Jung visto
da Galimberti: “L'agonia dell'occidente”
"…E così, paradossalmente, questa scoperta
dell'irrazionale,
che si vuol presentare come premessa per la sua
liberazione,
è utilizzata per liquidarlo definitivamente
nell'ingranaggio
del sistema e della sua produzione che, non
contenta di sfruttare
dell'inconscio la sua forza immaginativa, ne
sfrutta anche la forza
del desiderio, allucinandolo con quegli ideali
di creatività,
spontaneità e sessualità che sono poi i nuovi
valori da vendere".
(U. Galimberti - La terra senza il male, Jung:
dall'inconscio al simbolo - Feltrinelli, ed. 97 pag 35).
La tesi di
Galimberti è semplice: tutti i popoli della terra hanno manifestato una
nostalgia delle origini, che altro non è che "nostalgia di un simbolo
distrutto, di un cosmo irrimediabilmente separato dal suo
Logos" (cosmo = ordine, universo; logos = pensiero, parola). La
Terra che abita l'uomo ha, dunque, una sola faccia, mentre la "terra
senza il male" ne ha due: una terrestre e una celeste. Il disagio della
civiltà deriva proprio dalla distruzione di tale simbolo, e non da
altro. Per ricomporre le due parti del simbolo, l' Io deve commettere
una sorta di "suicidio" (che non vuol dire sparizione nell'inconscio, il
che è pericolosissimo), deve rinunciare alla assolutizzazione di sé ed
aprire le porte al Trascendente, all'Altro, a quanto é stato accantonato
dalla filosofia e dalla scienza. Insomma, la ragione deve aprire le
porte alla divina Follia. E siccome la Psicologia Analitica di Jung
propone tutto questo attraverso l'Individuazione, Umberto
Galimberti, con magistrale competenza, ne ripropone le tappe
fondamentali, facendo capire, una volta per tutte, che le scorribande
intellettuali dello psichiatra svizzero in campi apparentemente
lontanissimi dalla psicologia erano solo il riuscito tentativo di far
rientrare dalla finestra quanto era stato sbattuto fuori dalla porta
persino da Freud, che, scambiando i simboli per segni, ne esauriva la
forza, costringendoli ad una morte apparente simile a quella di Dio
proposta da Nietzsche.
Noi non approfondiremo
le conclusioni di Jung dal punto di vista religioso. Che il suo pensiero
conduca ad uno gnosticismo personale ci importa poco. Chi per tutta la
vita ha lottato con tutte le sue forze contro coloro che, con voce
serpentina, "cantavano" la morte di Dio e l'assoluta podestà dell'Io;
chi nello stesso tempo cercava di tenere aperta la porta della
Metafisica, è degno di essere letto e meditato. A superare poi questo
punto di vista rispettabilissimo, c'è sempre tempo.
La tesi di Jung, detta
in due parole, è che attraverso l'Individuazione, grazie alla
funzione Trascendente, deve essere "conseguito" il Sé, il
quale prevede, appunto, un "recupero" dell'Inconscio da parte
dell'Io e dell'Io da parte dell'Inconscio (Io + Inconscio = Sé).
Nella metafora proposta da Galimberti, Io e Inconscio sono le due parti
del simbolo finalmente ricomposto, riunificato: il Sé. Insomma, la sola
ragione, in un mondo dominato dalla tecnica crea il massimo disagio
alla nostra civiltà, perché lascia fuori tutto ciò che la stessa ragione
non può comprendere, tacciandolo di insignificanza. Ma qui, andando
oltre il discorso galimbertiano, è possibile scorgere un doppio
fallimento: quello della filosofia contemporanea, che come scienza del
pensiero prima e della parola poi, come ha fatto l'illuminismo, ha
lasciato fuori dal suo ambito l' Altro; e quello della
psicanalisi Freudiana, che questo altro lo ha esaurito in banali elenchi
di ciò che ogni cosa, in ambito psichico, significa,
dimenticando che la cosa è un simbolo e non un segno. Ma a
supporto del fallimento della filosofia c'è un'altra considerazione da
fare. La Sapienza è una cosa, il filosofo un'altra. Filosofo è chi ama
la Sapienza, non è il Sapiente. Costui non avrebbe potuto mai decretare
la fine della Metafisica sol perché nell'era della tecnica e della
scienza in genere il metafisico lo si fa corrispondere al non-essere di
Parmenide: il non- essere non è, punto è basta. Fu Jaspers, nella sua
Opera Filosofia, a sottolineare come la Filosofia non è sapienza
ma amore della sapienza (riportato da Galimberti in La casa di Psiche
- dalla Psicanalisi alla pratica filosofica - Feltrinelli, pag.
365). Jaspers aggettivizza la filosofia come acerba, ed ha
perfettamente ragione: non è matura. Lo sarà solo quando i filosofi
smetteranno di chiamarsi così per prendere finalmente il nome di
Saggi. Nella parola saggio il sapere è frutto di esperienza
e non di solo pensare e parlare. Se la razionalità ha avuto ragione
del suo contrario (irrazionalità intesa non nel senso negativo), non
vuol dire che la realtà vera è suo appannaggio. Se Io è il
razionale e Inconscio è l'irrazionale, quest'ultimo non può
essere buttato via, o peggio, ridotto ad un pozzo d'energia per
rafforzare l'Io (e ciò è quanto si propone di fare Freud). Io e
Inconscio, fisica e metafisica, uomo e Tao, uomo e Dio non
possono essere separati né tanto meno si può essere così
superficiali da decretare la morte di Dio per il semplice fatto di
dichiararla. E qui la tentazione di uscire dall'ambito psicologico
è forte: come si può essere così sciocchi da continuare a chiamarsi
isola (leggi Io) anche dopo che si è prosciugato il
mare (leggi Inconscio) che la autorizzava a chiamarsi con
tale nome? Galimberti, nel suo succoso libro Il Tramonto
dell'Occidente nella lettura di Heidegger e Jaspers - Feltrinelli,
pag. 153, dopo avere dichiarato che l'incompatibilità tra Eraclito e
Parmenide è uno dei luoghi comuni della storiografia filosofica,
sostenendo la tesi contraria aggiunge che Eraclito rileva che se il
positivo non fosse messo in relazione al negativo non sarebbe positivo.
Insomma, diciamo noi, Io senza Inconscio sarebbe una
burla. Ecco perché Galimberti può dire che il disagio della civiltà a
cui si rassegna Freud è inevitabile solo se ci si ostina nel monoteismo
della ragione e nel suo rifiuto a percorrere i sentieri
dell'ambivalenza simbolica. (La terra senza il male, pag. 17). Ed
ecco anche perché Platone nel suo Fedro distingueva la follia comune da
quella divina: la prima capita alla ragione che si ostina nel suo
prevalere; la seconda è concessa alla ragione che accetta la sua
impotenza (id.). L'unilateralità è una brutta "malattia". Chi è
convinto, per il solo fatto di usare solo la ragione, di essere
depositario della verità è un pericolo pubblico.
Il simbolo, al contrario
del segno, non rinvia a cose note, dice Jung. Liberare l'Irrazionale
(cosa che i nichilisti hanno predicato a tutte le ore) non deve essere
il mezzo per vincere l'alienazione imperante. Occorre affiancare il
razionale all'irrazionale: ricomporre il simbolo. Questo è quello che
Jung propone e che Galimberti condivide e amplifica magnificamente. Egli
non condivide affatto la teoria di Freud, secondo cui tale alienazione e
quindi il disagio della nostra civiltà occidentale è inevitabile perché
deriva dalla repressione e dalla rimozione delle pulsioni, ma sposa la
teoria junghiana che vede tale disagio nella repressione e nella
rimozione dei simboli (id. pag. 67). Ma la differenza fra i due geni
della Psicanalisi e della Psicologia Analitica non sta solo in questo:
il processo di individuazione junghiano "non è un itinerario teorico"
perché "i simboli che ne scandiscono le tappe non rispondono ad un
sistema teorico di significazione ma a un processo operativo di
trasformazione" (id. pag. 75). Il guaio nasce dal fatto che Freud,
in un primo momento riconosceva nell'uomo sia lo spirito che gli
istinti, ma poi, strada facendo, privilegiò i secondi e smarrì il primo:
gli istinti divennero tutto. "La teoria di Freud - sottolinea
bene il Galimberti a pag. 79 della "Terra senza il male" - rimase
definitivamente imprigionata nella riduzione dell'essenza dell'uomo alla
sua istintualità… l'uomo si risolve in quella sua natura istintiva"
ed il resto non conta, è contorno. A questo punto balza evidente agli
occhi quale è la differenza vera fra i due pensatori: per Freud il vero
rimosso della nostra civiltà occidentale è l'istinto, per Jung
invece è la Trascendenza. Insomma, ogni fenomeno
psicologico deve essere considerato un simbolo, ci dice Jung in
Tipi psicologici, ma così facendo - e ce lo ricorda Galimberti -
"sottrae la psicologia allo statuto della scienza (id. pag. 92). Il
simbolo è ricomposto: "essere e non-essere sono dunque il contenuto
originario della coscienza". Ma non è solo coi ragionamenti che Jung ha
ragione: i fatti hanno smentito questa parte di teorie freudiane: la
piena estrinsecazione delle pulsioni ha solo riportato l'uomo a livello
bestiale, e le cronache grigie e nere quotidiane ce lo confermano
ampiamente. "Con la funzione trascendente, l'uomo oltrepassa la sua
situazione egoica", nel senso di disporsi all'ascolto di ciò che
trascende la coscienza. E invece in quest'occidente al tramonto,
l'uomo…"abbandonandosi completamente alla terra" (eliminando il
cielo, il Dio morto di Nietzsche)…finisce con l'assomigliare a
qualsiasi altro essere vivente e non più a se stesso" (Id. pag.
139). Dopo la morte di Dio , dice Galimberti, (ma per noi dire che Dio
è morto è un assurdo) dobbiamo uscire sia dalla visione oggettivistica
che pensa l'uomo come una qualunque cosa tra le cose, sia dalla visione
soggettivistica che riduce l'uomo alla sua egoicità. Dio è indistinto,
ci dice Eraclito nei suoi frammenti, per Lui tutto è bello, buono e
giusto. "A questa indistinzione di Dio, a questa sua incapacità di
riconoscere la differenza, a questa sua tendenza ad abolirla con un atto
violento, la psicanalisi ha dato nome di inconscio. La scoperta
di Freud è nominalistica. Gli uomini hanno sempre conosciuto l'inconscio
sotto la specie del divino e del sacro" (Galimberti - La terra
senza il male - Jung: dall'inconscio al simbolo - Feltrinelli, pag.
166). Lo abbiamo sottolineato questo brano, perché lo sottoscriviamo al
100%. Ma nemmeno il nome è di Freud: è von Hartmann che conia il termine
"inconscio", di cui spirito e materia sono due diverse rappresentazioni.
Quanto al concetto, molti filosofi lo hanno anticipato: Leibniz, Kant,
Locke, Schelling, Schopenhauer, per non parlar di Nietzsche. Il
simbolo, ci ricorda Galimberti, era quel coccio di pietra che, spezzato,
testimoniava il legame fra due persone, due famiglie in procinto di
separarsi. Ognuno portava con se la propria metà, e quando ci si
rincontrava le due parti si ricomponevano, e l'unita` dei due cocci
attestava un legame che la lontananza non aveva spezzato. Con Jung, con
il suo processo di individuazione, abbiamo l'opportunità di ricomporre
conscio ed inconscio nel Sé. Ma il sacrificio dell'Io può essere
pericoloso, ed allora è necessario che "la ragione non più dominante"
rimanga come Io-Spettatore. Qui sarebbe facile aprire una parentesi,
per accostare le teorie junghiane alla filosofia indiana, in particolare
quella del Vedanta. Ma non è nostra intenzione appesantire ulteriormente
questo breve saggio. Il lettore potrà farlo per proprio conto.
Vogliamo concludere
questo breve scritto con un passo del bel libro di Galimberti: "Se il
sacro si allontana troppo si rischia infatti di dimenticare le regole
che gli uomini hanno appreso per proteggersi, e allora il sacro irrompe
e la sua violenza produce quel vero e proprio dia-ballein (diavolo)
che è la dissociazione: essere posseduti dall'inconscio significa
appunto essere dilacerati" (Op. cit. pag. 216).
Grazie, Natale Missale
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