ENRICO IV

 

Il protagonista di questo dramma pirandelliano, rappresentato per la prima volta a Milano nel 1922 e che abbiamo insieme apprezzato nella produzione della RAI per la regia di Giorgio De Lullo e l’interpretazione di Romolo Valli , “recita”  da circa 20 anni la “parte” di Enrico IV di Germania in una villa adibita a reggia, da folle per 12 anni e da folle-cosciente per 8 anni. Venti anni prima era stata organizzata, per una festa di carnevale, una “cavalcata” in costume; a quel tempo egli, innamorato di una giovane nobildonna di nome Matilde, aveva scelto di mascherarsi da Enrico IV, per poter “essere ai suoi piedi” implorante come l’Enrico IV storico della lotta per le investiture (1000-1100) che, scomunicato dal Papa Gregorio VII si reco’ da lui e si umilio’ a Canossa, castello della contessa Matilde di Toscana. Durante la cavalcata in costume, per un incidente provocato volontariamente da un rivale in amore, il barone Tito, Enrico, cadendo da cavallo, aveva battuto la testa e e si era “fissato” nel personaggio interpretato per gioco; dopo 12 anni si era svegliato da quello stato di follia, ma guardandosi intorno, si era reso conto che “tutto era finito”: che egli era invecchiato senza aver vissuto la sua vita: che “era arrivato con una fame da lupo ad un banchetto bell’e sparecchiato”(gli amici lo avevano tradito, il suo posto nel cuore della donna che amava era stato preso da un altro, ecc.); aveva allora deciso di continuare quella finzione : “preferii restare pazzo e vivere con la piu’ lucida coscienza la mia pazzia”  per vendicarsi della vita chelo aveva in qualche modo privato della sua,  pazzo cosciente, in contrasto “con chi vive agitatamente, senza saperla e senza vederla la sua pazzia” (tutti gli altri).
Questa vita di finzione continuata ha avuto pure un suo equilibrio: il re ha vissuto con la sua corte, 4 giovani Consiglieri Segreti (Landolfo,  Arialdo, Ordulfo,  Bertoldo) che gli hanno fanno compagnia e ha recitato al meglio la vita storica del personaggio che gli si e’ incollato addosso; ma questo equilibrio e’ stato rotto dalla visita organizzata dal nipote marchese Carlo, che ha introdotto nella villa-reggia la marchesa Matilde, la stessa donna amata da Enrico, invecchiata e sfiorita, con quello che ora e’ il suo amante,  il barone Tito, la sua fidanzata Frida, figlia della marchesa, somigliantissima alla madre ventenne, ed uno psichiatra, borioso e incompetente, allo scopo di effettuare un esperimento di guarigione sul “pazzo”: tentare di shock-are il “malato” facendogli vedere in carne ed ossa la “Matilde” di allora  e la “Matilde” di adesso, entrambe in costume da “Matilde di Canossa” ...Ma questa volta la finzione genera veramente la follia nell’Enrico IV che, tradito dai suoi Consiglieri che hanno resa nota la sua “guarigione”,  accusa tutti i presenti di pazzia; egli  vorrebbe ora avere per se’ la Matilde giovane, che gli “spetta di diritto”, come dice lui stesso, esasperato e infuriato; ma quando il barone Tito  gliela vuol strappare dalle braccia,  fulmineamente, cavando la spada dal fianco di Landolfo, lo ferisce al ventre (e lo uccide).
“ Ora si’... per forza... (chiama attorno a se’ i 3 consiglieri rimasti Landolfo, Arialdo, Ordulfo, come a ripararsi) qua insieme, qua insieme... e per sempre!”

 

 

 

 

Enrico IV
(Commento di Franca)

Questa in sintesi la trama del dramma e lo sviluppo, perfettamente riuscito, del tema favorito di Pirandello: contrasto tra vita vera e apparenza, tra persona e personaggio, tra realta’ e finzione.
Ma come riconoscere in questo “Enrico IV” un possibile viaggio iniziatico,  un processo di “individuazione” per Luigi Pirandello e per il suo pubblico,  e cioe’ per tutti noi? Quale “vizio” e’ stato qui vivisezionato e “risolto” (sciolto) nel finale drammatico? Perche’ la scelta del personaggio storico di Enrico IV che lotto’ contro il Papa e si umilio’ a Canossa?
Rispondere a queste domande (e le risposte sono implicite, come ben sappiamo, nelle domande stesse)  ci dara’ la  soluzione del problema che ci siamo posti.
Iniziamo col chiederci perche’ il “Re Enrico IV”. Nella scala sociale il Re rappresenta la massima autorita’, la massima potenza; Enrico (= ricco in patria) la massima ricchezza e IV in uno schema a 4 come l’Albero cabalistico, l’elemento Fuoco, l’elemento dominatore. Questa scelta indica che l’ambizione o “superbia” e’ il vizio messo a fuoco da Pirandello in questa opera. Il personaggio storico lo conferma: la lotta contro il Papa, massima autorita’ religiosa e spirituale, il voler competere con lui sull’investitura  e la nomina dei vescovi, caratterizzano la smodata ambizione di questo re che si punisce poi con l’umiliante  (l’Umilta’ e’ la virtu’ che si contrappone alla superbia)  attesa nella neve a Canossa.
Considerando  tutti i personaggi dell’ Enrico IV specchiature dello stesso Pirandello e il fatto che egli costringe il Luigi-protagonista ad una follia di 12 anni  per una “caduta da cavallo” provocatagli da un suo “rivale in amore” e  rileggendo le sue descrizioni....”Era cosi’, un po’ strano, certo; ma perche’ ricco di vita: estroso!... S’esaltava spesso veramente... e si vedeva subito lui stesso, nell’atto della sua esaltazione... a volte aveva scatti di rabbia comicissimi contro se stesso!...Quella subitanea lucidita’ di rappresentazione lo poneva fuori, ad un tratto, di ogni intimita’ col suo stesso sentimento, che gli appariva come qualche cosa a cui dovesse dare li’ per li’ il valore d’un atto d’intelligenza...appariva incostante, fatuo e anche ridicolo, qualche volta”, “questo”  Enrico mostra una profonda incapacita’ di conquistare cio’ che veramente ambisce, come Matilde (= forte in battaglia) del resto, sua componente  femminile, che rifiuta l’amore vero perche’ non ha il coraggio di “credere agli occhi che guardano con una promessa di sentimento duraturo, sentimento a cui credere sarebbe stato pericolosissimo”. Essere ambiziosi e non avere il coraggio di afferrare l’occasione che permette la realizzazione della cosa ambita, provoca la “caduta” qui  “da cavallo”  (ricordiamo che il cavallo simboleggia il mondo astrale dei sentimenti e delle passioni, e cadere da cavallo indica l’incapacita’ di gestire tale mondo). Passati i 12 anni di sonno o di espiazione, c’e’ una seconda possibilita’ di  affrontare la vita, quale essa ora si presenta da vivere, ma rimanere attaccati ad un passato ormai passato, impedisce anche questa seconda possibilita’ e obbliga ad una scelta di “finzione” considerata come unica via d’uscita per non affrontare la realta’ vera: ambire e conquistare  cio’ che dovrebbe essere ambito e conquistato: la Verita’, l’Amore, la Vita. Per 8 anni Enrico si accontenta di “finzione cosciente” e si crogiola in una storia certa,  in cui si e’ “fissati  per sempre: che vi ci potete adagiare, ammirando come ogni effetto segua sempre la sua causa, con perfetta logica, e ogni avvenimento si svolga preciso e coerente in ogni suo particolare”. E’ questa l’accettazione della “cristallizzazione” della immobilita’ psichica e mentale, totale e agghiacciante, che non puo’ durare per sempre; infatti ecco che viene offerta una terza possibilita’ di “salvezza”: il protagonista puo’ ancora una volta, l’ultima, uscire dalla sua prigione, dal rifugio Kafkiano in cui si e’ rintanato, ma i suoi 4 fidi, gli unici che sono riusciti a fargli confessare la finzione, ai quali il personaggio Enrico si e’ un po’ affezionato,  cioe’ le sue stesse forze (Landolfo = lupo di terra;  Bertoldo = Chiaro e  esperto; Arialdo = saggio d’aria; Ordulfo = lupo di fuoco), i  Consiglieri Segreti, lo “tradiscono” e lo fanno perche’ cortigiani, vassalli infedeli, degni servi del loro debole re.
Cosi’ scatta la molla della vendetta: il desiderio inappagato e inappagabile di riavere quanto e’ stato perduto per indolenza, incapacita’ e paura, cioe’ Matilde-Frida =( Forza-Pace), spinge Enrico-Luigi a provocare, smascherare e di conseguenza a colpire a morte quella parte di se’ che egli considera la causa della sua sconfitta,  il fatuo e insignificante barone Tito ( = difensore e, per estensione, capro espiatorio) . Il  delitto condanna “per sempre” alla parte di Enrico IV, il protagonista senza nome, che avrebbe dovuto ricominciare a vivere e che invece e’ stato costretto dal suo autore a scontare la pena (per  analogia dantesca) di essere re folle per forza, nel suo inferno personale. 

Grazie. F.V.

 

 


 

Enrico IV
(Commento di Natale)

Tutte le sere, per assecondare Enrico IV nella sua follia, si presenta all'imperatore un  tizio che recita la parte del monacello. Questa volta, però, (siamo alla scena finale del 2° atto) ai quattro che recitano la perte dei consiglieri segreti è già stato rivelato dalla stesso Enrico che lui non è matto e che la sua follia, causata vent'anni prima da una caduta da cavallo durante una festa mascherata, è durata solo dodici anni, avendo lui dopo continuato a fingersi pazzo. Quando, dunque, sta per entrare il monacello, dopo aver ascoltato le parole di Arialdo (" Ah, è Giovanni, è Giovanni, che viene come ogni sera a fare il monacello!") e di Ordulfo (che stropicciandosi le mani: "Sì, sì, facciamoglielo fare! Facciamoglielo fare!"), Enrico IV, con severità dice: "Sciocco! Lo vedi? Perché? Per fare uno scherzo alle spalle di un povero vecchio che lo fa per amor mio?". E dopo le parole di Landolfo ("Dev'essere come vero! Non capisci?"), aggiunge: "Appunto! Come vero! Perché solo così non é più una burla la verità!"…"Avanti, avanti padre!".
Mi sono soffermato su questa scena perché voglio sottolineare un fatto importante.
Nel teatro della vita, spesso, nostro malgrado, siamo costretti a recitare ruoli che mai ci saremmo sognati di impersonare. Ora, ciò accade per un fatto singolare: uno spazio tempo unico, dei particolari contatti umani, un clima speciale, un'atmosfera psichica ben definita, fanno sì che quello e solo quello sia il ruolo da recitare. Ma attenzione, questo succede solo ai "personaggi", a coloro, cioè, che ignorano d'essere "attori". In due parole: chi dorme è un burattino, un Pinocchio che come una farfalla si lascia trasportare dai venti degli e-venti. Non cambia nulla che Enrico sia matto o no, il burattino Giovanni farebbe lo stesso. Loro però, i consiglieri segreti che come dei discepoli sono stati condotti alla soglia della verità, hanno la possibilità di provare a se stessi che la parte può essere recitata ancora meglio, anzi in maniera perfetta, "come se fosse vera".
Sì, il luogo del teatro è quello spazio magico che ospita la verità, e recitando la si afferma, ma a condizione che il personaggio venga reso vivo e vero dall'anima dell'attore. Quando un attore s'adira, attinge ad un archetipo con volontà e forza, e lo stesso quando ama: Marte   e Eros s'incarnano in lui, con lui regista. Quando una persona  si lascia prendere dall'ira o dall'amore, è assente, medianica, e tutto diventa negativo, falso, non vero. Il teatro è il luogo degli archetipi e dei miti. In esso non c'è medianità, passività, assenza, ma solo consapevolezza, vita, Verità: "Appunto! Come vero! Perché solo così non è più una burla la verità!…". Ora questa frase, che prima ci era incomprensibile, diventa chiara. Ora ha un senso.
Questo mondo sarebbe il più bel palcoscenico se ognuno di noi, svegliandosi alla propria natura di "attore", smettesse di identificarsi costantemente con quel personaggio in  cui un  giorno (per dirla pirandellianamente) si è compiaciuto. E invece no: esso è una tremenda finzione , una burla collettiva. Con Enrico IV, il grande drammaturgo ce lo dice chiaro e tondo: "Guai a colui che non sa portare la sua maschera, sia da re sia da papa": chi non sa di essere "attore" dei suoi personaggi, chi non sa di essere l'agente, colui che agisce nei suoi burattini, dalla vita avrà solo guai, perché credendo nella maschera che porta diventerà finzione di sé e porterà in fronte il marchio di Caino, di colui che non seppe recitare la parte di sacrificatore ed orante.
Il fascino che gli attori da sempre hanno esercitato è dovuto proprio a questo: alla capacità di sapere ogni volta sgusciare fuori dalla maschera, dal personaggio, e ritornare attori. Aver fuoco dentro, avere un'anima, è la premessa indispensabile per potere "sacrificare" la propria esistenza sulle tavole del palcoscenico della vita. Chi è senza fuoco "crede di vivere, ma rimastica la vita dei morti". Essere "attori" sta a fuoco, come essere "personaggi" sta ad  acqua. Un personaggio senz'anima, senza fuoco, è una bugia. Un personaggio infuocato, è la verità. Ma c'è ancora un'altra cosa. Chi ha un'anima è anche ricco d'immaginazione, e l'"attore" che immagina le parti dei personaggi che andrà recitando, ha dato vita ad una storia con avvenimenti fissati per sempre, "una storia in cui ogni avvenimento si svolge preciso e coerente in ogni suo particolare", ed allora il mutamento diviene modulazione musicale e l'armonia che la vita di quell' "attore" sprigiona è evidente agli occhi di tutti. Ma il rischio è grande, perché il mondo à fatto per la quasi totalità di vuoti e acquosi personaggi privi di anima, ed ogni volta che un vero attore si presenta sulla scena e comincia ad intonare note fuori dai righi musicali, viene preso per matto, additato da tutti come   diverso, strano.   "Non si può aver sempre ventisei anni, madonna!" dice Enrico IV alla fine del II° atto. Chi si inventa un personaggio da vivere e poi lo vive scordandosi di essere attore, avrà sempre 26 anni. La vita va "inventata" giorno per giorno, il nostro essere é sempre lì dove noi siamo, perché l'Essere è dappertutto: non esserci, o il solo pensare di non esserci, vuol dire essere scemi e miopi.
"Al ponte Mirabau passa la Senna. I giorni se ne vanno ed io rimango", diceva Apollinaire. Grande verità  quella racchiusa in questi versi: e per "io" intendiamo "Essere".
Che ciascuno cerchi la propria storia nello spicchio di mente in cui si è rifugiato. Forse un giorno scopriremo che essa, come destino o Karma,  sta scritta tutta, dalla A alla Z, nei nostri geni. Così come siamo, con questa mente, con questo corpo, con questa famiglia, con questo tempo, con questo spazio, la nostra vita non può che essere quella che sarà per essere. Oppure,chissà, forse domani, grazie a semplici calcoli matematici, usando tutti questi dati, avremo la soluzione di essa. Ed allora sì che la reciteremo bene: non potremmo fare a meno di essere "attori", e ci sentiremo "vivi, vivi veramente…" dentro la nostra storia e in quella del mondo.

 

Grazie. Nat



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