e la giacchetta tutta sformata dai troppi
libri che si ficcava nelle tasche. Ma non le aveva mai dato retta perché
il suo concetto di “cattivi compagni” differiva molto da quello della
madre.
Il
padre non se lo ricordava molto, era morto quando lui era ancora piccolo,
ma doveva essere stato un idealista, proprio come lui, senza mai un soldo
in tasca e con tanti progetti in testa; sempre pronto a parlare ed agire
per la Fratellanza, la Libertà e l’Uguaglianza; ribelle e
indipendente… un vero rivoluzionario, insomma!
Quella
mattina di dicembre inoltrato egli aveva avuto il messaggio da uno dei
Fratelli per la Riunione Segreta.
Aveva
bruciato il biglietto, come al solito. Aveva svolto il suo lavoro, come al
solito; poi all’ora stabilita, invece di tornare a casa, si era recato
al luogo dell’appuntamento.
Ma,
purtroppo, uno di loro aveva tradito. (Uno su tredici).
A
metà riunione c’era stata l’irruzione delle autorità costituite, e
poiché la parola nell’Assemblea in quel momento toccava a lui, era
stato incolpato di essere il capo. In verità nella loro Associazione un
Vero Capo non c’era mai stato o, almeno, lui non l’aveva mai visto…
ma ecco, forse ora lui lo era diventato perché lo avevano accusato di
esserlo! Proprio così, improvvisamente era diventato il Capo dei
Rivoluzionari!
Preso,
processato in fretta per alto tradimento, era stato condannato a morte.
Naturalmente non aveva potuto far nulla per opporsi e, d’altronde, nella
sua condizione, che cosa avrebbe potuto fare? Che cosa avrebbe potuto
dire? Quando era entrato nell’Associazione, gli avevano detto: “Quando
vi consegneranno nelle loro mani non preoccupatevi di come e di che cosa
dovrete dire, perché vi sarà suggerito in quel momento ciò che dovrete
dire…” (),
frase bellissima, che aveva fatto sua, che gli aveva dato molta sicurezza
al momento dell’arresto… ma non c’era stato niente da dire perché
non gli avevano chiesto niente. Non era stato interpellato affatto.
Dopo
la condanna l’avevano tenuto per tre giorni e mezzo in prigione, poi di
nuovo preso, portato nel bosco, legato mani e piedi ed Appeso ad un albero
con la testa all’ingiù. Sarebbe stata una morte lenta se non si fossero
decisi a “trafiggergli il costato”.
Veramente
non era Crocifisso nel senso stretto della parola, ma era lui stesso la
Croce.
Malgrado
la posizione per così dire “insolita”, era perfettamente lucido.
“Sapeva” di dover fare qualche cosa di importante, ma ancora non
sapeva “che cosa” dovesse fare.
Il
bosco, tutto coperto di neve, gli appariva da un’angolazione
completamente nuova: la terra era cielo ed il cielo terra. Avvertiva la
solidità del primo e l’evanescenza della seconda. La sua testa sfiorava
il suolo, i suoi capelli si erano come allungati e sembravano radici.
La
luce dei suoi chakra più alti illuminava il terreno, ne sentiva crescere
la potenza a poco a poco e, più cresceva, più penetrava nella profondità
del sottosuolo; a loro volta i chakra più bassi irradiavano nel cielo il
loro splendore, anch’esso in continua crescita. Questo nuovo modo di
“stare in piedi” gli procurava uno sconvolgimento di tutte le correnti
interne e si sentiva bruciare tutto. Ma, ad ascoltarsi bene, ecco, il
centro del cuore era sempre lì, come prima vorticosamente immobile… e
fu proprio nel prendere coscienza di questa sua “non alterazione” che
gli fu possibile “udire” le Due Voci Unite: “Siamo il Cielo e la
Terra; finalmente per mezzo tuo possiamo unirci in matrimonio!
“Avevamo
assolutamente bisogno di te. La nostra unione deve avvenire almeno una
volta ogni 33 anni e non poteva più essere procrastinata. Per mezzo tuo
il Cielo scende, la Terra sale e si rinnova il miracolo della Redenzione!
“Ora
noi dobbiamo consumarti tutto, ma, quando avremo finito, tu sarai
”Immortale”.
La
mattina del giorno dopo era il 25 dicembre e i figli di coloro che
l’avevano condannato andarono a giocare nel bosco.
In
mezzo alla neve trovarono un albero grandissimo, che prima non c’era.
Intorno ad esso tutto era fiorito; era carico di frutti d’oro e
d’argento che cadevano a profusione, in continuazione.
Dicono
gli “Anziani” che sia nata così una delle “Leggende dell’Albero
di Natale”.
13.
LA MORTE
Quando
si pensa alla morte un mucchi di domande si affollano nella mente, poi
ecco, una di loro si fa largo (magari a spinte, chissà!), e si presenta:
“Quando
è nata la morte?”.
E
la risposta si fa udire subito, risonante, come un’eco proveniente da
tempi immemorabili: “Quando? Ma quando quella coppia di ingenui
presuntuosi, con tutta quella buona frutta che c’era nel Giardino del
Signore, decise di mangiare la famosa mela!”.
Si
racconta che le uova fossero proprio nel torsolo di quella “particolare
mela”.
Quelle
uova immediatamente dopo il fatidico “morso” si schiusero, liberando
tante piccole gialle farfalline “mortali” che sciamarono prima per il
Giardino e poi per tutta la terra.
Da
allora ogni cosa viva, nasce e cresce insieme alla sua piccola farfallina
di morte, ma la farfalla, la morte, cresce assai più lentamente perché
si nutre solo dell’essenza vitale rubata alla cosa viva; quando alla
fine ne raggiunge la stessa dimensione, l’assorbe tutta e vola via e va
a deporre le sue uova su qualche altra cosa che sta per nascere.
L’aspetto
di questa farfalla è quello tipico: uno scheletro giallo con la falce e
il ghigno beffardo, il tutto ricoperto dalle grandi membranose ali gialle.
Non la può vedere nessuno, se non chi sta per morire, tuttavia, se
qualcuno lo desidera, dicono che possa anche riuscire a “sentirla” e a
“parlarle”.
In
un giorno di mezza estate, un giovane principe che aveva sentito narrare
questa storia, passeggiava per la campagna pensando a quel misterioso
Personaggio: non aveva paura; ma, più ci pensava e più si convinceva che
VOLEVA NON AVER PAURA DELLA MORTE. “Sentirla”, forse l’aveva sempre
un po’ sentita, perché “quel pensiero” l’aveva sempre
affascinato, fin da bambino, ma “parlarle”… finora non gli era mai
riuscito! Certo, se le avesse potuto parlare, sarebbe stato tutto diverso!
In
passato, spesso spinto dal desiderio di avventura (o da qualche demone
interno) aveva scalato montagne impervie, navigato per mari burrascosi,
volato su aquiloni temerari… e più volte gli era parso di sentire
proprio il battito silenzioso delle grandi ali sfiorargli i capelli, ma
non gli era mai stata concessa l’occasione di un colloquio. Forse,
pensava, avrebbe dovuto passare attraverso il fuoco per poterle parlare!
Quel
giorno, finalmente, giungendo al villaggio, venne a sapere che, poco
lontano, nel bosco, era scoppiato un incendio; vi si recò immediatamente
e assai grande divenne la sua apprensione quando vide che il fuoco aveva
circondato proprio il palazzo della fanciulla che suo Padre gli aveva
destinato come sposa. Incurante del calore insopportabile e del fumo
soffocante salvò lui stesso la sua bella in pericolo, rischiando così la
sua vita. Ma, anche questa volta, riuscì solo a “sentire” la presenza
di quella terribile Signora e niente altro.
Quella
sera, stanchissimo come non lo era mai stato, cadde in un sonno strano,
una specie di torpore magico e sognò.
Vide
se stesso lottare con una enorme farfalla gialla tutta chiusa nelle sue
ali; egli tentava di aprirgliele a forza, a fatica ci riusciva, scoprendo
così uno scheletro tutto giallo con una falce in mano, il cui teschio
aveva un orribile ghigno beffardo: era la Morte, ovviamente.
“Perché
ridi?”, le chiese.
“Perché
mi sto prendendo la tua vita, ah, ah!”, rispose lei ridendo.
“Ma
io non sono affatto disposto a cedertela, anzi, sono io che voglio la
tua!”.
Allora
la Morte sussultò e si richiuse nelle grandi ali gialle.
Questa
scena si ripeté sette volte, ma alla settima, prima che la Morte
richiudesse le sue ali gialle per la settima volta, egli avanzò
coraggiosamente verso di lei e, mettendo il pollice e il medio nelle due
orbite vuote del teschio e spingendo con l’indice nel centro dell’osso
frontale, proprio alla radice del naso, strappò alla Morte la sua
“apparenza scheletrica”, come se fosse una maschera e, dietro, fece
apparire un Volto bellissimo, di uomo e di donna insieme e un Corpo di
Luce; al posto della falce, nella mano destra dell’Essere Meraviglioso
era una Mela tutta d’oro. Poi egli udì una Voce che diceva:
“Smascherando la tua Morte puoi vedere il Vero Volto della Coppia
Originale, la Coppia che offre la Mela della Resurrezione. Ora devi solo
prenderla e rimetterla in cima all’Albero. È l’unico modo per far
morire la Morte e riportare tutto all’Ordine per sempre. Provaci!”.
E
si svegliò.
Da
quel giorno il principe, che nel frattempo era diventato Re, non andò più
in cerca di avventure; sua unica occupazione era la cura del Regno,
coltivava gli Alberi del suo territorio e non desiderava più
“sentire” la Morte o “parlare” con Lei, ma non ne aveva più
paura.
14.
LA TEMPERANZA
Era
la quarta delle sorelle, bionda, alata, gran lavoratrice. Che toccasse
sempre a lei mettere freno agli eccessi delle sorelle era certo, e per
questo veniva per ultima, ma non se ne crucciava; anzi, era piuttosto
soddisfatta del suo compito e le cose sarebbero andate avanti fino alla
fine senza problemi se non ci fosse stato quel noioso, fastidioso
racconta-storie per adulti-bambini che la voleva a tutti i costi
protagonista di una storiella.
Fu
solo per questo motivo che la Temperanza smise di travasare liquido vitale
da un’anfora all’altra, scese dalla carta e parlò:
“Eccomi,
che cosa vuoi da me? Che cosa vuoi sapere?”.
Per
la verità era imbarazzante rispondere a una domanda così diretta,
tuttavia il noioso, fastidioso racconta-storie subito subito pose le sue
domande, senza farselo ripetere due volte:
“E’
vero che travasi continuamente il liquido dall’anfora d’argento a
quella d’oro e poi da quella d’oro a quella d’argento? Quando è
cominciato questo lavoro e perché? A che cosa serve? Quando finirà?”.
“Piano,
piano, una domanda per volta!”, protestò la Temperanza posando le due
anfore in terra. Poi, accomodandosi nella poltrona di velluto viola si
aggiustò accuratamente le pieghe del grembiule da fatica, azzurro cupo,
con le grandi mani quadrate, mentre le robuste ali, ben chiuse, si
rilassavano dietro le spalle e il volto sereno e materno si apriva in un
largo sorriso accondiscendente.
“Dunque,
cominciamo: ma non ti posso rispondere esaurientemente se prima non ti
spiego che cosa c’è nelle anfore. Tu sai che io ho tre sorelle tutte e
tre assai importanti per l’esecuzione dell’opera creativa, ma la
qualità di ciascuna di loro, per esuberanza, porterebbe a continui
eccessi se non ci fossi io a ”temperarla”.
“Prudenza
è sempre troppo prudente e rimarrebbe sempre troppo indietro, Fortezza è
sempre troppo forte e andrebbe sempre avanti, infine Giustizia le terrebbe
talmente in equilibrio da farle fermare completamente, io ”stempero” i
loro ardori e col continuo movimento provoco l’universale mutamento,
senza mai esagerare né a destra, né a sinistra, né al centro.
“Attività
costante, io rappresento il divenire delle mie sorelle e della trinità
Amore (forza centrifuga), Saggezza (giustizia) e Potere (prudenza
centripeta), la cui triplice fiamma continuamente arde, io sono la base su
cui essa poggia. Il liquido vitale che si trova nelle anfore è la
mescolanza di queste tre qualità e le anfore sono la ”forma” che ogni
volta la Vita prende al preponderare dell’una o dell’altra qualità;
l’anfora d’oro quando prevale l’Amore, l’anfora d’argento quando
prevale il Potere e il cambiamento da un’anfora all’altra quando
prevale la Sapienza. Ora da te stesso puoi capire perché non posso mai
fermarmi, a che cosa serve il mio lavoro, quando è cominciato e quando
finirà”.
Aveva
appena finito di parlare che si udì un coro di voci provenire
dall’infinito:
“…
Temperanza, presto, torna la tuo lavoro…”.
“…
Temperanza, abbiamo bisogno di te…”.
“…
Temperanza, dove ti sei cacciata… ricordati del tuo dovere…!!”.
Ma
Temperanza stava talmente bene seduta nella comoda poltrona di velluto
viola che pensò bene di… rimanervi ancora un po’ ignorando le voci
delle sorelle.
“Ecco”,
diceva piano, “dopotutto una volta deve finire… e perché non ora? Se
dipende da me…”.
I
due centri sopra la testa, che le si riflettevano negli occhi,
cominciarono a vibrare, poi a ruotare… sempre più in fretta, uno in un
verso, uno nell’altro, sempre più in fretta, poi di due se ne fece uno
solo, al centro e in quell’immensa, abissale rotazione si videro
vorticare le tre sorelle.
Temperanza
sorrideva e piano piano scoloriva…
Ma
la Voce, quella a cui tutto deve obbedienza, si fece udire:
“NO!!”.
Allora
Temperanza, divenuta tutta seria, facendo cenno di si col capo, si alzò
dalla poltrona, riprese le anfore e rientrò nella carta.
15. IL DIAVOLO
Contro.
Contrario. Contrasto. Scontro.
Formare
una frase di senso compiuto con le parole date, poi tradurla in Ebraico e
in Sanscrito.
Il
diavolino si agitò nervosamente nel banco di scuola e sferrò piano con
lo zoccolo sinistro un calcetto alla sua vicina di banco, che era poi
anche la sua diavolina girl-friend per quell’anno scolastico.
Per
tutta risposta ottenne una strizzatine d’occhi (che erano molto belli
perché avevano le ciglia molto lunghe) e il delicato strappo di un pelo
della coda (la sua, naturalmente).
“Ahi,
vacci piano! Volevo solo sapere come te la sei cavata col compito di oggi.
Senti il mio: sono contrario a tutto, perciò contrasto quello che posso e
vado contro la Legge per procurarmi il piacere dello scontro. Che te ne
pare?
Non
capisco però perché debba tradurlo in Ebraico ed in Sanscrito. Una volta
forse questo aveva un senso in quanto noi diavoli dovevamo dissacrare le
lingue sacre, ma da quando gli uomini, per merito nostro, hanno dissacrato
tutto a che serve farci perdere tempo a studiare queste lingue
barbose?”.
“Umh,
niente male la frase. Se non ti va di fare le traduzioni, non le fare!”.
Gli suggerì la diavolina.
“Brava,
così mi prendo una bella punzecchiata di forcone sul di dietro… bel
consiglio il tuo!”.
“Silenzio
voi laggiù!”, intervenne il diavolo-maestro, “e tu”, disse,
indicando proprio la nostra diavolina, “leggi subito la tua frase a voce
alta”.
La
diavolina si alzò, spavalda e civettuola con la codina arricciata
all’insù, e lesse:
“Il
contrario non è contrasto così come contro non vuol dire scontro”.
E
subito tradusse la frase correttamente in Ebraico e Sanscrito antico.
“Bravissima!
Diavolini e diavoline, prendete esempio! Questa sì che è una bella frase
ben tradotta! E inoltre indica anche il modo migliore per svolgere il
nostro lavoro sulla terra. Bisogna essere astuti e diplomatici ma logici.
Noi rappresentiamo il Contrario, la Ribellione per eccellenza e il nostro
lavoro, per essere efficace, deve essere sottile e penetrante. Sappiate
che noi svolgiamo una parte assai importante nella meccanica della
Manifestazione e presto ne avrete la prova. Stasera faremo un esercizio
pratico e voi due”, disse, indicando la nostra coppia di diavolini,
“verrete con me a mezzanotte nell’aula degli esperimenti. Gli altri
osserveranno da fuori”.
La
campanella suonò, era l’una. Così per quella notte erano terminate le
lezioni. Di lì a poco sarebbe spuntata l’alba e i genitori diavoli non
permettevano ai loro ragazzi di star fuori di giorno, perché era
pericoloso, dicevano.
Diavolino
e diavolina tornarono ognuno alla propria bolgia, abitavano nello stesso
girone dello stesso inferno; erano un po’ preoccupati per
l’esperimento della mezzanotte. Tornarono a casa per mano, parlando
fitto fitto tra di loro.
Quella
sera ebbero lezione di Zoologia, cioè di Vampirologia, di Oratoria
ingannevole e di Tentazion-abilità; infine, proprio per ultimo, ci fu
l’Esperimento. Il tempo nelle prime tre ore non era passato mai. Ogni
tanto i due ragazzi sotto al banco si erano stretti la mano per farsi
coraggio; poi, come Di…diavolo volle, si fece l’ora.
Entrarono
nella sala: prima il diavolo maestro, poi il diavolino, poi la diavolina.
Chiusero accuratamente la porta alle loro spalle. La porta era di vetro e
tutti gli altri allievi rimasero di fuori a guardare.
Il
diavolo maestro legò il diavolino alla destra della cattedra e la
diavolina alla sinistra (forse temeva che fuggissero), poi salì lui
stesso sulla cattedra, tenendo nella mano destra un bastone, nella
sinistra una fiaccola. Col bastone toccava il corno sinistro del
diavolino, con lo zoccolo sinistro la mano destra della diavolina. Aprì
poi al massimo le grandi ali membranose e soffiò dalle nari come un
caprone, gonfiando i seni prosperosi.
Si
produsse un gran boato e i tre diavoli, divenuti una cosa sola, un lungo e
sottile serpente a tre teste, furono proiettati sulla terra. In mezzo a un
gran fumo, accompagnato da una gran puzza di zolfo, gli allievi diavoli
seguivano lo svolgersi dell’esperimento.
Il
programma era semplice: il triplice serpente doveva accostare un uomo,
meglio un ragazzo (sarebbe stato più facile per i due diavolini), poi
introdursi nel suo corpo e succhiargli la volontà Pro-Piano Divino (per
questo a scuola studiavano Vampirologia) quindi tramutarla in volontà
Contro-Piano Divino, infine rendergliela affinché operasse nel mondo al
nero. Ma il Contro doveva apparire molto vantaggioso (per questo
studiavano Oratoria ingannevole e Tentazion-abilità).
Il
diavolo maestro era abilissimo nell’arte sua, non per niente era stato
fatto maestro!
Per
prima cosa si guardò intorno: sotto un albero lì vicino si trovava
seduto proprio quello che sembrava un giovane adatto, un bel giovane
biondo.
“Ecco
la nostra cavia”, disse.
Il
serpente tricefalo si introdusse nella spina dorsale dell’uomo dal
basso.
Il
diavolo maestro si sarebbe accoccolato nel primo chakra e avrebbe mandato
i due allievi, uno per volta, ad occupare (in modo diabolico,
naturalmente) gli altri centri, fino ad arrivare, se fosse stato
possibile, al centro in mezzo alla gola. Se i due giovani avessero fatto
un lavoretto preciso ed accurato avrebbero guadagnato il diploma
scolastico e per lui ci sarebbe stata una cospicua gratifica.
Intanto,
però, era meglio non perdere tempo e dare gli ordini:
“Tu,
diavolina, vai all’attacco, occupa il primo chakra a destra e…”.
Ma
qualcosa non funzionava secondo i programmi. Il giovane biondo non era un
“giovane”, ma un Anziano col volto da giovane.
Uno
che aveva subito molti assalti di “serpente tricefalo”, uno che sapeva
“che cosa fare” in quella occasione. Uno che forse, l’aveva
addirittura chiamato!
Il
giovane-Anziano, appena sentì il serpente occupargli il centro alla base
della colonna, prima che questo avesse il tempo di organizzarsi, cominciò
a farlo girare (tanto era già inanellato) sempre più in fretta, poi lo
obbligò a salire così come era (uno e trino) nel canale centrale della
colonna, su dritto dritto; ad ogni centro, ce ne erano altri tre,
aumentava la velocità di rotazione e lo scioglieva tutto, poi, per
farlo risalire, lo ricoagulava. Al quarto centro, quello in mezzo
agli occhi, lo dissolse definitivamente.
Fu
così che il supplente della scuola dei diavoli divenne maestro di ruolo e
i genitori dei ragazzi quell’anno poterono comperarsi una bolgia più
grande.
Come?
Avevano avuto una forte somma di denaro quale compenso per la perdita dei
rampolli nel malaugurato incidente.
Quella
volta la Diavolassicurazioni aveva pagato assai bene, perché fino ad
allora disgrazie di quel tipo erano capitate molto di rado. Da quella
notte però, prevedendo un notevole aumento della percentuale degli
incidenti, ha più che raddoppiato il premio annuale della polizza e i
genitori sono costretti a pagarlo se vogliono mandare i figli a scuola.
16.
LA TORRE
“…Aaaaah!”,
urlò il principe mentre precipitava dalla Torre.
“Maledetto
ingegnere, è stata tutta colpa tua!”. E fu l’ultima frase che
pronunciò, perché poi toccò terra e lì giacque, esanime. L’ingegnere
da parte sua non avrebbe potuto rispondergli, perché il suo cadavere si
trovava già tutto sfracellato per terra e stava per essere ricoperto
dalle macerie.
La
Torre aveva cominciato a sgretolarsi al piano più alto, al terzo, e stava
ora crollando tutta. Era rimasto in piedi solo il grande portone che,
spalancato, sembrava gridare anch’esso il suo orrore per il disastro.
Ma
come erano andate le cose? Perché quella rovina? Quali erano stati gli
errori commessi?
Per
trovare le cause di tanta disgrazia bisogna risalire ad un anno, dieci
mesi e un giorno prima, quando il giovane principe, avendo ricevuto dal
Re, suo Padre, una vasta e bella estensione di terreno in regalo, aveva
deciso di farci una Torre; proprio così, una torre alta per dominare il
suo territorio.
Voi
mi direte: ma che male c’è a voler costruire una torre? Beh,
nell’idea in sé non c’è nulla di male, ma c’è modo e modo di
farlo. Prima di tutto il principe avrebbe dovuto chiedere il permesso a
suo Padre e poi, qualora glielo avesse concesso, farsi anche consigliare
da Lui sulla scelta di un ingegnere scrupoloso.
Il
nostro principe invece che dal Padre si era fatto consigliare da amici
poco raccomandabili e, alla fine, aveva dato l’incarico ad un ingegnere
di pochi scrupoli e, diciamolo pure, piuttosto disonesto e imbroglione.
Si
dava il caso che il principe fosse ambizioso: con la torre così
progettata, tutta sua, si sentiva già re, perciò la voleva subito e
senza indugi.
L’ingegnere
aveva disegnato il progetto, il principe l’aveva approvato,
l’ingegnere aveva ordinato il materiale e il materiale era stato
consegnato; ma che cosa aveva ordinato questo ingegnere malaccorto per
costruire la torre? Mattoni invece di pietre e bitume invece di calce!
Questo era stato l’errore di base. Poi i lavori erano cominciati:
scavate le fondamenta, un giro di mattoni dopo l’altro, la torre era
venuta su assai celermente: il primo piano, il secondo e il terzo, poi la
terrazza con i merli. Quando le scale furono ricoperte di marmo, i
tramezzi tinteggiati, le porte e le finestre rifinite e l’arredamento
completato, l’ingegnere chiamò il principe per fargli visitare la sua
nuova proprietà. 666 giorni erano passati in tutto da quando il principe
aveva ricevuto in regalo l’appezzamento di terreno e in quel 666°
giorno egli, varcando il portone della sua Torre, aveva pensato: “In
cima alla Torre sarò come mio Padre, sovrano assoluto di tutto ciò che
vedono i miei occhi e di lì potrò governare a mio piacimento i miei
possedimenti, senza dover rendere conto delle mie azioni a nessuno”.
La
disposizione delle sale all’interno della Torre imitava quelle del
Palazzo Reale: nell’atrio, appena entrati, si trovava la sala della
Luna, che il principe aveva destinato agli ozi suoi e dei suoi amici. Lì
avrebbe potuto con molto impegno dedicarsi al dolce far niente, senza
essere disturbato, fino a che ne avesse avuto voglia.
Al
piano di sopra erano tre sale: una a destra, detta di Mercurio, lì
progettava di accumulare tutte le ricchezze in oro e argento che fosse
riuscito a sottrarre alle casse Paterne; una a sinistra, la cosiddetta
sala di Venere, dove avrebbe ricevuto le damigelle di corte disposte a
fargli compagnia quando si sarebbe sentito solo; una al centro, questa era
chiamata la sala del Sole, ne avrebbe fatto il suo studio, vi avrebbe
raccolto i registri che tenevano conto di ciò che il Padre regalava agli
altri principi suoi fratelli, in modo da essere sicuro di possedere sempre
più degli altri.
Poi
al piano di sopra erano ancora due sale: la sala detta di Marte, a destra,
dei duelli, dove con gli amici avrebbe assistito alle gare di sport più o
meno cruente dei suoi campioni preferiti, e la sala dei banchetti a
sinistra, detta sala di Giove: lì secondo i suoi progetti, la tavola
avrebbe dovuto essere talmente ricca da far apparire a suo confronto i
pasti più pantagruelici, semplici spuntini rompidigiuno.
Sopra
ancora era la terrazza.
L’ingegnere
faceva strada: visitarono sala per sala molto minuziosamente e decisero
insieme piccoli ritocchi e perfezionamenti, alcuni per la funzionalità,
altri per l’estetica. Il principe volle alla fine salire sulla terrazza
per esaminare anche i merli della Torre e l’ingegnere pregò Sua Altezza
di precederlo perché aveva notato una crepa nella parete e non voleva che
il principe la vedesse; malauguratamente, si appoggiò con tutto il peso
al muro e un mattone non ben cementato venne via; egli, imprecando, cercò
di tappare il buco, ma i mattoni gli si staccavano in mano uno dopo
l’altro, come le perle di una collana a cui si è rotto il filo.
Intanto
si era levato un gran vento e, benché il sole splendesse in cielo,
lampeggiava e tuonava; all’improvviso una raffica di vento terribile
penetrò nella breccia, afferrò l’ingegnere e lo scaraventò giù.
Il
principe intanto, salendo l’ultima scala, era quasi arrivato alla
terrazza, quando udì quel gran fracasso; allora si rese conto della fine
che aveva fatto il suo ingegnere, ma era troppo tardi perché, mentre
cercava di aggrapparsi disperatamente a qualcosa, il pavimento gli mancò
sotto i piedi ed egli pure precipitò giù.
Così
era successa la disgrazia!
Poi,
la luttuosa notizia giunse a Palazzo Reale. Il Re in persona, in carrozza,
si recò sul posto a vedere che cosa fosse successo a suo figlio.
Il
principe, con le braccia e le gambe spezzate, giaceva ancora a terra, ma
stava riprendendo conoscenza. Aprì gli occhi e vide suo Padre chino su di
lui, ebbe timore e vergogna della sua superbia e mormorò:
“Padre,
perdono!”.
Allora
il Padre lo fece portare nell’infermeria del Palazzo e lì curare
amorosamente. Il principe stette 40 giorni in pericolo di vita, poi guarì.
Dicono
che il Re, suo Padre, al termine della sua convalescenza desse un
banchetto sontuoso in suo onore e facesse ammazzare il vitello più grasso
dicendo:
“Mangiamo
e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in
vita, era perduto ed è stato ritrovato”
17.
LE STELLE
“Per
me ancora un po’ di liquido dell’anfora d’oro!”, disse la Stella a
destra in basso.
“E
per me un po’ dell’anfora d’argento”. Era la voce della Stella
piccolina a sinistra.
“Invece
per me un po’ da tutte e due, ma piano piano, che non si alterino le
dovute reazioni alchemiche!”, disse a sua volta la Stella centrale, la
penultima dal basso.
“Anche
per me un po’ da tutte e due, ma versa svelta, perché debbono
mescolarsi come dico io!”, terminò energicamente l’ultima Stella
centrale, proprio quella in fondo.
“Molto
bene, penso che sia tutto perfetto. Grazie, Eva, ora puoi riposare”,
concluse la Stella Grande, centrale, quella in alto.
Eva
si alzò dalla sua posizione (che in verità era alquanto scomoda) e guardò
nelle anfore: erano di nuovo vuote. Allora issò l’anfora d’oro sulla
spalla destra, prese l’anfora d’argento con la mano sinistra e si avviò
verso il Paradiso, per andare a riempire di nuovo le due anfore ed averle
così pronte per le successive annaffiature.
“Per
me ancora un po’ di liquido dall’anfora d’oro”, “per me un po’
dall’anfora d’argento”, “ per me versa piano”, “per me versa
svelta…”, le voci delle Stelle risonavano nelle orecchie di Eva che
intanto pensava:
“Certo
che il loro è un lavoro importantissimo… sbagliare le dosi vuol dire
far venir fuori tutta un’altra cosa! Però, secondo me, a volte si
tratta proprio di pignoleria, perché una goccia in più o in meno di
liquido, che differenza vuoi che faccia! E intanto tocca a me stare lì
inginocchiata a misurare il millimetro cubo. Inoltre, c’è anche il
fatto che quando a comandare sono in due o tre, come succede di solito,
oppure in quattro, cinque o sei, come avviene qualche volta, è ancora
possibile ubbidire; ma se diventano sette o otto o addirittura nove o
dieci (per fortuna succede assai di rado) accontentarle tutte è davvero
un miracolo! E poi… andassero sempre d’accordo, almeno non si dovrebbe
correggere e ricorreggere il lavoro… invece certe volte!… Oh, per
l’amor del cielo, non dico che litighino, no, questo non lo posso
proprio dire, se litigassero non sarebbero Stelle, e litigare qui è
impossibile, siamo nel Regno della Perfezione… ma insomma, specialmente
le coppie di Stelle opposte, prima di decidere fra loro definitivamente il
quantitativo di liquido che vogliono che io versi ci mettono sempre un bel
po’!”
E
brontolando (ma sempre con molto controllo perché ormai era vicina al
Paradiso) Eva continuò la sua strada in salita. Arrivò finalmente alla
duplice fonte, che era esattamente alla porta del Paradiso; riempì le
anfore e poi tornò indietro, preparandosi ancora una volta a versare il
liquido dell’anfora d’oro nell’acqua (l’elemento positivo), e il
liquido dell’anfora d’argento sulla terra (l’elemento negativo) a
comando delle loro Altezze Reali, le Stelle.
Ma
sento le vostre voci che mi domandano:
“A
che cosa serve tutto questo traffico? Perché tanto lavoro?”.
Già,
perché non ve l’ho ancora detto: è così che gli Astri preparano le
ricette quando devono far nascere i bambini. Tenendo presente i meriti
delle vite precedenti, preparano per loro il bagaglio personale di buone
qualità, ogni Stella il suo: a volte piccolo piccolo, a volte medio,
raramente grande.
Eva,
la natura umana, è la loro valletta, l’hanno adibita a quel lavoro per
farle scontare il peccato originale, ma il lavoro non è poi faticosissimo
perché, una volta riempite le anfore, Eva normalmente versa per giorni e
giorni; quello di cui più si lamenta infatti è salire alla fonte e
portare giù le anfore piene… ma si sa, ogni lavoro richiede sempre una
certa fatica; però così può rimanere vicino al Paradiso anche se,
ovviamente, non può mai entrarci.
“Eva,
preparati”. Questa volta era la voce della 1ª Grande Stella a destra.
“Comincia a versare il liquido dall’anfora d’oro”.
Eva
a sentire la voce della 1ª Grande Stella rabbrividì. Se cominciava Lei
ad ordinare la ricetta, allora era proprio una giornata di grazia.
La
voce della 1ª e della 2ª Grande Stella non si udivano che una volta ogni
millennio o quasi. Quando parlavano loro voleva dire lavoro durissimo.
La
1ª Grande Stella dette i suoi ordini e il risultato fu “Sapienza”.
Ma quante volte la povera Eva dovette aggiungere gocce infinitesimali di
liquido dall’anfora d’oro!
La
2ª Grande Stella diede anch’Essa la sua ricetta, dopo un gran discutere
con la 1ª Stella. Il risultato fu “Comprensione”, ottenuto
naturalmente con il liquido dell’anfora d’argento.
La
3ª Grande Stella, come al solito, avrebbe parlato per ultima, perciò
diede la precedenza alla 4ª Stella che decretò il quantitativo della sua
annaffiatura dell’acqua con il liquido dell’anfora d’oro. Il
risultato fu “Giustizia”, ma ci vollero ore, prima che avesse
terminato.
Poi
toccò alla 5ª Stella, quella che decretava la “Forza”; questa
sarebbe stata di per sé la più sbrigativa nel decidere quello che
voleva, se non ci fosse stata la 4ª a farle continuamente modificare la
misura del liquido dell’anfora d’argento che Eva doveva versare sulla
terra per Lei.
La
6ª Stella era di quelle centrali, quelle che preparano la loro ricetta
con i due liquidi mescolati. Per lei fu composta “Bellezza” e
fu opera di cesello!
La
7ª Stella diede la “Vittoria”, regolando ovviamente il liquido
dell’anfora d’oro, ma poiché era sempre un po’ troppo esuberante,
fu necessario ritogliere il liquido in eccesso.
L’8ª
Stella compose il suo “Splendore” determinato dal liquido
dell’anfora d’argento e, come al solito, ebbe a che dire con la 7ª
Stella a causa della reciprocità delle loro competenze.
La
9ª Stella, che stabiliva il “Fondamento” e la 10ª, che
regolava il “Regno”, le quali lavoravano tutte e due con
entrambi i liquidi, come la 6ª Stella, ma dovevano continuamente
consultare la 3ª per le proporzioni, finalmente diedero il loro responso.
Alla
fine, dopo un giorno di lavoro continuo, la 3ª Grande Stella Centrale,
quella che organizzava la “Coscienza”, parlò:
“Anche
questa volta è tutto, Eva. Grazie, ora puoi riposare!”.
Eva
guardò nelle due anfore: non c’era più nemmeno una goccia di liquido,
né in quella d’oro, né in quella d’argento. Sarebbe di nuovo dovuta
andare su, fino al Paradiso. La nascita di un solo bambino aveva richiesto
tutti i liquidi vitali di un suo viaggio.
E
tutto questo perché?
Perché
era un minuto dopo la Mezzanotte del giorno 25 del mese X dell’anno 0 ed
era nato un Maestro!
18.
LA LUNA
“Agente
FZ 17, pronto. Agente FZ 17, pronto. Rispondi”.
L’agente
FZ 17 automaticamente premette il pulsante della video-radio incorporata
nella sua tuta spaziale, che lo teneva in contatto continuo con la Base e
rispose: “Pronto, agente FZ 17 in linea”.
La
voce impersonale dell’A.I. (sigla che voleva significare probabilmente
Agente Intermediario) comunicò all’agente FZ 17 gli ordini:
“Dal
G. D. D. (non si sapeva con esattezza quale nome celasse la sigla, ma
quasi sicuramente stava per Grande Direttore Distrettuale) è stata decisa
la meta del tuo prossimo viaggio, missione n. 18. Dovrai esplorare il
Satellite detto Luna del 3° Pianeta del Sole, quello chiamato Terra.
Verrai proiettato direttamente sul Pianeta e di lì dovrai procedere da
solo con la navicella spaziale modello F standard, potenza 17, classe 42.
L’A. C. (anche su questa sigla il mistero era fitto, ma probabilmente
voleva solo dire Agente di Controllo) ti raccomanda di attenerti alle
regole e di essere prudente. Buon viaggio e buona fortuna!”.
Il
messaggio-ordine non era neanche terminato che l’agente FZ 17 si trovò
immediatamente, con tutta la sua navicella, proiettato sulla riva di uno
stagno, ovviamente del Pianeta Terra, in una meravigliosa notte di
plenilunio autunnale.
Era
il suo 18° viaggio, per questo si chiamava FZ 17. Il 17 significava che
aveva già compiuto 17 missioni, delle quali portava con sé il ricordo e
l’esperienza. Ancora 5 viaggi portati a termine con successo e avrebbe
aggiunto una X al suo nome: sarebbe diventato XFZ… un sogno!
Ma
ora non doveva sognare, doveva affrontare i pericoli del viaggio e
superarli; doveva concentrare tutte le sue energie sulla sua missione.
Sapeva che non sarebbe stato facile raggiungere la Luna con le sue sole
forze, ma era quello che si pretendeva da lui. La navicella standard
classe 42 era assai modesta, ma lì stava la sua bravura, riuscire a fare
l’impossibile con quasi niente!
Per
prima cosa guardò con l’apparato visivo della sua navicella nello
stagno.
Se
ci fosse stato il riflesso della Luna, avrebbe forse potuto scoprirne
qualche segreto e magari imparare qualcosa su come conquistarla… invece
lo stagno in superficie era tutto coperto di erbe e foglie in
decomposizione; quello che però attrasse la sua attenzione fu un enorme
gambero rosso che stava affiorando pian piano dal fondo. Era il 1°
ostacolo. Doveva ucciderlo? No, doveva indovinarne la funzione. Ci pensò
un po’ e poi decise che doveva solo convincere la bestiola a tenere
pulito lo stagno. Azionò il suo personale meccanismo telepatico (regolato
su onde-crostaceo) e dopo aver superato una leggera resistenza, riuscì ad
ottenere che le chele del gambero, diventate docili, cominciassero una
meticolosa e sistematica pulizia dell’acqua. Quando lo stagno ebbe preso
l’aspetto di un laghetto limpido di montagna, il gambero si immerse e
tornò sul fondo.
FZ
17 pensò: “Molto bene, l’inizio è stato molto favorevole, ora debbo
prepararmi al resto”. Cominciò ad osservare la Luna riflessa nello
specchio dell’acqua e la visione di una navicella spaziale come la sua,
modello M standard, gli apparve.
Come
era gradevole! E si protendeva verso di lui con le appendici superiori
tese in avanti… FZ 17 ebbe un attimo di smarrimento e sarebbe finito con
tutto il suo veicolo nell’acqua se non avesse ascoltato la Voce interna
che gli diceva:
“No,
attento! Questo è il 2° ostacolo”. Per fortuna si riscosse
prontamente.
Distolse
l’apparato visivo dalla visone affascinante e, per distrarsi, prese ad
avanzare sulla riva dello stagno, verso due torri che vedeva in
lontananza.
Oltrepassò
lo stagno e un nuovo paesaggio gli si presentò dinanzi: una vasta pianura
dai colori argentei, dominata da quelle torri severe, immersa in un
silenzio attonito. Stette un po’ in contemplazione, poi,
inaspettatamente, due mostri si misero a latrare, sembravano essersi
materializzati dal nulla. Gli vennero incontro: erano un cane bianco e uno
nero, grandi e assai feroci. Era il 3° ostacolo. Già nei viaggi
precedenti più volte si era trovato di fronte a mostri di doppia natura,
questi in fondo erano solo cani e abbaiavano solamente.
Pensò
che la cosa migliore fosse passare in mezzo a loro tenendosi a uguale
distanza sia dall’uno che dall’altro. Così fece e, come fu passato,
si quietarono.
Rimanevano
le torri: come conquistarle? Occupare prima l’una e poi l’altra?
Ma
cosa aveva a che vedere tutto questo con l’esplorazione della Luna?
Certo, all’interno avrebbero potuto esserci nemici, entità o mostri. Ma
decise in cuor suo che era meglio rischiare. Si comportò con le due torri
come si era comportato con i cani: passò nel mezzo, senza assolutamente
occuparsi dei loro eventuali abitanti, indifferente, e tutto concentrato
sulla Luna. E come ebbe oltrepassato le due torri (il 4° ostacolo),
scorse la rampa di lancio della sua navicella spaziale.
Ecco,
finalmente avrebbe potuto utilizzare tutta la potenza del suo piccolo
veicolo modello F standard, classe 42 e partire davvero alla conquista del
Satellite, completando così il suo viaggio che costituiva la 18ª Prova.
Accese
i motori, calcolò la rotta più breve, regolò il pilota automatico sulla
direzione voluta, e diede il via.
Lieve
come una farfalla la piccola astronave si posò sulla superficie lunare.
E
finalmente FZ 17 poté conoscere la sua Luna. C’era di tutto: paesaggi
di fantasie mai realizzate; suoni di musiche sotterranee dolci e
romantiche mai udite; ruscelli di lacrime composti di pianti solitari
ancora da piangere; ombre di misteri tenebrosi ancora tutti da scoprire;
valli di rimpianti e montagne di visioni intraviste per un attimo e poi
scomparse e boscaglie di desideri teneri e violenti insieme e foreste
vergini di ansie e timori avviluppati tra loro e…
FZ
17 guardò sbalordito quello spettacolo fantasmagorico e mentre si
chiedeva che cosa mai dovesse fare, ad un tratto ebbe un’ispirazione:
rimise in moto i motori della sua navicella, si allontanò un poco, quanto
bastava per vedere la sua Luna come un pallone rotondo… e quando fu
proprio di misura giusta, ridendo, prese la mira e con una delle appendici
inferiori della navicella, esattamente con quella destra, chiamata gamba e
terminante con la protuberanza chiamata piede… diede un bel calcio al
pallone-Luna, gli fece fare un bel volo e poi lo riprese con l’appendice
sinistra chiamata mano…
Immediatamente
udì la voce della video-radio collegata alla Base:
“Agente
FZ 17, pronto. Agente FZ 17, pronto, rientrare. L’A. C. ha dato il suo
giudizio sul tuo comportamento: Prova Valida. Lo scopo del G. D. D. era di
farti conoscere la tua vera Luna, ma per poterla vedere come l’hai vista
tu, dovevi superare prima i 4 ostacoli terrestri. La tua missione è
compiuta. Hai una settimana di licenza e sei stato nominato FZ 18. Buone
vacanze!”.
19. IL SOLE
Heliopoli
era una meravigliosa città dell’antica Atlantide. Il colore
predominante era il giallo, in tutte le sue sfumature. La terra, il cielo,
le pietre di cui erano costruiti gli stupendi edifici che sembravano
templi, la pelle degli abitanti, i loro vestiti ed i loro capelli, tutto
durante il giorno assumeva il colore caldo dell’oro aranciato per
tramutarsi poi in ocra mattone dopo il tramonto, in attesa di ridiventare
giallo chiaro all’alba.
Quella
mattina di giugno ad Heliopoli si sarebbe riunito il Consiglio dei Grandi
Sacerdoti. Tutti gli anni il
giorno del Solstizio si celebrava la Grande Cerimonia e le famiglie nobili
della città ogni anno si preparavano con ansia alla Grande Festa. Il
Consiglio si riuniva tre giorni prima del Solstizio, in esso si decidevano
i nomi dei due fanciulli, un maschio e una femmina di nobili natali,
destinati al Trionfo della Festa. Era un onore senza uguali per le
famiglie dei fanciulli prescelti.
I
ragazzi, per partecipare alla gara, dovevano avere 14 anni e se non erano
scelti non potevano più concorrere, essendo l’anno dopo fuori età;
dovevano essere i più belli e i più intelligenti e dimostrare di
armonizzare perfettamente tra loro. I concorrenti venivano esaminati uno
per uno molto attentamente. Al fanciullo per vincere si richiedeva la
“Grazia”, egli doveva avere in sé innate Sapienza, Giustizia e
Vittoria. Alla fanciulla si richiedeva invece la “Severità”, ella
doveva avere in sé innate Comprensione, Forza, Splendore. Naturalmente
queste qualità venivano coltivate in tutti i fanciulli della città, sin
dalla più tenera infanzia, ma la coppia prescelta doveva eccellere in
esse e, quanto più i fanciulli erano corrispondenti ai canoni di
perfezione richiesti dalla Legge, tanto più era dimostrata la bontà
della Legge e l’abilità e la saggezza dei Governanti della Città, cioè
dei Sacerdoti.
Shine
quella mattina si era alzata tutta felice; era una bellissima giovinetta
di 14 anni e, per l’appunto, avrebbe partecipato alla gara. Aiutata
dalle schiave, sotto la sorveglianza della madre, dopo il bagno profumato
all’essenza di mirra, si era abbigliata per l’esame-cerimonia. Aveva
indossato la tunica corta giallo-rosato di regolamento, aveva ornato i
lunghi capelli castano dorato con topazi, calzati i sandali preziosi e,
salutata la madre, si era avviata al luogo di raduno delle fanciulle. Di lì
avrebbe proseguito con tutte le altre ragazze della sua età, in fila per
tre, fino al palazzo del Consiglio.
Ogni
fanciulla recava in mano un girasole.
Stranamente
la madre, al momento dei saluti, doveva aver avuto un attimo di commozione
nel vedere la figlia così bella, perché gli occhi le erano diventati
lucidi lucidi; ma Shine era talmente eccitata per tutto quello che
l’aspettava quel giorno, che appena le aveva dato un bacio in tutta
fretta.
Sun
era un giovinetto biondo anch’egli di 14 anni e quindi partecipante alla
gara. Era molto alto, bello e proporzionato per la sua età. Ad Heliopoli
l’educazione dei maschi nobili era affidata al padre e ovviamente agli
schiavi maestri, i bambini vedevano solo di sfuggita a qualche cerimonia
la madre e le sorelle. Ma dopo i 14 anni, dopo la grande festa del
Solstizio, entravano nella vita comunitaria e diventavano adulti, come del
resto le femmine, che erano affidate alla cura della madre e conoscevano
altrettanto poco il padre e i fratelli.
Sun,
era terribilmente emozionato quella mattina. Anch’egli si era lavato,
profumato e vestito con la tunica giallo-rosato, aveva calzato i sandali
dorati, messo al dito l’anello col topazio regalatogli dal padre quella
mattina stessa, poi aveva abbracciato il genitore, il quale, come la madre
di Shine, stranamente, aveva dimostrato di essere alquanto turbato, infine
si era avviato al luogo di raduno dei ragazzi. Anche lì si era formata la
fila, i giovani dovevano procedere a tre a tre ed arrivare al palazzo del
Consiglio recando in mano ciascuno una spada d’oro. I due cortei
arrivarono al Palazzo nello stesso momento.
Il
Consiglio era composto di sette Sacerdoti e di sette Sacerdotesse. Le
Sacerdotesse dovevano esaminare i fanciulli, i Sacerdoti le fanciulle.
Gli
esami cominciarono alle nove di mattina e terminarono al tramonto, come
tutti gli altri anni. Quell’anno il responso fu che Sun aveva vinto al
gara tra tutti i giovanetti e Shine aveva vinto fra tutte le giovanette.
Cominciarono
allora i festeggiamenti: i due ragazzi vennero ricoperti di doni, portati
in trionfo, lodati e acclamati da tutti, incoronati Re e Regina della
Festa tra musiche, canti, balli e banchetti.
Stranamente
tra tanta gente Sun e Shine non riuscivano a vedere né lui il padre, né
lei la madre. Quando ne chiesero il motivo ai Sacerdoti che li
accompagnavano dappertutto, fu loro risposto che era sempre così, ogni
anno, che loro ormai erano adulti e non avevano più bisogno dei genitori.
Finalmente
venne il giorno del Solstizio. Tutti i festeggiamenti di quei tre giorni
precedenti non erano altro che la preparazione a quella che era la Grande
Cerimonia. Si doveva compiere a mezzogiorno, e non era pubblica. I ragazzi
dovevano essere introdotti separatamente nel Tempio, Sun preparato dai
Sacerdoti, Shine dalle Sacerdotesse. Vestiti entrambi con la tunica lunga,
bianca, ornati di diamanti e platino, profumati d’incenso, lui dalla
porta di destra, lei dalla porta di sinistra, furono spinti delicatamente
nel Tempio.
E
poi le due porte furono chiuse alle loro spalle.
Il
Tempio, circolare, era tutto vuoto. Solo al centro un altare rotondo.
Non
c’era tetto. L’altare e tutto l’interno era esposto ai raggi
infuocati del sole tropicale.
Sun
e Shine si guardarono negli occhi e, immediatamente, compresero tutto:
loro, i festeggiati, erano sacrificati al Dio Sole. Li avrebbero lasciati
lì, senza alcuna protezione, fino a che il Sole li avesse prosciugati
tutti, nutrendosi delle loro giovani vite, cosicché poi, soddisfatto,
avrebbe, per tutto il resto dell’anno, elargito doni alla popolazione di
Heliopoli.
Non
c’era scampo. Erano chiusi come in un cilindro le cui pareti lisce, alte
più di cinque metri erano metallizzate e forse rivestite d’oro bianco.
Non
c’era un filo d’ombra per ripararsi, né un appiglio per tentare di
fuggire.
Avrebbero
potuto urlare e disperarsi, ma a che cosa sarebbe servito?
Si
tolsero le lunghe vesti bianche, le stesero sull’altare, poi vi si
sdraiarono sopra, nudi.
L’Amore
fu l’unica esperienza concessa ai due giovanetti vergini prima della
Morte.
Il
Dio Sole gradì in modo particolare il loro Sacrificio, infatti da quel
giorno uno dei suoi nomi preferiti divenne SUN-SHINE.
20.
IL GIUDIZIO
“Michele!”.
La voce del Signore si fece udire, tonante, appena fuori della Sala del
Paradiso, la Sala detta del Grande Silenzio.
“Michele!
Ma quante volte debbo chiamarti? Che sei diventato sordo?”.
Michele
arrivo’ a volo radente; si ricompose la tunica; chiuse le ali e si
inginocchio’ davanti al Signore e disse: “Scusami, Signore, ma ero
impegnato a tenere sotto il piede la testa del Dragone. Era il comando che
mi avevi dato l’altra settimana. Ora ho lasciato al mio posto un angelo
di 2°
ordine, ma avevo capito che quello doveva essere un compito personale.
Eccomi! Ordina e sarai ubbidito!”.
“Devi
prendere la tromba per svegliare i morti. E’ vicina l’ora del
Giudizio!
“E
fai esercizi di respirazione, perche’ dovrai suonare molto forte. Ti
dovranno sentire dappertutto e fin dai secoli piu’ remoti”. Cosi’
detto il Signore se ne torno’ nella Sala del Silenzio, dove naturalmente
non poteva essere disturbato per nessunissimo motivo.
Michele
si diresse verso la Sala degli Strumenti Musicali, che era proprio li’
di fronte e, mentre sorvolava il pavimento di nuvole ceramicate, composto
a mosaico di tipo bizantino in cui abbondavano gli smalti azzurro e oro
pensava:
“Ma
proprio a me doveva dare un compito simile? Io, l’Angelo guerriero per
eccellenza, dovrei suonare la tromba? Ma non era un incarico piu’ adatto
a Gabriele che e’ abituato a fare gli annunci? Uh, ma che sto facendo?
Sto borbottando?
“Vuoi
vedere che il contatto, sia pure per una settimana, con Lucifero mi ha
contaminato? E, a proposito, a che pro tenerlo sotto il piede? Eliminarlo
bisognerebbe, quel demonio!
“No,
devo smetterla con questi pensieri autonomi, tanto qui non si puo’
piu’ discutere, percio’ e’ meglio che mi eserciti con questa
benedetta tromba!”.
Michele
tolse il lungo strumento dalla sua custodia rivestita di velluto viola, lo
ispeziono’ ben bene per vedere che fosse tutto in ordine, l’ultima
volta che era stato usato era circa un eone prima (millennio piu’,
millennio meno) e si sa, anche le trombe piu’ perfette col passare del
tempo possono subire piccole alterazioni e… provo’ uno squillo:
Ta-tarata’-tata’!
…Subito,
da niente, gli si presentarono dinanzi tre personaggi: un uomo alla sua
destra, una donna alla sua sinistra e un ragazzetto al centro; tutti nudi
e con le mani giunte.
“E
voi che volete, ora?”, chiese Michele, “non siamo ancora pronti per
chiamarvi in Giudizio; il via lo deve dare il Signore, io ho solamente
provato la tromba”.
Il
ragazzetto al centro che, uscendo dalla tomba si era subito adeguato al
motto “i giovani innanzi tutto” perché aveva respirato l’aria del
20°
secolo dell’era cristiana, disse subito: “Lui (indicando a destra)
e’ mio padre, si chiama Adamo, lei (indicando a sinistra) e’ mia
madre, si chiama Eva. Io sono Abele. Il primo squillo di tromba ha
chiamato noi che siamo stati i primi a nascere e i primi a morire. Ora che
ci hai destati vorremmo essere giudicati in fretta per poter ascendere in
cielo”.
Michele
si gratto’ pensosamente la fronte con la parte terminale, stretta, della
tromba: era in un bel pasticcio. Ora che si ricordava bene, il Signore gli
aveva detto di far respirazione, non di suonare per prova, e non poteva
neanche chiamarLo e sbrigare i tre con un Giudizio alla svelta perché
Egli era nella Sala del Silenzio e non Lo si poteva disturbare.
“Non
potreste riaddormentarvi ancora per un pochino, per favore?”. Michele
cercava di convincere il ragazzo.
“No,
ormai non abbiamo piu’ sonno. Possiamo pero’ aspettare”, concilio’
il ragazzo, sempre parlando anche per i genitori.
E
i tre si sedettero pazientemente sulle nuvole, li’ proprio nella sala
della Musica, che era poi davanti la Sala del Silenzio.
Passo’
del tempo, forse un giorno o due, poi il Signore si ricordo’ di aver
predisposto tutto per il Giudizio Finale, usci’ dalla Sala del Silenzio
e guardando dinanzi a Se’ vide, seduti sulle nuvole, tutti nudi, i tre
che aspettavano.
“E
questi chi sono?”.
Michele
che era rimasto anche lui ad aspettare, subito si fece avanti per perorare
la causa dei tre; spiego’ come erano andate le cose, si scuso’ per
quello squillo di tromba che gli era sfuggito distrattamente e prego’ il
Signore di dare il Giudizio Finale ai tre in anteprima. Inizio’ quindi a
narrare le loro storie: Adamo aveva peccato proprio all’inizio, ma poi
aveva anche scontato tutta la sua pena “con dolore aveva tratto il cibo
dal suolo per tutti i giorni della sua vita e col sudore del suo volto
aveva mangiato il pane e poi, essendo polvere in polvere era ritornato().
Eva, che aveva spinto Adamo a peccare e peccato lei stessa, “aveva
partorito con dolore ed era stata dominata dal marito”(),
come prescritto dalla punizione. Abele infine, essendo loro figlio e
fratello di Caino, era da questo stato ucciso.
Alla
fine del racconto ognuno di loro si mise a pregare e a implorare di essere
assunto in cielo: non avrebbero avuto l’elemosina di una piccola
ascensione in cielo dopo quasi un eone di tempo?
Il
Signore guardo’ Michele: “ Non saranno mica tutte cosi’ le storie di
quelli che dobbiamo rigiudicare per farli entrare in Paradiso con tutta la
carne, spero! Questi ormai falli entrare, prima pero’ da’ loro una
tunica decente, qui non abbiamo mai avuto un campo di nudisti! E poi
rimetti a posto subito quella tromba! Non mi pare proprio il caso di
sentire miliardi di storie lacrimevoli tutte insieme. Quando sara`
l’ora, dovrò studiare il sistema, faremo una cosa sbrigativa, senza un
vero e proprio giudizio da parte Nostra…”.
In
quel momento arrivo’ tutto trafelato un angelo di 3°
ordine con un messaggio da
parte dell’angelo di 2°
ordine lasciato da Michele con il piede sulla testa del Dragone: chiedeva
urgenti rinforzi, perché il Dragone dava evidenti segni di irrequietezza
e lui non voleva correre il rischio di farselo sfuggire.
Fu
cosi’ che il Signore ordino’ a Michele di prendere le chiavi
dell’abisso e la catena e di imprigionare il Dragone per 1.000 anni. Era
il tempo che Gli ci voleva per fare organizzare ai suoi angeli un sistema
di Giudizio finale autorealizzantesi.
Dopo
quei 1.000 anni, Michele, in premio della sua fedeltà, avrebbe avuta la
Grande Battaglia finale ad Armagedon (una soddisfazione bisognava pur
dargliela) e poi… uno squillo di tromba, uno solo e si sarebbe innescato
un processo di reazione a catena: fuga di cielo e terra… i morti tutti
davanti al trono, il libri aperti. Il Libro aperto (che e’ quello della
vita) e chi non si fosse trovato scritto nel Libro della Vita… giù,
nello stagno di fuoco ().
Ma senza storie, senza suppliche, senza lamentele inutili. Quelle cose non
le sopportava proprio.
Cosi’
stabili’ il Signore quel giorno e poi se ne torno’ nella Sala del
Grande Silenzio, come al solito.
21.
IL MONDO
“Che
cosa e’ la Verità?”, chiese una volta al Budda un suo discepolo.
Dicono che Budda a quella domanda per tutta risposta guardasse lontano e
sorridesse.
Aveva
forse intravisto dietro le spalle del suo seguace la fanciulla nuda,
premio ultimo dell’iniziato che ha percorso tutto il Sentiero? O non
volle rispondere perché non c’e’ risposta alla domanda?
Non
lo sappiamo. Fatto sta che per quella volta Budda se la cavo’ con poco,
ma quel discepolo non si accontento’ della non-risposta e il giorno dopo
gli pose di nuovo la stessa domanda e ancora il giorno dopo e continuo’
ad aspettare giorni e mesi che il Maestro gli desse soddisfazione.
Fu
cosi’ che il Budda cedette alle insistenze del suo discepolo e un giorno
gli racconto’ la seguente favoletta:
“C’era
una volta un contadino che coltivava la terra; egli possedeva un toro
molto intelligente che l’aiutava in tutti i suoi lavori e col quale
parlava alla sera quando era stanco, al ritorno dai campi. Un giorno il
toro si ammalo’ e confido’ al suo padrone che sarebbe presto morto se
non avesse mangiato di un’erba particolare che cresceva in una lontana
foresta. Il contadino che amava molto il suo umile compagno si rese conto
delle sue esigenze e decise di portarlo a pascolare dove avrebbe trovato
l’erba miracolosa. Camminarono per giorni e giorni, ma dell’erba che
cercava il toro, nessuna traccia. E un giorno arrivarono al mare.
Il
contadino che non aveva mai visto quella immensa distesa di acqua si
fermo’ stupefatto e confesso’ al suo amato toro di non saper
proseguire; stavano per rinunciare all’impresa quando apparve loro un
essere un po’ strano, pareva un viandante, con un grande mantello, tutto
circondato da vapori. Il contadino spiego’ al viandante che era in cerca
dell’erba miracolosa e che il mare costituiva per lui un ostacolo
insormontabile. Allora il viandante gli insegno’ a costruire una barca e
gli confido’ a sua volta di essere malato e alla ricerca della stessa
erba magica.
Insieme
il contadino, il toro, il viandante salirono sulla piccola imbarcazione e,
dopo giorni e giorni di navigazione più o meno avventurosa, approdarono
ad una spiaggia. Sulla riva della spiaggia, appollaiata proprio in cima ad
un albero, videro un’aquila reale, bellissima, tutta azzurra e con le
ali d’oro.
“Per
poter trovare l’erba che cercate, dovrete seguire me”, disse
l’aquila, “anche io, da anni la desidero per ringiovanire, so
dov’e’, ma da sola non posso prenderla”.
“Ma
tu voli!”, dissero i tre, “come facciamo a seguirti?”.
“Volate
anche voi!”, fu la risposta.
Con
i vapori che sapeva modellare il viandante, fecero un carro, vi salirono
dentro e, guidati dall’aquila, sorvolarono tutti e quattro la foresta.
Arrivati
sopra una radura l’aquila scese ed il carro atterro’.
Davanti
a loro c’era una grotta e all’imbocco della grotta un leone, il quale
li accolse con gran ruggiti di giubilo. Anch’esso era malato e aspettava
il loro arrivo per potersi nutrire dell’erba miracolosa che gli avrebbe
reso le forze, sapeva che l’erba era nella grotta, ma da solo non era in
grado di riconoscerla.
Allora
finalmente tutti e cinque entrarono nella caverna e, proprio sul fondo,
scoprirono una specie di apertura che dava su una valletta tutta fiorita.
Il
toro si diresse sicuro verso un cespuglio e ne mangio’ e dietro di lui
mangiarono l’amico viandante, l’aquila e il leone.
Il
contadino invece prese alcuni rami dell’erba magica, il cui profumo
l’aveva subito attirato, l’intreccio’ a corona e se li mise sul
capo.
Allora
il toro, il viandante, l’aquila e il leone scomparvero dalla sua vista
e, al loro posto, apparve una fanciulla nuda, bellissima, con un velo in
una mano due bacchette nell’altra: era la Verità, e cosi’ gli
parlo’:
“Tu,
cogliendo l’alloro della Vittoria sui quattro elementi che sei riuscito
ad armonizzare in te, hai conquistato il Mondo, il tuo Mondo. Per questo
ora puoi conoscermi. Sappi pero’ che io non sono un raggiungimento
definitivo, perché ogni volta che io vengo svelata, debbo ri-velarmi”.
Cosi’ detto gli regalo’ le due bacchette e scomparve.
Il
contadino torno’ a coltivare il suo campo. Ora portava in se’ i suoi
quattro amici ed era più solo di prima, ma quando voleva vedere la Verità
della realtà, gli bastava prendere in mano le due bacchette e unirne le
punte, pero’ non poteva svelare a nessuno il suo segreto, perché tutte
le volte che ci provava la Verità gli si nascondeva”.
Il
Budda termino’ cosi’ la sua storia e pianse.
Allora
il suo discepolo smise di far domande, medito’ per 21 giorni di seguito
sulla Verità regalatagli dal suo Maestro e ricevette l’Illuminazione.
E
il suo nome divenne Mouna, che vuol dire Silenzio.
22.
IL MATTO
C’era
una volta un vagabondo che non aveva nessuna voglia di lavorare, tanto
e’ vero che lo consideravano tutti un fannullone buono a nulla; quando
entrava nei villaggi per chiedere in elemosina qualche tozzo di pane, a
volte ne riceveva, raramente riusciva ad avere anche una scodella di
minestra, molto spesso tutto quello che raggranellava erano insulti e
minacce o canzonature da parte dei ragazzi, i quali, poi magari, gli
aizzavano contro anche i cani.
In
quel giorno di novembre il nostro vagabondo era appena uscito in tutta
fretta da un paesotto in cui più del solito lo avevano maltrattato e
deriso; era dovuto andar via di corsa perché tre o quattro cani gli erano
corsi dietro abbaiando e uno di loro aveva addentato e strappato i suoi
calzoni. Era proprio malridotto a vedersi! Col vestito tutto un
arlecchino, la barba lunga e incolta, il cappello largo tutto sformato e
scolorito e adesso anche con i pantaloni a brandelli…
Ma
in fondo che c’era da meravigliarsi? Tanto lo consideravano tutti matto!
Peggio
(o meglio?) di cosi’…! E in che cosa consisteva la sua pazzia? Nel non
avere una dimora fissa, ne’ possedimenti di nessun genere (non aveva
neanche la reputazione, che e’ un possedimento anche quello). Non aveva
affetti, ne’ legami, il che vuol dire nessun problema. E per questo, per
cosi’ poco era Matto? O non era piuttosto troppo savio, tanto da essere
considerato pericoloso e perciò da tener lontano? E quando era cominciata
questa sua follia? Anni addietro.
Oh,
allora aveva famiglia, ricchezze, lavoro, il che significa affetti,
legami, preoccupazioni, soddisfazioni e dispiaceri e continui alti e bassi
di umore che a lungo andare gli avevano resa la vita un inferno. Una volta
stanco di tutta quella girandola di azioni, sentimenti e pensieri,
arrivato alla domanda fatale: “Chi
sono io?”, si era risposto: “Un burattino!”. Allora aveva rotto il
burattino: aveva lasciato la famiglia, la casa, il lavoro ed aveva
iniziato il suo pellegrinaggio. Verso che cosa? Verso chi? Verso Se
Stesso. Ed era diventato Matto per tutti gli altri.
Eppure,
a dir la verità, ci si divertiva tanto a fare il buffone! Quando gli
chiedevano qualche cosa, rispondeva a caso la prima sciocchezza che gli
veniva in mente e gli piaceva vedere e suoi interlocutori stralunare gli
occhi e cercare una logica in un discorso del tutto sconclusionato.
Poi
a volte citava frasi e versi di libri importanti, testi sacri o opere
famose che aveva letto nei primi anni della sua giovinezza, con un’aria
cosi’ “compresa” da far credere a tutti di essere in preda a qualche
fantastica visione astrale.
Poi,
quando aveva ottenuto il pezzo di pane che gli serviva per sopravvivere,
se ne andava tutto solo per la campagna, in cerca della Pace e di Dio.
Se
vedeva qualcuno da lontano si faceva gran risate da solo e cosi’ lo
evitavano e non era disturbato. Matto lui o matti tutti gli altri? E se la
parola “matto” deriva da “mattatore”, cioè uccisore, allora chi
era che uccideva? Matto lui, l’uccisore era lui, che cosa uccideva se
non la stupidita’ dei “savi”, cioè di coloro che lo credevano
pazzo? Matti gli altri, gli uccisori erano gli altri, che uccidevano lo
Spirito in se stessi.
Tuttavia
c’era un problema che ancora lo assillava: di essere Folle era ben
felice, ma voleva essere sicuro di essere il “Puro Folle”, cioè colui
che può sedersi sulla 13ª sedia della Tavola Rotonda e non essere
fulminato. Non voleva recitare solo la parte del “Puro Folle” (ammesso
che ci fosse stata una qualche differenza tra le due cose). In ogni modo
da qualche tempo quello era diventato il suo problema e, si sa, i problemi
hanno sempre una soluzione, l’unico guaio e’ che la soluzione costa
sempre il prezzo doppio del valore del problema.
E
quella mattina di novembre il vagabondo andava verso la soluzione del suo
ultimo dilemma: di fronte a lui c’era l’abisso e il coccodrillo (o il
dragone) in agguato, a guardia del Mistero. Egli sarebbe andato avanti. Se
era il Vero Puro Folle, sarebbe passato indenne oltre il baratro, se non
lo era vi sarebbe precipitato dentro e sarebbe stato finito poi dal
mostro.
Non
c’erano ragionamenti da fare, ne’ soluzioni da prendere. Solo andare,
solo provare. E, passo dopo passo, lasciati il bastone a cui si appoggiava
e il mucchietto di stracci che portava appeso sulle spalle, il vagabondo
col cuore lacerato dal dubbio, continuo’ a camminare verso il
precipizio… e oltre.
Non
più “persona”, ma punto. Il Punto dell’universo in caduta libera,
senza gravita’, senza attrazioni, senza destino.
Vagava
per l’Infinito, era l’Infinito.
Vago’
cosi’ in beatitudine secoli e secoli… forse millenni o eoni…
Poi
un giorno si ricordo’ di una valletta tra i monti con al centro un lago
tutto azzurro, in cui l’aria era fresca e profumata di lilla’.
E
il ricordo gli piacque.
Fu
cosi’ che un giovane biondo, con uno strano cappello in testa a forma di
8 rivoltato (∞), con un vestito da giocoliere ed in mano un denaro,
una coppa, una spada e un bastone, comincio’ a giocare.
Era
nato un Bagatto.
|