VAN GOGH
Geografia di
un'anima
Nel film di Bernardo
Bertolucci Il piccolo Buddha, uno dei monaci tibetani incaricato
di indagare in quale corpo fosse trasmigrata l'anima di un lama,
concludeva la sua ricerca affermando che, dividendosi in tre, essa si
era incarnata in tre bambini. Per un occidentale una cosa del genere è
inaccettabile, ma vi assicuriamo che nel caso di Theo e Vincent van Gogh
la cosa l'abbiamo giudicata possibile almeno come ipotesi. Il destino di
questi due fratelli è così intrecciato, così legato da far davvero
pensare ad una sola psiche per due individui. Un profondo affetto
legherà i due per tutta la vita in una sorta di complementarietà di
caratteri: Vincet timido, solitario, burbero, scontroso, testardo, quasi
misantropo; Theo, più giovane del fratello, socievole, ordinato,
malleabile, oculato. Diciamolo subito: senza il costante e ammirevole
aiuto economico di Theo, Vincent, forse, non sarebbe stato il pittore
che è stato. Pur non condividendo a volte le scelte di suo fratello,
della famiglia è stato l'unico che alla fine lo ha sempre seguito e mai
abbandonato al suo destino. Ma di questo avremo modo di parlare.
Qualcuno si chiederà: ma che
c'entra van Gogh in un sito del genere? La risposta è semplice: era un
pensatore, un ricercatore, un'anima buona, che sotto la spinta dell'
utopia socialista allora nascente e di un misticismo protestante che fin
da bambino aveva respirato in casa (suo padre era pastore protestante),
ha vissuto più per gli altri che per se stesso. La sua dedizione al
prossimo, ai bisognosi, è stata davvero eroica, ed anche quando, nella
seconda parte della sua vita, abbandonerà il misticismo, il suo
altruismo rimarrà intatto, la sua bontà inalterata. Certo, lo diciamo
fin da adesso, noi siamo contrari al suicidio, ma nel momento della sua
vita in cui decise di farla finita, Vincent considerava il suo vivere
alla stessa stregua di un accanimento terapeutico su un malato
terminale: le sue sofferenze fisiche e psichiche avevano superato ogni
limite. "Non piangere - dice a suo fratello Theo, che disperato
lo va a trovare mentre è ancora in vita e con una pallottola in corpo -
l'ho fatto per il bene di tutti" (Van Gogh - Dino Formaggio -
Mondadori, pag. 181, ed. 1956). Se non giustificare, si può comprendere
la portata di questa frase solo dopo avere letto la storia della vita di
questo straordinario personaggio, che nel mondo dell'arte è diventato un
vero e proprio mito. Ovviamente, non essendo noi esperti di pittura e
disegno, non potremo approfondire l'artista, ma nulla impedisce al
profano di esternare le proprie emozioni e impressioni relativamente
alle centinaia di opere di Vincent. Il suo furore creativo traspare da
ogni pennellata, i suoi colori esplosivi sono là a portata di chiunque,
la corrispondenza con Theo, che per noi fa parte integrante dell'opera,
può essere letta da chiunque ne abbia voglia. E' attraverso tutto questo
che abbiamo voluto ricostruire la geografia dell'anima di van Gogh, per
rendere omaggio all'uomo e all'artista.
Vincent van Gogh nasce a
Groot-Zundert (Villaggio del Brabante - frontiera tra Olanda e Belgio)
il 30 Marzo 1853, e muore il 29 Luglio 1890 a Auvers-sur-Oise (Francia)
a soli trentasette anni. Più che una fiammata, la sua vita è stata un'
esplosione abbagliante. La sua parabola d'artista è stata brevissima,
dal 1880 al 1890: dieci intensissimi anni di composizione e ricerca.
Cosa cercava? L'essenza delle cose, quella luce che si scompone in mille
colori, quell'anima delle cose che si manifesta in pensieri, sentimenti,
corpi, atti, e che un pennello ispirato può riversare su una tela che
può contenere infinite possibilità. Ma ancora non è tempo di pittura: la
natura, per Vincent ragazzo solitario è uno spettacolo sublime, che
nelle sue passeggiate vuole già condividere con Theo. Questo collante,
più tardi sarà sostituito dalla pittura (Pierre Leprohon - Van Gogh -
RCS - Fabbri), e l'autore appena citato suggerisce che già verso i
quindici anni Vincent ha già consigliato al fratello più piccolo quanto
gli dirà a vent'anni in una lettera da Londra: "Trova bello tutto ciò
che puoi" (Op. cit. pag. 24). Questa frase, se viene letta bene e
scandagliata a fondo dà l'idea di ciò che van Gogh si proponeva di
conseguire: il Bello. Significa ricercare il nucleo centrale di
ogni cosa, la bellezza, che non può che corrispondere alla
bontà, all' essenza, all' amore. Tutta la pittura di
Vincent altro non si propone che questa ricerca. *
Ma ancora è giovane, e la sua
famiglia cerca di trovargli un impiego. Il suo incontro col mondo del
lavoro risale al 1869: farà il commesso alla galleria Goupil & C.
diretta dal sig L. Tersteeg, all'Aia. Vi rimarrà tre anni, lavorandovi
con serietà. La prima lettera spedita al fratello Theo, più giovane di
lui di 4 anni, risale al 1872. Nel maggio dell'anno dopo viene
trasferito a Londra. Nel 1875 altro trasferimento a Parigi presso i
successori di Goupil, alla galleria Boussod e Valadon. Risale proprio a
quest'anno la sua crisi mistica, esplosa forse anche a causa della
prima delusione d'amore. E' stato rifiutato nonostante i suoi sinceri
sentimenti d'amore, nonostante la sua bontà, il suo altruismo e tutte le
altre virtù. Certo ha pure i suoi bravi difetti, ma perché viene
respinto? Probabilmente a causa della sua timidezza e della sua mancanza
di scioltezza: il timido è capace di allontanare chiunque, riesce a
mettere a disagio anche la persona più disponibile, è un vero e proprio
respingente. Ecco che il suo amore viene pian piano indirizzato altrove:
verso i bisognosi. Minatori, ed in genere ceti sociali più deboli, d'ora
in avanti potranno contare sulla sua carità Cristiana. Vincent,
applicando la parola del Vangelo, spinge la sua carità fino all'eroismo
dei santi: si spoglia di quel poco che ha per darlo ai poveri, dando
così inizio ad un lunghissimo periodo di sofferenze fisiche e psichiche
che metteranno a dura prova il suo corpo e la sua mente, e che, come un
tarlo, rosicchieranno parte delle sue energie. Il resto delle sue forze
sarà diretto verso il disegno prima, e la pittura dopo. Ci stiamo
avvicinando a gran passi al 1880, che lo fionderà verso un decennio di
furore compositivo. Ovviamente, presso i musei francesi e inglesi aveva
fatto il pieno della genialità dei maestri della pittura di ogni tempo.
Colori, luci, soggetti, stili, ma soprattutto la mente che li aveva
prodotti. Accostandosi ai grandi egli scopre il pensiero di ognuno di
loro, e da lì muove alla scoperta del proprio sentire-pensare. Quindi,
all'amore per la natura che fin da bambino ha nutrito, ora si aggiunge
l'amore della religione e del prossimo. Ma oltre al Vangelo e al
misticismo, ciò che avvicina Vincent ai poveri è la porta della
sofferenza attraverso cui può entrare nell'animo umano. Ma non basta:
sarà soprattutto la sua sofferenza che aprirà la porta del suo cuore, ed
oltre al prossimo conoscerà se stesso. Quando più tardi si accompagnerà
ai contadini, ai tessitori, alle persone semplici e popolane, scoprirà
diverse altre porte: quella dell'umiltà, della spontaneità, della
semplicità, dell'immediatezza, dell'amicizia, del calore umano. E tutto
questo è possibile coglierlo in tutti quei disegni e quadri che per
soggetto hanno il seminatore, il contadino in genere, il tessitore, il
postino, ecc. Saranno poi i colori e le pennellate che, attraverso
queste porte, permetteranno a Vincet di penetrare nel cuore dei suoi
modelli. Ma detto questo, non possiamo non considerare i quadri
meravigliosi di Van Gogh come vere e proprie aperture che introducono
alla vera natura, all'essenza dell'uomo. Piano piano in Vincent si
delinea lo scopo della sua vita. Egli quando osserva la natura scappa
letteralmente dagli occhi per immergersi in essa, per esserla in una
sorta di unione estatica. Ma questo andare oltre se stesso, questo
sconfinamento psichico, questa espansione di coscienza, facendogli forse
venire meno la stabilità dell' io, della illusoria personalità,
lo proietta contemporaneamente in una notte oscura particolare, in cui
la sua anima ha una sola certezza e speranza: illuminarsi della stessa
luce che assapora in tutto il creato e che certamente anima e sostiene
lui stesso. Il sentiero che la sua pittura imbocca è stretto e
personalissimo, anche se si lascia penetrare dallo stile e dalle idee di
qualche maestro. L'originalità dei suoi quadri, oltre che nei colori
dotati di anima, è tutta in quelle furiose pennellate: ogni colpo di
pennello è un istante di tempo ed una porzione di spazio che hanno lo
stesso peso di tutti gli altri. Aldilà della prospettiva, delle vie di
fuga, e di tutto ciò che la tecnica può suggerire, ogni quadro di
Vincent non ha un solo centro: ogni pennellata è un sole attorno a cui
ruotano tutte le altre pennellate-soli. E la sua furia compositiva
tendeva a realizzare in brevissimo tempo una concentrazione di piccoli
presenti in un presente più vasto. Insomma quando Van Gogh dipingeva si
catapultava in una sorta di dimensione a-spaziale ed a-temporale: il suo
lavoro d'artista non era altro che il risultato di un' autonoma
autodeterminazione del quadro, che facendosi da sé lo costringeva a
"perdersi" per tutto il tempo della creazione. Sì, Vincent non è un
pittore, ma la pittura, una canzone che si canta da sé. Egli, l'uomo, è
un pretesto perché alcune centinaia di quadri sboccino come fiori in un
prato di primavera. Dov'è dunque il pittore? Non c'è: è scomparso lo
stesso giorno che ha sposato la luce ed i colori cui essa dà vita. La
cosiddetta follia vangoghiana è nata in quel momento. Gli attacchi
epilettici servono solo a staccare il biblietto ad un uomo che aveva
esaurito il discorso, che aveva dato tutto quello che doveva dare, che
aveva detto e fatto quanto doveva. Van Gogh è un prisma composto di
carne e di sangue, che un bel giorno, svegliatosi alla natura luminosa
dello Spirito, della Vita Universale, si è lasciato trapassare dalla
luminosità di tale Essere, e ha dato vita a quel maestoso arcobaleno
formato dalle sue opere. Solo una tempesta di luce poteva dar vita ad un
tale Arco dell' alleanza.*
Ma torniamo al Vincent
mistico. E' il momento delle tenebre: ha scoperto in sé la stessa
sofferenza che vedeva e curava nei più umili, ed è perfino sceso in
miniera con i minatori per assaporarla fino in fondo, per viverla
completamente. La sua pietà, la sua compassione, straripano, e facendosi
apostolo di Gesù applica alla lettera il Vangelo dando tutto ciò che
possiede. Ed è così che comincia ad essere guardato con sospetto.
Osserva giustamente il Leprohon nell'opera citata: "Per l'uomo è
impossibile seguire alla lettera il messaggio di Cristo senza provocare
intorno a sé stupore, disprezzo e inquietudine" (pag. 74). Noi
aggiungiamo anche "sospetto": non sarà pazzo uno che si comporta così?
Ora, che la gente comune si stupisca e s'inquieti per tale comportamento
è pure comprensibile, ma che uomini di chiesa lo definiscano
"evangelista incompleto" solo perché non ha lo scilinguagnolo sciolto, e
gli impediscano per questo di predicare sia pure con parole semplici ma
con fervore di vero cristiano, ci sembra quasi ridicolo. Il Maestro Gesù
sapeva queste cose e ci aveva fatto i calli: "Gerusalemme,
Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi coloro che sono mandati a te,
quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli come una gallina la sua
covata sotto le ali e voi non avete voluto!" - (Vangelo di Luca XIII,
34), il povero Van Gogh, ipersensibile e scontroso, non capisce proprio
il comportamento dell'Unione delle Chiese protestanti del Belgio che gli
impedisce la permanenza nel Borinage in qualità di evangelizzatore. Ed
ecco dunque una nuova batosta. Ma non sarà l'ultima. Nel 1881 si
invaghisce della cugina Kee Vos Stricker che è da poco rimasta vedova, e
nonostante il rifiuto di essa insiste fino quasi ad importunare la
ragazza. Per fortuna ha già iniziato a disegnare e comincia a vedere
nella pittura una finestra sul Divino: " Cerchiamo di capire la
parola definitiva contenuta nei capolavori dei grandi artisti, dei veri
maestri, e vi si troverà Dio " (Op.cit. pag. 80) - dirà in una
lettera. Ma non solo: egli vede nella pittura un mezzo per continuare il
suo discorso mistico consolatorio: "In un quadro, vorrei dire
qualcosa di consolante, come una musica…" (Id.). Vincent
però trova consolazione anche nelle buone letture (Bibbia, Sakespeare,
Zola, Maupassant, Daudet, Huysmans, Dickens, ed altri), che lo
influenzeranno molto e contribuiranno ad alimentare quel fuoco
mistico-altruistico che non si spegnerà mai, e che lo renderà
consapevole di poter essere un faro per gli altri, prima come
evangelizzatore, e poi, abbandonata la via mistica, come pittore, ovvero
come faro di luce: "Be', cosa vuoi - scriverà a Theo - quello
che uno ha dentro traspare anche al di fuori. Uno ha un grande fuoco nel
suo cuore e nessuno viene mai a scaldarsi vicino, e i passanti non
vedono che un poco di fumo in cima al camino, e poi se ne vanno per la
loro strada…" (Id. pag. 84). Van Gogh non sa se limitarsi ad
alimentare quel fuoco interno, oppure con pazienza attendere che
qualcuno gli si fermi accanto. Ma in questo periodo, viene fuori dal
cuore di Vincent una frase che testimonia un reale e profondo lavoro che
egli ha saputo fare in se stesso, culminante in un allargamento di
coscienza, che secondo il nostro modesto parere non perderà mai, nemmeno
quando vedrà il suo periodo mistico come una semplice parentesi o come
una fissazione: " Eppure - scriverà al fratello Theo -
sono buono a qualcosa, sento in me una ragion d'essere, so che
potrei essere un uomo completamente diverso… C'è qualcosa in me, che è
dovunque?" (id. pag. 85). Ci troviamo di fronte ad un
interrogativo che troverà un'esaltante risposta nei suoi quadri, nella
natura, umana e non, su cui si stenderà, in cui si immergerà e
annienterà in una finale esplosione di luce e colori incredibili. La sua
sterminata opera frutto di soli dieci anni di febbre pittorica sarà quel
qualcosa. E questo, nonostante quella fondamentale domanda
continuerà a martellarlo per tutta la vita. Ora, però, siccome la sua
vita gli ha cucito attorno una sorta di gabbia che lo fa sentire
carcerato, confessa al suo affettuoso fratello di sentirsi come un
uccellino in gabbia che a primavera sa perfettamente che c'é "qualcosa
per cui egli è adatto… Non se lo ricorda bene: ha idee vaghe e dice a se
stesso: 'gli altri fanno il nido, e i loro piccoli e allevano la covata',
e batte la testa contro le sbarre della gabbia. E la gabbia rimane
chiusa e lui è pazzo di dolore". (Id). Vincent sa bene che le sue
sbarre sono frutto di timidezza, disgrazia, circostanze; a sa anche cosa
occorre per far scomparire queste sbarre: "un profondo affetto":
l'amore spalanca la prigione, e chi non riesce ad amare rimane
chiuso nella morte, dirà con parole profonde. Certo, l'amore è lì
dappertutto: bisogna solo amare, per essere veramente. Ogni essere
esistente ha un'amore da mostrare, e lo puoi dire vivente solamente se
sa amare, dicevamo in una canzoncina di qualche anno fa. Lo pensiamo
ancora e condividiamo dunque il pensiero di Van Gogh. Da questo
momento in avanti Vincent si nutrirà più di pittura che di pane, come
sottolineerà bene Leprehon. L'arte per lui è gelosa ed esigente, e
richiede quindi la totalità dell'artista. E così sarà.*
Povero Vincent, la gente
vedeva davvero solo un po' di fumo uscire dal camino, e non era in grado
di scorgere la luce ed il calore della sua fiamma. Lui si trovava a suo
agio con vestiti comodi e semplici e la gente guardava solo quello: "Se
quindi ci si mette a muovere osservazioni sui miei modi, i miei abiti,
il mio viso e il mio modo di parlare e di vestirmi: cosa vuoi che
risponda? Che queste sciocchezze mi infastidiscono" (Id. pag. 106).
Adesso figuriamoci la reazione della gente al fatto che Van Gogh prenda
sotto la sua tutela una prostituta abbandonata, povera e affamata.
L'individuo è da tenere d'occhio per come veste, per come parla, per
come è, per le sue compagnie, ecc. Ma il nostro amico in una commovente
lettera al fratello Theo risponde: "Bene, signori, vi dirò, voi che
apprezzate la buona educazione e la cultura, e a ragione, se solo
fossero della specie reale, quale di queste due cose è più delicata,
raffinata, virile, l'abbandonare una donna o il sostenere una donna
abbandonata?" (Id. pag. 109). Siamo nell'anno 1882 quando inizia la
sua relazione con Clasina Maria Hoornik, prostituta di trentadue anni,
incinta e madre di una bambina. Tale relazione durerà poco più di un
anno, durante il quale lei sarà anche la sua modella. Con la bambina si
mostrerà tenero ed affetuoso. Questo era Van Gogh, ed un tipo così non
poteva certo esser capito dalla gente, né tanto meno dai suoi familiari,
padre pastore compreso. Intanto si sposta di qua e di là (chi ne volsse
sapere di più può attingere ad una delle numerose biografie: noi
consigliamo l'opera del Leprohon già citata). Comincia a dipingere con
furore. La natura gli parla continuamente, gli lancia messaggi di
bellezza e di intimo contenuto, che egli come uno stenografo trascrive
più in fretta che può: "…Nella mia stenografia (cioè nei suoi
"veloci" quadri) ci sono forse parole che non si possono decifrare,
forse ci sono errori o vuoti; ma in essa c'à qualcosa di quanto mi ha
detto quel bosco o quella spiaggia o quella figura" (id. pag. 121).
In questo periodo confessa al fratello di avere la pittura "fin nel
midollo delle ossa". Il timido grande pittore si è ridotto ad
occhio, cuore e pennello: vive sempre immerso nella Vita cantata da ogni
cosa, sia essa un volto, un paesaggio, un seminatore, una cosa
qualunque. Non ha un solo secondo da poter dedicare alla cura della
propria persona, ecco il perché della sua goffagine, della sua rozzezza,
che unite alla sua timidezza innata ed al suo aspetto trascurato fanno
di lui un pesce fuor d'acqua nella società in cui vive. Né va ricercando
la popolarità, pur ammettendo che l'apprezzamento per il suo lavoro gli
fa piacere. Per lui la notorietà è la cosa "meno invidiabile al
mondo" (Id. 122). Ma ciò che gli darà sempre molto fastidio è il
commercio delle opere d'arte. E' un periodo di stenti e miseria. A
volte non è solo lui ad aver fame, ma anche la sua tavolozza: gli
mancano i colori. Si leva all'alba, percorre chilometri a piedi, inizia
a dipingere, e poi si deve fermare perché s'accorge che gli manca questo
o quel colore. Viene invaso dalla tristezza, e tutte le volte lo
comunica a suo fratello Theo. Ma come un chicco di grano si abbandona
sempre più alla terra per sprofondare con le sue radici in essa, e poi,
col germoglio iniziare la sua scalata verso la luce del sole: "…Se si
vuole crescere…bisogna sprofondare nella terra". Lo stesso diceva
Nietzsche con la metafora dell'albero nella sua opera, più o meno nello
stesso periodo. E intanto dipinge, ripercorrendo da solo tutto il
percorso che gli impressionisti hanno fatto insieme. I suoi soggetti
preferiti sono contadini, persone semplici, comuni, e paesaggi di ogni
genere. Quante volte racconta a suo fratello le meravigliose tonalità di
colori che assumevano albe e tramonti! Theo, tranne che per qualche
breve periodo, non gli fa mai mancare il suo appoggio economico ed il
suo affetto. E' a lui che Vincent confida quale è lo scopo del suo
dipingere: "…Ciò che voglio esprimere: che tutti gli oggetti sono
rotondi, che la forma non ha per così dire né inizio né fine, che essa
costituisce un insieme vivente e armonioso…ciò che cerco di imparare non
è disegnare una mano, ma un gesto, non una testa matematicamente esatta,
ma l'espressione profonda. Per esempio, il vangatore che fiuta il vento
quando leva per un istante la testa, o che parla. Insomma, la vita".
Piano piano, Vincent, scolpendo sé stesso, si toglie di torno tutto il
"marmo" superfluo e mette a nudo la sua essenza, ciò che il suo
dipingere gli permette di essere: un testimone di vita: "Divento ciò
che veramente ero" confesserà a Theo. Piuttosto che cattedrali
maestose, preferisce dipingere gli occhi di un essere umano, attraverso
cui, questa vita, traspare in tutta la sua potenza. E gli amici di
Vincent dovevano avere questo tipo di occhi vivi: il suo amico pittore
Bernard con cui corrisponderà per cinque anni, la famiglia Roulin, la
signora Ginoux, il sottotenente Milliet, tutti gli amici di Auvers, ecc.
Ma mentre dipinge deve combattere con la forza del Maestrale, col
fastidio delle zanzare, con la fame cui deve far fronte con un pezzo di
pane e formaggio o pane e latte, quando se lo può permettere. In questo
periodo febbrile, nei suoi quadri appare per la prima volta il sole che
spesso sarà compagno del seminatore, un tema ricorrente nelle sue tele.
Ma è anche il periodo in cui, a causa della povertà (non può permettersi
di pagare modelli) deve rinunciare agli amati ritratti, attraverso cui
riesce a sentire l'infinito (parole sue). Pierre Leprohon paragona il
Van Gogh di questo periodo ad un Prometeo che, nel corso di giornate
intere passate a dipingere, vuole rubare l'oro al sole del Mezzogiorno.
Anche la notte, però, lo costringe a dipingere le stelle ogni qualvolta
ha bisogno di trascendenza: "Ho un grande bisogno, diciamo la parola,
di religione, allora di notte vado di fuori a dipingere le stelle"
(id. 225). E' il tempo in cui confida al fratello che, come per
viaggiare sulla terra occorre prendere il treno, per andare su una
stella occorrerebbe prendere la morte…morire di vecchiaia sarebbe
come viaggiare a piedi. Triste anticipo della sua fine, questo. Ma
egli si è gia inbarcato sul missile dell'arte, che in brevissimo tempo
lo condurrà, per sua lucida volontà, nella sua stella. Ed i quadri "mi
vengono come un sogno" confiderà a Theo, che aiutandolo fa (glielo
dice) opera d'artista. Il decennio scivola via fra stenti, fumo, alcool,
e soprattutto pittura. Il suo altruismo, che non lo ha mai abbandonato,
gli suggerisce di fondare una sorta di comune per pittori, "lo Studio
del Mezzogiorno". Ma le persone buone di cuore ed altruiste sono
convinte che anche gli altri siano come loro. Purtroppo non è così. Dopo
aver diviso lo studio con Gauguin, se ne rende perfettamente conto. Il
suo ospite ha una personalità forte, e, a differenza di Vincent, è un
ciclopico egoista ed opportunista. E' in questa "casa gialla" che le
discussioni si susseguono. Fino a che, un bel giorno, a seguito di un
alterco, Vincent dapprima minaccia Gauguin e poi, dirigendo verso se
stesso la sua rabbia, si stacca il lobo dell'orecchio sinistro, lo
avvolge in un panno e lo consegna ad una prostituta in un bordello. In
verità, le versioni del litigio sono diverse, ma ciò per noi ha poca
importanza. Quel che conta e che da questo momento in poi, ad intervalli
più o meno lunghi, delle particolari crisi epilettiche colpiranno
Vincent. Quanto alla macabra offerta dell'orecchio alla prostituta, dal
momento che Van Gogh aveva assistito a numerose uccisioni di toro
nell'arena di Arles, aveva fatto come il matador, che dopo l'uccisione
offre l'orecchio del toro alla "dama dei suoi pensieri". A nostro
parere, Vincent si era accorto di come l'ira funesta l'aveva quasi
sommerso e trasformato in un toro pericolosissimo, e siccome mai e poi
mai sarebbe stato capace di far del male ad un essere umano, ferendo se
stesso ha ucciso il toro che era in lui, la sua rabbia, e poi, imitando
il torero, ha consegnato il trofeo ad una prostituta cui voleva bene.
Cominceranno, da qui in avanti, le crisi epilettiche caratterizzate da
diffidenza, tristezza, aggressività, ira, irritabilità. Non può essere
diagnosticata per lui alcuna forma di schizofrenia perché le sue facoltà
mentali non si sono mai indebolite progresivamente così come
richiederebbe la malattia. Quindi, dire che Van Gogh era pazzo è una
grossa bugia. E' in questi frangenti che Vincent viene confortato dai
veri amici. Il possente Roulin e tutta la sua famiglia, per esempio, non
lo abbandonano, non fuggono davanti alle sue stranezze. Gli dimostrano
il solito affetto e la solita pazienza. Che il suo sia stato un gesto di
collera è testimoniato da una sua lettera a Theo a proposito di Gauguin:
"Non dovrebbe cominciare a capire che non eravamo i suoi sfruttatori,
ma che al contrario ci premeva di salvaguardargli l'esistenza, la
possibilità di un suo lavoro e…e… la sua onestà?" (id. pag. 252).
Vincent giudicava Gauguin un irresponsabile, ed inoltre gli ha visto
fare cose che mai i due fratelli si sarebbero sognati di fare… Come una
barca nella tempesta, Van Gogh, nonostante i pochi robusti affetti di
gente semplice e umile, va verso il naufragio, verso la tragedia.
Insonnia, incubi, ricoveri richiesti da tutto il paese, spazi limitati,
gli danno le botte finali. Ma non smette mai di dipingere: medici, sale
d'ospedale, camere di case di cura, giardini interni, ecc. Né pone fine
alla corrispondenza col fratello su cui riversa montagne di riconoscenza
e di affetto, e con invio continuo di quadri che dovrebbero ripagarlo
della sua bontà. Capisce però che ora il fratello è sposato, che ha una
moglie ed un figlio (che porterà il suo stesso nome) da mantenere. La
sua malattia, più tutto questo, lo porteranno con spietata lucidità a
"togliere il disturbo". Una tremenda macina lo sta per triturare come
grano destinato alla panificazione: "Sento talmente che la storia
delle persone è come la storia del grano, se non si è seminati nella
terrra per germinarvi, succede che si è macinati per diventare pane"
dirà in una lettera a Theo.
E' incredibile come strane
coincidenze temporali conducono Van Gogh e Nietzsche verso destini quasi
identici: nel 1890 la loro opera è compiuta e così pure la loro vita: il
filosofo tedesco passerà ancora dieci anni di vita vegetativa da folle,
ed è quindi come se a quella data fosse già morto; Vincent, intuendo che
potrebbero passare ancora dieci anni di vita in condizioni psichiche
instabili ed in povertà, decide di rendere l'anima a Dio con un gesto di
autodistruzione. L'anima, agli uomini l'aveva già resa nel corso di
tutta la sua vita, prima in uno sconfinamento nelle bellezze della
natura e dell'uomo, e poi in una implosione pittorica nel recinto di
centinaia di quadri "vivi" di Vita. Entrambi, ultimata la loro opera,
cominciano ad essere apprezzati dal mondo. Non daremo nessun particolere
del suicidio perché noi la pensiamo come Georger Braque: "E'
l'artista che deve nutrire la pittura, nutrirla con la sua carne, con il
suo spirito, fino quasi a perderne conoscenza, a perderne il suo sangue
profondo. Impegnarsi fino al pericolo nella via della fedeltà totale.
L'arte è una ferità che diventa luce" e, come aggiunge
molto opportunamente Leprohon "E' questa ferita che ha ucciso
Vincent" (Id. pag. 310).
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Grazie, Natale Missale. |